Quando all’Ansa squilla il telefono

«Sono Aldo Moro». Giovanni Malagodi, il centrosinistra e la completezza delle informazioni. IL ministro degli Interni Taviani e il medagliere delle Olimpiadi. Un’interrogazione di Oscar Luigi Scalfaro e l’indipendenza dei quotidiani. Crispi e la Stefani. Incidente alla Casa Bianca col ministro degli esteri De Michelis.


   «Sono Aldo Moro». Era il gennaio del 1962 ed io ero il direttore del­l’Ansa da un anno. Di telefonate di potenti, fino a quel momento, ne avevo ricevuta soltanto una, e non mi era piaciuta. Che cosa voleva il segretario po­litico della Democrazia cristiana?

   L’ultima volta che avevo visto Aldo Moro era stata nel marzo del 1959 al­la fine del drammatico Consiglio nazionale del suo partito nel convento‑al­bergo della Domus Mariae in via Aurelia. A tarda sera i secessionisti della corrente fanfaniana di Iniziativa democratica erano arrivati, a sorpresa, col suo nome: ecco il successore di Fanfani alla segreteria della Dc.

   Chi era, allora, Aldo Moro e perché era uscito il suo nome? Docente uni­versitario, membro della Costituente, uno dei fondatori della corrente di Ini­ziativa democratica, più volte ministro, Aldo Moro non aveva mai fatto par­lare troppo di sé; non aveva mostrato slanci né ambizioni. È così privo di virtù ‑ disse qualcuno dei dorotei ‑ che merita la fiducia di tutti. E poi, con quella sua aria da «Domine, non sum dignus», non avrebbe dato noia a nes­suno. I dorotei non avevano capito niente. Sarebbero passati pochi anni e il doroteismo come tecnica del potere per il potere avrebbe trovato in Aldo Moro un avversario tormentato ma tenace.

   Aldo Moro l’avevo conosciuto di persona qualche anno prima, a Fiesole, per un convegno della Fuci, 1’associazione degli studenti universitari cattolici. Era una mattinata di giugno, assolata ma ventosa. La riunione si svolgeva all’a­perto nella cavea del teatro romano e Aldo Moro era l’oratore ufficiale. Mi fece impressione (ero là come redattore capo del fiorentino Giornale del mattino) la sua faccia triste, come se qualche pena segreta lo angustiasse, e il suo parlare concettoso, spesso di difficile comprensione. Leggeva in piedi, sotto un sole già forte, senza mai guardare verso gli ascoltatori, come se fosse solo; e il vento scompigliava i suoi capelli e il ciuffo bianco e i fogli del suo lunghissimo inter­minabile discorso; e qualche foglio ogni tanto era portato via dal vento e dopo aver svolazzato sulle antiche pietre si perdeva tra i rami degli ulivi lì sotto.

   «Sono Aldo Moro». Era il gennaio del 1962 ed io ero il direttore del­l’Ansa da un anno. Qualche mese prima avevo ricevuto un’altra telefonata importante: di Paolo Emilio Taviani, ministro degli interni: si era dispiaciuto di una notizia trasmessa dall’agenzia e non positiva per il governo. Cercai di spiegare che l’Ansa era fatta proprio per questo, per dare notizie, e che quella. era una notizia di rilievo. Ma l’Ansa, disse, è un’agenzia ufficiale. No, ministro, l’Ansa è un’impresa privata. Ma l’Ansa, insisté, è un’agen­zia ufficiosa. No, ministro, non è e non può essere neppure ufficiosa perché è una cooperativa di quotidiani, fra i quali ci sono anche quelli dell’opposi­zione. Ma l’Ansa, continuò, prende molti soldi dallo Stato.

   Mi aspettavo la battuta. Il ministro aveva ragione: l’Ansa aveva grossi contratti con lo Stato. Vero è che i testi erano chiari: non si trattava di sov­venzioni o di contributi, bensì di pagamento di servizi, un’ampia serie di prestazioni di cui l’agenzia doveva dare, ad ogni fine d’anno, una accurata documentazione. Ma, anche se puliti, i soldi erano parecchi e in quegli anni ‑anche per colpa dei giornali soci, che pagavano un canone molto basso ‑ rap­presentavano il 70 per cento degli introiti.

   Questo non poteva né doveva essere una buona ragione per pretendere una più o meno ufficiosa benevolenza dell’agenzia, ma, a ogni buon conto, fu da allora che la politica di fondo dei dirigenti fece di tutto per allargare il mercato dell’utenza, in maniera da ridurre gradualmente la quota, e il peso, del pubblico denaro; già alla fine degli anni Ottanta la percentuale era passa­ta al 38 per cento.

   «Sono Aldo Moro». Anche il segretario politico della Dc stava per lamen­tarsi di qualche notizia trasmessa? e, magari, si sarebbe richiamato anche lui a quella maledetta faccenda dei soldi? No. Aldo Moro voleva parlare non di una notizia trasmessa, ma di una notizia da trasmettere. «Ho saputo» disse «che 1’on. Malagodi ha diffuso il testo di un suo discorso. L’Ansa lo trasmetterà?».

   Giovanni Malagodi era il segretario del partito liberale, ma ‑ con il PCI messosi fuori giuoco con la sua stessa politica ‑ era anche il capo dell’unica effettiva opposizione, potente non tanto per il numero dei parlamentari, quanto per la forza degli appoggi esterni, dalla Confindustria a una parte della Chiesa cattolica e a qualche settore degli Stati Uniti; e in quel giorno aveva pronunciato un discorso di eccezionale violenza contro l’iniziato avvio del centrosinistra.

   Oggi a nessuno verrebbe in testa di soffocare la voce dell’opposizione sulla stampa o, peggio, sull’agenzia che alla stampa fornisce l’informazione di base. A quel tempo (primi anni Sessanta) sì. Perciò non mi stupii della do­manda; mi stupii del seguito della telefonata. Alla mia risposta che l’inter­vento di Malagodi era il fatto più importante di quei giorni e che quindi era impossibile che l’Ansa lo ignorasse seguì un lungo silenzio. Dieci, quindici secondi? Credevo addirittura che se ne fosse andato. Poi «Mi rendo conto» disse Aldo Moro; «grazie; buonasera». Lui, almeno, aveva capito il posto del­l’informazione in una società pluralistica e la funzione dell’Ansa nella dia­lettica di questa società.

   L’Italia stava crescendo; a piccoli passi, però. Due anni più tardi mi te­lefonò Corrado Guerzoni, capo dell’ufficio stampa di Aldo Moro, che nel dicembre del 1963 aveva costituito il primo governo organico di centrosini­stra. «Al presidente» mi disse «farebbe sicuramente piacere che non si diffondesse la notizia dell’interrogazione presentata alla Camera da Oscar Luigi Scalfaro (a quel tempo deputato della DC) sulla nomina di Sereno Freato a consigliere dell’Enel». Tangentopoli era di là da venire, ma la notizia (soprattutto per la figura dell’interrogante e per quello che voleva significa­re) era una notizia che non si poteva passare sotto silenzio; Sereno Freato era il capo della segreteria del presidente del consiglio.

   Corrado Guerzoni non insisté. L’Ansa trasmise la notizia, ma il giorno seguente solo due quotidiani la pubblicarono, la Nazione di Firenze (diretta da Enrico Mattei, non certo amico di Aldo Moro e del centrosinistra), e il Secolo d’Italia. Corrado Guerzoni mi telefonò ancora: «Capisco. Ieri l’Ansa non poteva comportarsi diversamente; però sono stato costretto a telefo­nare a tutti i quotidiani; solo uno non mi ha dato retta; quanto all’altro, il Se­colo, la spiegazione è che, dopo cinquantadue telefonate, non ho fatto, per mancanza di voce, la cinquantatreesima».

   Corrado Guerzoni mi telefonò una terza volta nell’ottobre del 1964. «Il ministro degli interni (era sempre Paolo Emilio Taviani) ha detto al presiden­te Moro che l’Ansa ha trasmesso oggi una notizia gravissima, che fa il giuoco dei comunisti. Tu sai che notizia sia?». Non lo sapevo, ma ebbi un’in­tuizione: «Nel medagliere dei Giuochi olimpici di Tokyo l’Unione Sovietica è oggi passata al primo posto, superando gli Stati Uniti. Sarà questa la notizia che fa il giuoco dei comunisti?». «Sicuramente è questa» disse Corrado Guerzoni, e si mise a ridere. Ancora oggi il direttore dell’Ansa gli è grato di questa risata; gliene è grato anche come cittadino.

   Il direttore di un grandissimo quotidiano nazionale, dimessosi nel 1981 per questioni di P2, scrisse poi un libro in cui si scopriva che gran parte della sua giornata la consumava al telefono a colloquio con i potenti. Le telefonate con i potenti il direttore dell’Ansa le può contare, in trent’anni, sulle dita delle due mani; eppure l’agenzia trasmetteva ogni giorno un notiziario che dalle 120 mila parole degli anni Sessanta aumentò gradualmente fino a supe­rare le 200 mila parole alla fine degli anni Ottanta: un mare di notizie (il 29-­30 per cento delle quali di politica interna); tante notizie da riempire trenta-­quaranta pagine di giornale, 3‑400 fatti contro i cento seguìti mediamente da un quotidiano nazionale.

   Perché, allora, i potenti non telefonavano al direttore dell’ANSA come invece facevano col direttore di quel grosso quotidiano nazionale? Le ragio­ni sono parecchie; non solo, quindi, per i meriti dell’agenzia, cioè per la sua fermezza nel difendere le proprie caratteristiche statutarie o per 1’ambizione di confermarsi strumento di garanzia del pluralismo del nostro sistema poli­tico. C’erano anche altre ragioni: la crescita del paese in senso liberale e la di­minuzione, lenta ma graduale, dei freni che dalla fine della guerra alla fine degli anni Cinquanta ostacolavano la libertà dell’informazione.

   Come quasi tutti in Italia, anche la stampa era schierata. Complice il radi­calismo delle sinistre e la loro sudditanza alla politica dell’Urss, la guerra fredda si rispecchiava nel sistema dei media: da una parte la stampa socialco­munista, minoritaria, dall’altra la stampa di destra, di proprietà dei grossi gruppi economici, o ad essi legata, e perciò filodemocristiana e filogovernativa.

   Il primo colpo venne, nel 1956, dalla nascita del Giorno per iniziativa di Enrico Mattei, presidente dell’Eni. Uno scandalo: un quotidiano di pro­prietà di un ente di Stato, con una linea politica pregiudizialmente non av­versa, all’interno, alla sinistra socialista e, all’estero, ai paesi del mondo arabo(specie a quelli produttori di petrolio). Proprio uno scandalo; e gli Stati Uni­ti (e le «sette sorelle»)? e la fedeltà all’alleanza atlantica» di cui tutti si riem­pivano la bocca?

   Il secondo colpo fu l’avvio del centrosinistra nel 1958‑59 e poi i governi con il Psi; per la prima volta dalla fine della guerra la grande stampa si trova­va schierata, in stragrande maggioranza, contro il governo. Ci volle un po’ di tempo perché si capisse che il centrosinistra non era un «salto nel buio», co­me molti sostenevano, che non avrebbe portato a grandi riforme di struttura, che non avrebbe disturbato i grossi interessi, e che quindi si poteva sempre trovare un modo per mettersi d’accordo.

   Nel campo della stampa ci furono anche altri elementi di effettivo pro­gresso: l’allargamento del pluralismo e il miglioramento dei veicoli di distri­buzione delle informazioni. Si moltiplicavano le voci in cui si esprimeva la comunità nazionale, crescevano le fonti delle informazioni, mentre la tecnica cominciava a offrire mezzi sempre più rapidi ed efficienti per diffonderle. Stava nascendo quella che poi sarebbe stata chiamata la «società dell’infor­mazione».

   Per questi motivi, probabilmente, non arrivavano telefonate di potenti al direttore dell’Ansa. Salvo qualche caso isolato e qualche ritorno di fiamma, i potenti si resero conto ‑ sicuramente con disappunto ‑ che le notizie non si potevano, come prima, nascondere nel cassetto; o, per lo meno, si resero conto che farlo o farlo fare era rischioso e, col tempo, anche inutile: prima o dopo l’informazione sarebbe uscita fuori in qualche modo.

   Accadde così che l’unica telefonata perché l’Ansa non desse una notizia fu di molti anni più tardi, nel 1981, quando il capo di gabinetto di Giovanni Spadolini, molto probabilmente a insaputa del presidente (se fosse stato lui a volerlo, mi avrebbe telefonato direttamente; eravamo amici a Firenze fino da ragazzi), mi chiese se si poteva fare a meno di trasmettere un’interrogazione presentata alla Camera contro il presidente da Mario Capanna. Come? igno­rare un atto parlamentare? Il capogabinetto non insisté; se lo avesse fatto, mi sarebbe dispiaciuto: Giovanni Spadolini era il primo presidente «laico» del consiglio dopo 26 anni di presidenti democristiani.

   Le altre telefonate di potenti non chiedevano niente di eccezionale. Nel 1979 Sandro Pertini, presidente della repubblica dal luglio 1978, mi telefonò a casa alle dieci di sera per dirmi (evidentemente i suoi funzionari se ne erano andati tutti) che la mattina dopo si sarebbe recato a Torrita Tiberina a porta­re fiori sulla tomba di Aldo Moro nel primo anniversario dell’assassinio (evi­dentemente voleva che si sapesse). Nel 1980 mi telefonò Bruno Tassan Din, amministratore delegato del gruppo Rizzoli‑Corriere della sera, per chieder­mi di trasmettere sulla prima rete telescrivente dell’agenzia una notizia già trasmessa sulla seconda. Ignorava che la seconda rete aveva la stessa dignità della prima e arrivava agli stessi destinatari; per di più me lo chiese con arro­ganza. Era un alto dirigente di un quotidiano socio e mi limitai perciò a pre­garlo di chiedermelo «per piacere».

   Un mio collaboratore, che aveva assistito alla telefonata, mi disse: «Per­ché non fai come quel cinese che in questi casi si sedeva sulla sponda del fiu­me e aspettava?». Se lo avessi fatto, avrei aspettato soltanto tre anni. Nel feb­braio del 1983 Bruno Tassan Din fu arrestato per bancarotta fraudolenta in­sieme ad Angelo e Alberto Rizzoli.

   Altre due telefonate (con queste due il capitolo è finito) posero un pro­blema giusto. La prima fu, nel 1971, di Emilio Colombo, presidente del con­siglio dall’agosto dell’anno prima. Si diceva dispiaciuto che, su una conferen­za internazionale di notevole importanza (o così, almeno, pareva in quel mo­mento), l’Ansa avesse trasmesso un servizio del corrispondente, che riassu­meva il comunicato ufficiale ma non ne dava il testo integrale, chiaramente redatto soppesando anche le virgole e i punti e virgola. Aveva ragione il pre­sidente. L’Ansa è un’agenzia giornalistica e non un ufficio stampa, ma ha anche un compito di documentazione nell’interesse dei suoi destinatari, che hanno il diritto di conoscere i documenti di base, per poterli liberamente commentare: bene, quindi, un servizio giornalistico sull’avvenimento, ma giusto, in qualche caso, trasmettere anche i documenti ufficiali che l’accom­pagnano.

   Aveva ragione anche l’altro interlocutore, Gennaro Acquaviva, capo della segreteria di Bettino Craxi, presidente del consiglio dal 1983 al 1986 e poi ancora dal 1986. Mi pare che fosse proprio il 1986. Telefonò e con molto gar­bo fece notare che in una notizia sul presidente l’Ansa aveva usato il verbo «rivelare» e che questo è un verbo un po’ equivoco. Giusto; non lo si può u­sare al posto di «dichiarare». Come dire «A ha rivelato che B ha fatto questo e questo» invece di «A ha dichiarato che B ha fatto questo e questo». Nel primo caso si ammette che B ha fatto veramente questo e questo; nel secon­do caso è solo A che lo afferma.

   Risposi ad Acquaviva che non aveva torto; l’agenzia aveva sbagliato; e gli feci poi avere la copia di una nostra nota di servizio con la quale la direzione ricordava ai redattori di non usare parole o espressioni semanticamente con­notate; per esempio, «giustiziare» (si «giustizia» un innocente? No); per e­sempio, «confutare» (che vuol dire «dimostrare che qualcosa è erroneo o fal­so»); per esempio, proprio quel maledetto «rivelare» («rendere chiare cose sconosciute o segrete»).

   Nove telefonate di potenti in quasi trent’anni di direzione, e quasi tutte concentrate nei primi anni. Forse anche questo è un Guinness, per lo meno italiano. Il guaio è che le agenzie di informazione, proprio per la loro natura di fornitrici dell’informazione di base a monte dei giornali, si portano dietro questa condanna: di essere sempre sotto l’occhio dei potenti; fino dalle origi­ni, quando nacquero, a metà del secolo scorso.

   Agenzia Havas; a Parigi, 1835; agenzia Wolff, a Berlino, 1848; agenzia Reuter, a Londra, 1851; furono le prime tre, agenzie di stampa (in Italia la Stefani nacque a Torino nel 1953), sorte nel momento centrale di quel grande processo di trasformazione tecnologica, economica e sociale che, iniziato alla fine del secolo XVIII e proseguito per tutto il secolo XIX, fu poi chiamato «rivoluzione industriale»: aumentavano le nascite; le campagne venivano vendute dalla nobiltà e dall’alto clero; le culture agricole si intensificavano; il suolo dava maggiore rendimento; larghe masse contadine, rimaste senza la­voro, si trasferivano nei centri urbani; le città crescevano di numero e di po­polazione; fiorivano i traffici commerciali; i capitali provenienti dall’agricol­tura e dal commercio fornivano i mezzi al progresso dell’industria; il capita­lismo oltrepassava le sue forme primarie di capitalismo agrario e mercantile e diventava capitalismo industriale; la borghesia si rafforzava e si faceva classe; e, dopo aver conquistato il potere economico, si muoveva per la conquista del potere politico.

   E, per la conquista del potere (e poi per il mantenimento del potere), quale strumento migliore della stampa? una stampa, tuttavia, che doveva es­sere stampa quotidiana e stampa di informazione. Ma per essere stampa di informazione, e non soltanto di dottrina e di opinione, la stampa aveva biso­gno di informazioni. Ecco come nacquero le agenzie di stampa; erano le a­genzie che riuscivano, dividendo i costi fra i propri clienti, a garantire una raccolta di informazioni non solo in maniera sempre più completa e con mezzi sempre più rapidi (a quel tempo non c’era ancora neppure il telegrafo elettrico), ma a costi relativamente sempre più bassi.

   Il secolo XIX vedrà poi i primi grandi progressi tecnici: nella trasmissio­ne delle notizie (il telegrafo, il telefono), nella composizione tipografica (la «linotype»), nella stampa (la rotativa), nella fabbricazione della carta (la carta di pasta di legno e la carta in bobina), nella illustrazione (i «clichés»), nella distribuzione (i treni). Col secolo XX verranno poi la radio, la telescrivente, la radiotelescrivente, la televisione, fino alle recenti innovazioni elettroniche. Tutti questi mezzi si inseriscono con prepotenza nel processo di sviluppo dell’informazione, ma di essi l’agenzia di stampa è l’unico che serva, in esclu­siva, a questo scopo: ad assicurare una informazione sempre più completa, sempre più rapida, sempre meno costosa.

   L’agenzia di stampa ha tuttavia, già nelle sue caratteristiche istituzionali, 1’1 suo rischio permanente: se l’informazione è uno strumento per la conqui­sta e il mantenimento del potere, è ovvio che il potere veda nell’agenzia il modo più semplice per controllare l’informazione a monte dei giornali. Non c’è bisogno di fare cinquantadue telefonate, come fece Corrado Guerzoni nel 1963; basta farne una, se ha successo.

   Si spiega, allora, perché, in coincidenza con la firma della Triplice Alleanza fra Germania Austria‑Ungheria e Italia nel 1882, Francesco Crispi presiden­te del consiglio mise sotto il suo controllo l’agenzia Stefani, costringendola a sostituire con l’agenzia tedesca Wolff la tradizionale intesa con la francese Havas (un accordo del 1887 ammoniva la Stefani a non diramare notizie «le­sive degli interessi italiani»).

   Si spiega anche perché Mussolini la fece sua, trasformandola, come fu detto, in «un organo politico di governo e, più ancora, di battaglia» e poi nel «più delicato strumento giornalistico del regime fascista». Si spiega perché u­no dei primi decreti di Lenin, dopo la Rivoluzione d’ottobre, fu di creare un’agenzia ufficiale, la TASS, la prima grossa agenzia di Stato: era la soluzio­ne più semplice per assicurare un controllo rigido delle informazioni all’in­terno del paese e un organo di propaganda all’estero.

   In un sistema politico di democrazia parlamentare e pluralistica i modi per controllare l’informazione di base e l’agenzia che la fornisce alla stampa sono parecchi. Scartata l’idea di creare un’agenzia di Stato e quindi ufficiale (ma in Francia 1’Afp è un’impresa semipubblica, in buona parte controllata dal governo), c’è ‑ come fece Crispi con la Stefani nel 1989 ‑ l’intervento fi­nanziario, c’è la pressione diretta su chi ne ha la responsabilità di gestione .o di conduzione giornalistica, c’è il contatto diretto con chi l’informazione non dirige ma produce, cioè il singolo redattore, magari con un panettone ‑si fa per dire ‑ in occasione delle feste di Natale.

   Il direttore dell’Ansa aveva piena fiducia nei suoi redattori, ma si può mettere la mano sul fuoco su quattrocento e più giornalisti, operanti non so­lo a Roma e in Italia, ma in tutti e cinque i continenti? e come è possibile, «a priori», verificare la correttezza di quattrocento‑cinquecento notizie che, in ragione dei sistemi elettronici, vanno ogni giorno, senza filtri, direttamente in rete? oppure «a posteriori» e con l’aiuto di eccellenti collaboratori, se la semplice lettura di più di duecentomila parole al giorno richiederebbe ben oltre le 24 ore di una giornata?

   La cosa da fare non è soltanto stabilire regole precise di lavoro per quan­to riguarda esattezza, imparzialità e correttezza formale delle informazioni, ma ispirare in ognuno dei redattori la consapevolezza che da quello che fan­no e dal modo in cui lo fanno dipende il prestigio e l’autorità dell’agenzia, e quindi anche la sicurezza del tetto che sta sopra le loro teste.

   Che questa era l’aria che spirava in agenzia e che i giornalisti dei quoti­diani, sebbene non siano sempre disposti a riconoscerlo, vedono nell’Ansa un sostegno e un sicuro punto di riferimento, se ne ebbe conferma in un epi­sodio che finì su tutti i giornali.

  Era l’ottobre del 1989 e Francesco Cossiga, presidente della repubblica, era negli Stati Uniti in visita ufficiale. Qualche giorno prima si era parlato di rimostranze americane contro la cessione all’Urss, da parte dell’Olivetti, di certe e apparecchiature elettroniche, in contrasto con l’embargo allora vigente contro tutti i paesi comunisti. Nella giornaliera conferenza stampa al Dipar­timento di Stato un giornalista americano aveva chiesto se il tema sarebbe stato trattato nei colloqui tra il presidente Cossiga e il presidente Reagan. Ri­sposta: è probabile. Alla conferenza stampa era presente un solo giornalista italiano, anzi una giornalista, dell’Ansa, che dette la notizia, subito dopo trasmessa dall’agenzia.

   Questa volta non ci fu una telefonata, ma un vero e proprio scontro di­retto, oltretutto in una sede non molto idonea: la sala dei ricevimenti, la co­siddetta East Room, al primo piano della Casa Bianca a Washington; come protagonista, il ministro degli esteri Gianni De Michelis; come pubblico, gli invitati al ricevimento. C’erano i due presidenti, c’erano i rappresentanti del governo americano e alti funzionari del Dipartimento di Stato, c’era la dele­gazione che accompagnava Francesco Cossiga, c’erano i giornalisti italiani che seguivano la visita e quelli accreditati nella capitale americana. Il reato imputato all’Ansa era di avere trasmesso una notizia «che poteva danneg­giare gli interessi dell’Italia».

   Il principio di un’informazione libera e democratica è difficilmente con­ciliabile con l’idea che debba essere taciuta ‑ in nome degli interessi di qual­cuno o di qualche cosa ‑ una informazione veritiera e per di più pubblica; e poi, chi stabilisce se una notizia è lesiva o no di quegli interessi? Si può sup­porre che la risposta del direttore dell’Ansa fosse ineccepibile se, al termine del vivace scambio di idee, tutti i giornalisti italiani andarono a stringergli la mano. Difendendo la sua libertà di giornalista direttore di un’agenzia di pro­prietà dei quotidiani, aveva difeso anche la libertà dei suoi colleghi, giornali­sti di quotidiani.

    La sera seguente, al ricevimento all’ambasciata d’Italia, il ministro De Mi­chelis pensò bene di esprimere al direttore dell’Ansa il suo rammarico per l’incidente della sera prima. Rammarico? A tre mesi dalla sua andata in pen­sione il direttore dell’Ansa non avrebbe potuto concludere meglio i suoi quasi trent’anni di direzione: un «incidente» con un potente in nome dell’in­dipendenza dell’agenzia, come è richiesto dal suo statuto, e in nome del principio di un’informazione responsabile ma libera, come è richiesto dalla democrazia.