Ricordo di Indro Montanelli

Fra i lettori c’è forse qualcuno, meno giovane, che si ricorda del colonnello Bernacca. Un simpaticissimo personaggio che nella seconda metà degli anni Settanta ci raccontava in televisione le previsioni meteorologiche. Mi capitò un giorno di incontrarlo e gli dissi “Mi tolga una curiosità, colonnello; perché invece di ‘pioggia’ dice sempre ‘precipitazione’?”. La risposta fu di un uomo sorpreso. “Certo” mi rispose; ”perché siamo in televisione; parliamo al pubblico, dobbiamo parlar bene, e ‘precipitazione’ è più bello di ‘pioggia”.

Questo richiamo scherzoso al colonnello Bernacca non è un espediente per ricordarci che Montanelli non ha mai usato e non avrebbe mai usato “precipitazione” al posto di “pioggia”, perché non amava le parole ricercate e anche perché amava le parole precise; “precipitazione” ha bisogno di un aggettivo; può essere “piovosa”; “nevosa”, “temporalesca” e così via. Se è “piovosa”, è “pioggia”. E che cosa c’è meglio di “pioggia”? Montanelli ha sempre scritto “pioggia”. “Pioggia” se era pioggia; ma anche “pioggerella” o “pioviggine” o “acquazzone” o “scroscio” o “diluvio”, secondo i casi; non “pioggia” sempre, come ora si dice e si scrive.

No. Il richiamo al colonnello Bernacca e alla sua convinzione che la parola “precipitazione” sia più bella della parola “pioggia”, mi serve per introdurre un discorso più generale: che cosa è il “bello” nel linguaggio giornalistico? e perché diciamo che Montanelli scriveva bene, che quella di Montanelli è una “bella” scrittura?

Per rispondere alla domanda bisogna prima ricordare il contesto non tanto storico-politico ma storico-culturale in cui Montanelli poco più che ventenne cominciò a scrivere nei primi anni Trenta.

C’era la retorica del giornalismo fascista, nei contenuti e soprattutto nel linguaggio, enfatico e declamatorio (“gli immarcescibili destini della patria”, “Nudi alla meta”, il Duce “magnifico, invitto e insonne”. C’era la retorica del sistema didattico, contrario non solo alle parole dialettali ma anche alle parole del linguaggio corrente; per cui le maestre elementari insegnavano che non bisognava dire “arrabbiarsi” ma “inquietarsi”, non “cominciare” ma “iniziare”, e così via. C’era la retorica di un sistema burocratico-amministrativo che stava nascendo e diventando sempre più una potenza (come avviene in ogni regime autoritario), e (ricordiamoci dell’Azzeccagarbugli che parlava in latino al povero Renzo, appunto per apparire più importante) affidava la propria autorità (succede anche oggi) anche a un linguaggio dotto, difficile, spesso oscuro (“obliterazione”, “impossidenza”, non “biglietto ferroviario“ ma “titolo di viaggio”).

E poi c’era il mito della “terza pagina”. Nessun dubbio che la “terza pagina” è stata, durante il fascismo e per molti anni anche dopo, l’unico veicolo di diffusione della cultura, un modo per fare conoscere scrittori e letterati (e anche, spesso, per dar loro il modo di campare); era però, spesso, una palestra di belle e aristocratiche letture, oltretutto limitata ai pochi quotidiani, i più ricchi. Era insomma una terza pagina dei signori; ossia di quei dieci su cento italiani che compravano i quotidiani e di quei quattro o cinque di essi, su cento, che la leggevano; e quindi di quel 2 per cento, a dir molto, che leggevano la terza pagina del “Corriere della sera” e degli altri giornali importanti.

Al di là dei contenuti, era comunque l’idea stessa della “terza pagina” ad essere legata all’idea di un giornalismo accademico ed erudito, destinato alle classi medio-alte, e quindi di un giornalismo lontano dalle sue istituzionali funzioni di generale strumento di conoscenza. E comunque l’idea di un giornalismo che attiene alla letteratura, che è un genere letterario; la passione per la prosa elegante, la ricerca di un linguaggio ricercato, lontano quanto più possibile dalla lingua parlata, considerata volgare e grossolana.

Bene. Questo era il contesto e contro tutto questo era Montanelli fin dalle sue prime esperienze giornalistiche nei primi anni Trenta e ancor più con le sue prime corrispondenze dalla guerra di Spagna nel 1936. Montanelli cominciò da subito ad essere “controcorrente”. Certo, non era il solo. C’era anche Paolo Monelli, c’era Orio Vergani, Enrico Emanuelli, Virgilio Lilli; c’era Luigi Barzini junior e ancora Luigi Barzini senior, che viveva di rendita col suo storico viaggio Parigi-Pechino del 1907. Ma c’era una differenza: che quelli mostravano di stare a loro agio nella terza pagina e lui invece la trovava, come scrisse anni dopo, “strettina”.

Perché trovava “strettina” la “terza pagina”? Qualcuno potrebbe dire che gli era strettina non tanto per come scriveva ma per quello che scriveva, e non per niente, nel 1936 in Spagna, dopo la conquista franchista di Santander, l’inviato di guerra Indro Montanelli fu subito richiamato in patria. Forse non se ne rendeva conto, allora, neppure lui; ma se leggiamo le sue corrispondenza dall’Albania, nel 1937, e dalla Germania, nel 1939, capiamo perché gli era strettina la terza pagina.

A differenza degli altri, la sua era sempre una prosa semplice, chiara, pulita, senza scivoloni retorici (come invece, spesso, quelli che ho nominato prima), senza vezzosità erudite, senza preziosità linguistiche, senza richiami storici o letterari; anzi, ogni tanto gli scappava qualche bella parola toscana, imparata da bambino in quel di Fucecchio. “Vociare”, per esempio. “Vociare”, che bella parola, parola in via di scomparsa, come tante belle parole che scompaiono per quel fatale fenomeno che è l’impoverimento delle lingue. ”Vociare”, che non è “gridare” o “strepitare”, ma parlare ad alta voce in maniera disordinata.

Ma la sua non era soltanto una precisione lessicale, conseguenza del ricchissimo vocabolario che aveva in testa. Quella di Montanelli era anche una precisione narrativa. Non era solo un ottimo scrittore; era anche un cronista preciso.

Questo mi aiuta a affrontare un altro tema, proprio col conforto di Montanelli. Il giornalismo, abbiamo detto, non è letteratura, anche se parecchi lo sostengono, e a sostenerlo sono molti degli interessati, proprio i giornalisti. Il letterato non ha problemi di contenuti e problemi di linguaggio; può scrivere quello che vuole e anche non farsi capire o farsi capire male (pensiamo all’”Ulisse” di Joyce). Il giornalista no; è come lo storico: deve attenersi ai fatti e farsi capire. Il giornalismo è storiografia; o per lo meno è un possibile supporto di ogni ricerca storiografica sul vicino passato; è un sussidio per capire meglio quella storia che, come ci hanno detto gli annalisti francesi, non è fatta soltanto di grandi avvenimenti ma è la storia di tutti, anche della nostra vita quotidiana e degli aspetti di quotidianità dei grandi avvenimenti.

Perché il buon giornalismo racconta i fatti con la freschezza dell’immediato, e quindi aiuta la storiografia a capire meglio ciò che è accaduto. La storiografia ovviamente arriva dopo e deve ricostruire i fatti del passato facendoli diventare contemporanei, e quindi un po’ meno veri, perché privi, spesso, di quegli aspetti di umanità e di quotidianità che a volte ne sono la pregnante caratteristica.

Prendete le corrispondenze di Montanelli (non gli articoli e le inchieste politiche, quelle, per esempio, sull’Eni di Enrico Mattei e sul sindaco di Firenze La Pira; mettiamole da parte), le corrispondenze del 1956 sulla rivoluzione ungherese o le corrispondenze del 1939 dietro le truppe naziste alla frontiera orientale. Parlo quindi dei testi non del giornalista politico, ma del cronista (come, del resto, lui piaceva definirsi: un cronista).

Di recente mi è capitato di leggerne una di queste corrispondenze, del 4 settembre del 1939, dalla Polonia invasa dai tedeschi; dove scrive del fronte che si è messo in movimento con perfetta sincronia e i soldati nazisti che avanzano passo dopo passo, un passo eguale all’altro, come una macchina ad orologeria. E lo racconta con ammirazione e con orrore, ma senza usare le parole “ammirazione” ed “orrore”. Perché questo è il buon giornalismo. Il buon giornalista non dice mai che “lo spettacolo apparso ai primi soccorritori era allucinante”; no, racconta il fatto in maniera che sia il lettore a dire “Accidenti; il fatto è allucinante”.

E così, nel settembre 1939, fronte polacco, quel marciare dei soldati nazisti come una macchina ad orologeria. Ammirazione, sì, ma anche orrore. I lettori lo capivano. E per questo che Montanelli lo mandarono sùbito in un altro fronte, in Finlandia, dove senza troppo difficoltà poteva pensar male dei russi, nonostante fossero anche loro, per il momento, alleati dei nazisti.

Letteratura e storiografia, dicevamo; e giornalismo come scienza della quotidianità, quindi come storiografia o complemento o supporto di storiografia. A condizione, naturalmente, che la cronaca giornalistica sia veritiera. Lo era sempre la cronaca di Montanelli? Sui giornalisti si sono dette tante cose; della Parigi-Pechino di Luigi Barzini si disse anche che Barzini non si era mai mosso da Parigi.

Dopotutto c’è invenzione e invenzione. A scuola porto sempre il ritaglio di un bellissimo servizio di cronaca di un bravo giornalista di uno dei quotidiani nazionali. E’ un fatto di sangue. Il pezzo comincia così: “’Ti odio, maledetto’. E poi giù, un colpo tremendo sul capo’”. Un bell’inizio. Ma, leggendo poi il pezzo, scritto benissimo, si apprende che il morto è morto, che l’assassino è scappato e non si sa chi sia, e che testimoni non ce n’erano.

Ricordo invece uno dei ritratti di Montanelli, quello di Alcide De Gasperi. Marzo 1949, dibattito sul patto atlantico. Un dibattito accalorato, pieno di tensione. Tanti erano contro il patto, e non solo la sinistra stalinista, ma anche la sinistra democratica, e molti, anche uomini di lettere e di cultura, non facciamo nomi per carità di patria, tutti in buona fede (e questo è il più grave), convinti che il patto atlantico fosse un patto che avrebbe portato alle guerra.

Bene. Durante un seduta alla Camera tra le più infocate e tumultuose a un certo punto cominciarono a volare in aula i cassetti dei banchi; era la prima volta; allora i cassetti non erano fissati e resi inamovibili come dopo. Nel suo ritratto di De Gasperi Montanelli racconta che un commesso, spaventato da quello che succedeva nell’aula, si precipita correndo da De Gasperi che in quel momento non era nell’aula ma si trovava nel suo ufficio di presidente del consiglio. Spalanca la porta senza bussare, entra affannato nella stanza di corsa e “Signor presidente” racconta Montanelli, “nell’aula volano i cassetti”. De Gasperi, che stava scrivendo, alza la testa, guarda il commesso sopra gli occhiali e – è sempre Montanelli che scrive – “Volano i cassetti?” dice; “quanti?”.

Io non so se l’episodio è proprio vero. Ma un De Gasperi che, alla notizia che in aula volano i cassetti, non si alza in piedi, sorpreso e preoccupato, non lascia il tavolo, non corre verso la porta per andare a vedere quello che succede nell’aula e riprendere il suo posto di presidente del consiglio; un De Gasperi che rimane seduto, alza gli occhi verso il commesso e chiede “Volano i cassetti? Quanti?”. Bene. L’episodio può anche essere inventato; ma De Gasperi no, questo Alcide De Gasperi è vero.

Parecchi anni fa fu chiesto a Montanelli e insieme a lui ad Arrigo Benedetti e a Eugenio Scalfari che cosa intendessero per giornalista. La risposta fu concorde e quella di Montanelli determinante: il giornalista è un onesto uomo di mestiere, che ha scelto un lavoro di fatica e anche umile ed è pagato per raccontare alla gente quello che è successo il giorno prima; un artigiano, che deve molto imparare dalla buona bottega dove opera, che deve molto studiare, molto leggere; che nel proprio lavoro deve mettere molta serietà e molto senso della misura.

Come andrebbero meglio le cose se oggi tutti i giornalisti fossero così.