Ma quant’è bello fare il giornalista

A Mosca con 20 gradi sotto zero. Russia 1955: un mondo a due dimensioni. Visita a un «kolchoz». Gheddafi e un misterioso colpo di Stato a Tripoli. Da Praga a Madrid: il concetto democratico dell’informazione. Un incontro con Chou En­ lai. Lavorare a Pechino e a Beirut. Due presidenti: Giovanni Leone e Sandro Pertini.


Per chi ci vive, forse no, ma per chi ci passa qualche giorno, Mosca d’in­verno, bianca di neve, è bellissima. Magari fa parecchio freddo, ma con l’aria asciutta del suo clima continentale si sopportano bene anche quindici o venti gradi sotto lo zero.In quel dicembre del 1985 la temperatura scendeva però, di notte, anche a meno 25. Eravamo tuttavia ‑ il consigliere delegato dell’Ansa Paolo de Pal­ma ed io ‑ così coccolati e ben nutriti dai colleghi della Tass che ci trovava­mo perfettamente a nostro agio, sebbene ci fossimo rifiutati di comprarci il colbacco, che ogni italiano che si rispetti è la prima cosa che fa appena arri­vato a Mosca nella stagione invernale.

   Dell’agenzia ufficiale dell’Urss eravamo ospiti per il rinnuovo dell’ac­cordo di collaborazione. Come nessun quotidiano al mondo può fare a me­no di una o più agenzie di informazione, così nessuna agenzia può fare a me­no dei notiziari di altre agenzie se vuole avere un’informazione completa a integrazione di quella raccolta dalle proprie strutture. In più gli uffici di cor­rispondenza ‑ come quello dell’Ansa a Mosca e quello della Tass a Roma ‑ si appoggiano sempre, necessariamente, ai servizi dell’agenzia locale.

    Occasioni come il rinnuovo o l’ampliamento dell’accordo di collabora­zione esistente fra le due agenzie servono anche a colloqui fra i dirigenti, scambi di esperienze e, come è giusto, a qualche piccola parentesi turistica, più o meno camuffata da incontri di lavoro, non sempre, tuttavia, noiosi o inutili. Per esempio si va a visitare il monastero di Zagorsk e lì il metropolita ci invita a pranzo e ci dice ‑ insieme al dessert e all’ultimo bicchiere di vodka ‑ che nel 1979 l’intervento delle truppe sovietiche nell’Afghanistan è stato un atto di carità cristiana. Interessante.

   Al termine del nostro soggiorno, costellato di pranzi e di cene (è la parte più pesante di queste visite), ritenemmo di offrire noi una cena: una cosa alla buona, da colleghi a colleghi, quelli che ci avevano sempre accompagnato da un posto all’altro.

   Da noi, all’Ansa, se un dirigente fa un viaggio di lavoro con l’auto di servizio e con l’autista, e ci si ferma a mangiare in qualche posto, l’autista siede col dirigente allo stesso tavolo; e ci sembra la cosa più naturale di questo mondo. Così, quella sera a Mosca, prima di entrare nel ristorante, pregai gli amici russi di invitare a unirsi a noi l’autista che ci aveva portato in giro per la città; al tavolo, prenotato, c’era un posto anche per lui. Un momento di imbarazzo e poi uno di loro mi dice: «Questo non rientra nelle nostre abitudini».

    Scoprimmo così che in quella che si faceva chiamare la patria del socialismo e diceva di non avere abbandonato il progetto marxista di una società senza classi, l’autista rimaneva nell’auto a venti gradi sotto zero mentre gli «altri», la «nomenclatura», se la spassavano al calduccio tra caviale e vodka.

   La storia non si fa con gli aneddoti, ma per un giornalista che vuole capire la realtà intorno a lui e vede il bello della professione proprio nella ricerca nella scoperta, nel dialogare con la società, nel rincorrerla per capirla, nell’analizzarla per interpretarla, queste piccole cose della vita quotidiana sono spesso più utili di un documento o di un’intervista.

   Nell’Unione Sovietica ero stato per la prima volta nel 1955, quando era difficile per un giornalista ottenere un visto d’ingresso (io lo ebbi grazie alle amicizie che aveva Giorgio La Pira). Di quel paese si sapeva poco o niente; intendo dire di quel popolo, di come viveva, se era felice, quali erano i suoi affetti, le sue speranze, quel tanto che ci fa consumare la nostra giornata di oggi aspettando senza disperazione la giornata di domani. La politica non mi interessava; erano tutte quelle altre cose che potevano dirmi se l’Urss era un inferno, come molti sostenevano in Italia, oppure il paradiso in terra, come sostenevano gli altri.

   Per questo motivo a Mosca, via Vienna‑Varsavia‑Terespol, decisi di andare in treno e in terza classe. Sùbito dopo Brest Litovsk il treno procedeva adagio, quaranta chilometri all’ora, in una pianura sterminata di cui non si vedeva la fine, sotto un cielo altrettanto piatto, un cielo basso e di un grigio uniforme e sempre eguale nonostante il passare delle ore. Da che parte era il sole? e dov’era il nord, dov’era il sud? Tutto sembrava misurarsi secondo larghezza e lunghezza. Mancava la terza dimensione, l’altezza: la montagna, che spezza l’arco del cielo e fa pensare a altri cieli; la nuvola, che scorre veloce sul corso del vento e dà il senso mi­sterioso di altre latitudini. Mancava anche la quarta dimensione, il tempo, il segno che definisce il flusso e l’ampiezza della giornata, che chiude entro un confine sensibile il trascorrere delle ore.

  Questa, dunque, era la Russia. E in quelle strane dimensioni di tempo e di spazio anche la storia doveva avere una sua misura; una storia, per di più, che non aveva conosciuto né Umanesimo né Rinascimento. In una realtà come quella, dove nel giro eguale delle stagioni tutto arriva con una forza inelutta­bile ‑ la polvere dell’estate, il fango dell’autunno, la neve pigra e silenziosa dell’inverno; e il freddo, l’avarizia di sole, la scarsità della luce, la tristezza della sera, le albe che tardano ad arrivare ‑ non poteva non nascere, per con­trapposto, l’aspirazione a un mondo di giustizia e di amore: la terra promessa di Guerra e pace di Tolstoi, il paese della verità come nei Bassifondi di Gorki. Quante attese in quelle sofferte esperienze di vita che hanno insanguinato e il­luminato il paese, prima e dopo la Rivoluzione d’Ottobre.

   Ma in uno spazio senza spessore e in un tempo immobile da secoli, che non suggerivano velleità di superamento, di fuga, di evasione, in un mondo a due dimensioni come si poteva pensare ad evadere, a cambiare le cose? L’in­terprete che mi era stato dato come accompagnatore (ma forse era un «ac­compagnatore» che mi era stato dato come interprete) si stupiva che, per ca­pire che cosa la gente pensava della vita e della morte, io volessi vedere sol­tanto mercatini e cimiteri e si seccava di girare con me fra i banchetti della verdura oppure fra le tombe addobbate di fiori di carta. Di chiese neppure a parlarne; ci dovevo andare di nascosto, in quelle poche che c’erano. Così un giorno mi obbligò a visitare un kolchoz.

   Rispetto ai sovchoz, che erano le imprese agricole direttamente gestite dallo stato, i kolchoz erano delle specie di cooperative agricole, i cui membri potevano disporre di piccoli appezzamenti per uso personale. Qui, insom­ma, il contadino non era un semplice bracciante. Eppure, andando qua e là per il kolchoz accompagnato da quello che mi fu presentato come «presiden­te», notai che i contadini che lavoravano nei campi si mettevano quasi sugli attenti, appena lo vedevano vicino; si toglievano il berretto e si inchinavano tenendo poi gli occhi per terra.

 Ma allora, pensai, non era cambiato niente; tutto era rimasto come prima.  In quelle visite nei paesi dell’Est europeo capitava spesso di rimanere stu­piti: di quello che si vedeva e di quello che si sentiva dire; ma soprattutto di una cosa: l’arretratezza culturale della classe dirigente, la cosiddetta «nomenclatura». Colpa della mancanza di dibattito interno, della chiusura alle idee circolanti nel campo occidentale? Un giorno, il 16 luglio del 1980, il più importante quotidiano di Praga, il Rude Pravo, attaccò l’Ansa con violenza perché aveva trasmesso la notizia dell’arresto, nell’isola d’Elba, di tre cecoslovacchi trovati in possesso di armi (erano gli anni del terrorismo).

     La notizia era stata fornita all’agenzia dai carabinieri; poco dopo si seppe che i tre arrestati erano cecoslovacchi di nascita ma svizzeri di cittadinanza e 1’Ansa trasmise una seconda notizia con la doverosa precisazione. Tutto qui; ma il Rude Pravo sosteneva che l’Ansa aveva trasmesso una notizia falsa d’accordo con la polizia, allo scopo di parlar male di un paese socialista come la Cecoslovacchia. «Pare» diceva il giornale «che alcuni mezzi di informazione italiani abbiano un tale compito tra i loro doveri».

    Lo stesso giorno il direttore dell’Ansa scrisse una lettera al direttore del Rude Pravo (e ne dette conto nel notiziario dell’agenzia), spiegandogli congarbo e con pazienza l’avventatezza delle accuse e invitandolo a recarsi a Roma per capire da vicino come funzionano in Italia i meccanismi di un’informazione democratica. In quell’occasione ‑ scrivevo ‑ «potremo firmare un documento congiunto, in cui l’Ansa e il Rude Pravo si impegnano a dare – l’una della Cecoslovacchia, l’altro dell’Italia ‑ un’informazione sempre imparziale, scevra da prevenzioni e libera da ogni pressione interna»; e concludevo con un invito: che il Rude Pravo pubblicasse la mia lettera così come l’Ansa aveva pubblicato le accuse rivoltele dal giornale.

   Naturalmente il direttore del Rude Pravo non accettò il mio invito di venire a Roma e naturalmente non pubblicò la mia lettera; però invitò me a Praga, e io ci andai. Per poche ore, fra un aereo e l’altro, con una terribile prima «colazione di lavoro», alle otto del mattino, a base di salame e cetrioli sotto aceto (me la cavai con una tazza di tè). Gli spiegai come si intende da noi un’informazione libera e pluralistica, e lui mi ascoltò con attenzione senza replicare. Insomma mi lasciò l’impressione di una bella dose di ignoranza e quindi, se vogliamo, di buona fede.

   Una analoga ignoranza e una analoga buona fede mi era capitato di trovare, dalla parte opposta dell’Europa, in Spagna, subito dopo la morte del generalissimo Franco e il ritorno di quel paese a un ordinamento libero e democratico. Nel 1976 il presidente dell’associazione della stampa estera a Madrid, che era il corrispondente dell’Ansa Marcello Ongania, promosse un incontro dei rappresentanti delle maggiori agenzie europee di informazioni con i dirigenti dell’agenzia spagnola Efe.

   L’agenzia Efe operava in Spagna da molti anni. «Efe» non è una sigla; significa «effe», la lettera «F», ed F era l’iniziale di Francisco Franco. Basta questo per capire che la Efe era stata l’organo del governo franchista; ora vo­leva essere una libera agenzia di informazioni.

 Che cosa deve fare un’agenzia di informazioni ‑ questo era il tema dell’incontro ‑ in una democrazia pluralistica? Semplice la risposta: dare tutte le informazioni, esatte e veritiere, che si ritiene interessi­no i cittadini; unico limite il rispetto delle leggi che tutelano la dignità e il buon nome dell’individuo.

   «Come?» chiede sbalordito un vecchio redattore della Efe; «anche le infor­mazioni negative, quelle che possono danneggiare gli interessi del paese? «Certamente» rispondiamo tutti noi, inglesi, francesi, italiani, tedeschi; «certa­mente; e poi quali sono gli interessi del paese? e chi li dovrebbe stabilire?».

   A volte basta una battuta per capire un mondo, un’ideologia, una situa­zione storica e politica. Nell’ottobre del 1971 ero a Pechino per organizzare l’apertura dell’ufficio di corrispondenza dell’agenzia; c’era anche il ministro italiano per il commercio con l’estero, Mario Zagari, a capo di una delega­zinne di operatori economici. Insieme fummo ricevuti dal primo ministro Chou Enlai, un uomo affascinante, vestito, sì, con l’abito‑uniforme indossa­to allora da tutti i cinesi, uomini e donne, ma di ottimo taglio e di buona stoffa: non cotone, ma gabardine di lana, in una tinta tra il marrone e il lilla. Elegantissimo.

   «Come va» chiede Chou inopinatamente «l’agricoltura nel vostro «pae­se?». Mario Zagari non capisce e risponde, soddisfatto, che l’Italia già da al­cuni anni è passata da paese agricolo a paese industriale. «Che peccato» dice Chou col volto rattristato; «e per quale ragione è diventato un paese indu­striale?». Zagari rimane interdetto; capisce e non capisce e cerca di cavarsela alla meglio spiegando che l’Italia è un paese troppo montagnoso per sviluppare l’agricoltura. «Ma avete provato» insiste Chou «a terrazzarlo come da noi in Cina?».

  Finalmente Zagari ed io capiamo: Chou parla per il miliardo di contadini che è il suo paese; per un paese, cioè, per il quale, a quell’epoca, una indu­strializzazione forzata sarebbe stato un errore gravissimo; sarebbe stato, moltiplicato per cinque, l’errore compiuto negli anni Venti dall’Unione So­vietica.

   Per cambiare discorso dico al primo ministro Chou della prossima aper­tura di un ufficio di corrispondenza dell’Ansa. Chou Enlai lo sa, ma non sa che a Pechino l’Ansa invierà come corrispondente una giornalista, Ada Princigalli.

 «Una donna?» dice. «Mi felicito. La delegazione degli operatori economici italiani che sta visitando la Cina è fatta di sessanta persone, ma tutti uomini» (per le donne Mao Tsetung aveva usato una espressione bellis­sima: «la seconda metà del cielo»).Già stata a Parigi, Londra e New York, Ada Princigalli arrivò a Pechino nel 1971 e vi rimase otto anni. Anche questo è il bello del giornalismo: la possibilità, per chi ne ha la ventura, di conoscere da vicino grandi realtà u­mane, grandi processi storici e politici, guerre e rivoluzioni. L’inviato di un giornale arriva al momento del fatto, scende dall’aereo, si guarda intorno, cerca di capire come stanno le cose, racconta e se ne va.

 Il corrispondente di un’agenzia, invece, ci vive in quel pezzo di mondo che cambia; in genere im­para, se già non la conosce, la lingua del posto, parla con la gente, va al mercato, porta a spasso i fi­gli, se ne ha (Ada, sola, ne aveva uno, piccolo); giorno dopo giorno, estate e inverno, primavera e autunno, vede, capisce, racconta; chi meglio di lui? Dal 1971 al 1979 Ada seguì in Cina uno dei più grandi processi storici, politici e ideologici di tutti i tempi: nel 1971 la misteriosa caduta di Lin Biao, il «grande compagno d’arme» di Mao; nel 1972 l’avvio a1 tramonto della Ri­voluzione culturale; nel 1973 la ricomparsa di Deng Xiaoping e il contempo­raneo avvento di Wang Hongwen, uno dei «quattro» dell’estrema sinistra; nel 1974 la ripresa del dibattito ideologico destra‑sinistra; nel 1975 il conflit­to fra i moderati di Chou Enlai e di Deng Xiaoping e i radicali di Zhang Chunqiao, la moglie di Mao; nel 1976 la morte di Chou Enlai, il riallontana­mento di Deng, la morte di Mao Tsetung, la fine del grande sogno delle Co­muni popolari; nel 1977 il nuovo ritorno di Deng e la condanna della «banda dei quattro»; nel 1978 la restaurazione: «Un gatto non è bravo perché è ros­so; è bravo se ammazza i topi» diceva Deng Xiaoping.

  Un altro che ne ha visto di tutti i colori è stato Bruno Marolo, inviato in Libano nel 1975 e corrispondente per l’Ansa da Beirut dal 1980 al 1985: i conflitti fra le destre cristiane filooccidentali e le sinistre musulmane, la con­trapposizione fra Urss e Usa sulla pelle di israeliani e palestinesi, le guerre arabo‑israeliane, il disegno di Damasco di una «grande Siria», l’afflusso di mezzo milione di profughi dalle terre giordane occupate dagli israeliani, una guerra civile che trasformò la «Svizzera del Medio Oriente» in un paese affa­mato e distrutto e Beirut da grande centro internazionale di affari e meta del turismo di lusso in una città di rovine.Anche questa è la vita del corrispondente di agenzia.

  Con moglie e figlio, Marolo rimase fino all’ultimo a Beirut, in un edificio con le finestre senza vetri, che erano stati frantumati da un’autobomba fatta saltare sotto casa, e con una telescrivente che, in mancanza dell’energia elettrica, funzionava con un piccolo gruppo elettrogeno.A causa dei permanenti pericoli di vita, Bruno Marolo è stato l’unico cor­rispondente dall’estero che autorizzai a lasciare il suo posto, quando lo vo­lesse, da un momento all’altro, senza prima chiedere l’autorizzazione della direzione dell’agenzia. Non si mosse. Eppure da capo dell’ufficio Ansa per tutto il Medio Oriente, era diventato, per colpa della guerra, soltanto il cor­rispondente dal Libano e poi soltanto il corrispondente da Beirut e poi sol­tanto il corrispondente da un quartiere di Beirut. Non so come facesse, con la radio, col telefono quando funzionava, ma ogni giorno ci raccontava le cronache di quella tragedia.

  Il giornalismo è fatto anche di fortuna, mala fortuna bisogna meritarsela. Cesare Rizzoli era il corrispondente dell’agenzia da Tripoli. Non era un po­sto gratificante; dopo la conquista del potere, nel 1969, da parte di Muammar Gheddafi, nella Libia (cioè nella Jamahiria araba libica socialista, come Gheddafi voleva che si chiamasse) non succedeva niente; se succedeva, non si sapeva; se si sapeva, le linee telefoniche con l’estero venivano tagliate dai ser­vizi di polizia. Per questo motivo nessuna agenzia di informazioni occiden­tale teneva un corrispondente a Tripoli.

  Cesare Rizzoli ci andava ogni tanto, quando pensava che potesse succe­dere qualcosa; ci andò il 21 settembre del 1971 e proprio quella mattina, ap­pena arrivato in albergo, sentì un gran fuoco di fucileria e tante raffiche di mitragliatrice. Era un tentativo di colpo di stato contro Gheddafi. Doveva es­sere una cosa seria, se questa volta la polizia non si ricordò di interrompere le linee telefoniche. Rizzoli chiamò Roma per avvertire i colleghi della reda­zione dall’estero e, perché non pensassero che fosse diventato matto, mise la cornetta del telefono fuori della finestra. Fummo in parecchi, in agenzia, a sentire gli spari di un episodio che è rimasto misterioso negli obbiettivi e nei protagonisti.Tutte le agenzie internazionali ripresero il servizio di Rizzoli, citando l’Ansa, e il giorno dopo lo pubblicarono i giornali di tutto il mondo. Non era mai successo che la sigla dell’agenzia apparisse tante volte e in ogni conti­nente. Anche i quotidiani italiani riportarono il pezzo trasmesso dall’Ansa e tutti in prima pagina; ma senza citare l’agenzia. Come al solito.

   Fortunato fu anche, e anche lui con merito, Riccardo Benozzo, a quel tempo responsabile, a Buenos Aires, dei servizi dell’Ansa in America lati­na. Alla fine degli anni Settanta il Salvador era uno degli stati latinoamericani più turbolenti per la dittatura militare imperante e per la guerra civile che in­sanguinava il paese dopo il fallimento della riforma agraria. L’arcivescovo O­scar Romero cercava di difendere i diritti dei poveri e di opporsi alla violen­za, ma le sue critiche alla dittatura non piacevano alla destra.A metà marzo del 1980 Riccardo Benozzo pensò giustamente di andare a dare un’occhiata e il 25 era nella cappella dell’ospedale della Divina Provvi­denza nei sobborghi della capitale San Salvador. Celebrava la messa Oscar Romero e a un certo momento quattro colpi di pistola lo colpirono davanti all’altare.

   Benozzo dette per primo la notizia: l’arcivescovo Romero assassi­nato mentre celebra la messa. Con sé Benozzo aveva anche un registratore in funzione, come se avesse previsto tutto. Mi mandò la cassetta: che impres­sione quegli spari; quattro colpi secchi e le preghiere dei fedeli che si interrompevano, e poi grida e pianti.Non sempre è tragedia e a volte càpita di assistere, o di partecipare, a sce­ne divertenti; anch’esse, però, utili a capire uomini, cose e situazioni.

  Nel febbraio del 1978 l’allora presidente dell’Ansa, Gianni Granzotto, ed io andammo a Tripoli per ampliare l’accordo di collaborazione con la Jana, l’a­genzia di stampa della Jamahiria. Un pomeriggio ci avvertirono, con un cer­to tono di mistero, che saremmo stati ricevuti da una «persona importante». Chi poteva essere se non Gheddafi? ma nessuno ce lo disse.Una camionetta militare ci portò fuori di città. Non c’erano luci, ma era una notte di plenilunio. A piedi passammo un primo posto di guardia e poi un secondo; poi ci lasciarono soli in un grande campo di fave. Mentre aspet­tavamo, cominciammo a staccare qualche baccello dalle piante; le fave erano ottime. «Ci vorrebbe un po’ di cacio pecorino» disse Granzotto. Dopo un quarto d’ora qualcuno venne a prenderci e ci accompagnò fino ad una gran­de tenda.Era una tenda beduina e su un lato aperto era acceso per terra un fuoco di legna. Dietro c’era lui, Gheddafi, seduto su una sedia a sdraio. All’interno si vedeva una branda e un televisore.

   La prima cosa che ci chiese fu se avevamo letto il suo «libro verde», dove, come si sa, aveva illustrato la sua teoria di u­na terza via fra capitalismo e comunismo. Imbarazzati, gli dicemmo di sì; in realtà l’avevamo avuto fra le mani, ma gli avevamo dato soltanto poco più di un’occhiata.Cercammo di cambiare discorso, parlando dell’accord.o firmato fra l’Ansa e la Jana e dell’impegno assunto di contribuire a una migliore conoscenza fra i due paesi. Gheddafi assentì; i due nostri popoli, disse, sono molto simili; simili, aggiunse, anche come aspetto fisico.Granzotto ed io ci guardammo: anche come aspetto fisico? «Ma lei, co­lonnello (a volte lo chiamavamo colonnello nonostante ci avessero detto di chiamarlo presidente), ha visitato l’Italia?».«No», rispose; «ci sono stato ma solo per qualche ora, tanti anni fa»; tanti anni fa, cioè, evidentemente, prima di far fuori re Idris nel 1969 e di prendere il potere in Libia. «Rimasi alla stazione di Roma fra un treno e un altro». «Di notte?». «Sì, di notte».

   Capimmo che aveva giracchiato per la stazione e ave­va ritenuto che gli italiani fossero tutti come quella eterogenea popolazione che di notte circolava tra il salone della biglietteria e il grande atrio di accesso ai treni.Altri episodi riguardano personaggi di casa nostra.

   Nel novembre del 1975 il presidente della repubblica Giovanni Leone si recò in Urss in visita uffi­ciale («visita di Stato», come si dice). Al Quirinale era stato eletto nel dicem­bre 1971, alla vigilia di Natale, dopo ventitré scrutini e, per la presenza di pa­recchi «franchi tiratori» nella maggioranza, con i voti determinanti del Msi.All’inizio delle votazioni, il 9, la Dc aveva presentato come suo candida­to Amintore Fanfani, ma una valanga di voti contrari dal suo stesso partito lo aveva bocciato. Ormai il nome di Fanfani era legato a una linea politica che le destre del paese, politiche ed economiche, continuavano a non gradire.Giovanni Leone era (e suppongo sia ancora) una persona simpaticissima, il tipico grande avvocato napoletano, con tutti i pregi e almeno un difetto (la superstizione) che caratterizza quella gente meravigliosa che vive tra il Vo­mero e Posillipo. Leone aveva però anche una debolezza: di tenere rapporti con personaggi un po’ equivoci; le voci di irregolarità fiscali e di traffici im­mobiliari, lo scandalo della Lockheed e un libro di una giornalista di grido, Camilla Cederna (che poi sarà condannata per diffamazione in tutti e tre i gradi di giudizio), lo costrinsero a dimettersi (non lo difese neppure il suo partito) il 15 giugno del 1978 prima della scadenza del mandato settennale.

  In quel viaggio in Urss nel 1975, dopo i rituali colloqui al Cremlino, la delegazione italiana, insieme ai giornalisti che la seguivano, si recò in visita a Leningrado e poi a Tbilisi (la vecchia Tiflis), in Georgia. A Leningrado c’era una tormenta di neve e sull’aeroporto, chiuso al traffico normale, l’atterrag­gio era avvenuto su una pista ghiacciata con visibilità 50 metri (ma i piloti dei tre aerei ‑ ci spiegarono ‑ erano tutti «eroi dell’Unione Sovietica»); in Geor­gia, invece, al di là del Caucaso, 2500 chilometri più a sud, c’era un autunno ancora caldo e soleggiato.Non solo per il clima; anche per cultura, lingua e tradizioni la Georgia non ha niente che vedere con la Russia. È un paese meridionale e la sua gente è gente del sud. Giovanni Leone si sentì subito a suo agio, felice di usare la còppola che il presidente georgiano gli aveva regalato: una còppola proprio eguale a quelle che si usano nell’Italia meridionale e in Sicilia.

  La sera il pranzo ufficiale si svolse in un grande ristorante in cima a una collina: pranzo ufficiale, ma senza ufficialità; barzellette (gli interpreti erano bravissimi), risate e tanti bicchieri di vino. C’era anche un’orchestrina e a un certo punto una ventina di invitati (o così parevano) si alzarono in piedi e si misero a cantare; erano antichi canti popolari e poco mancò che non ci met­tessimo tutti a ballare.Il bello venne subito dopo, quando qualcuno disse che in cima a quella collina, dove ci avevano portato le auto di rappresentanza, arrivava anche u­na funicolare. Una funicolare? Come a Mergellina?

   Finito il pranzo, il presi­dente della repubblica italiana e il presidente della repubblica socialista so­vietica della Georgia uscirono a braccetto dal ristorante e salirono sul vagone della funicolare. Il vagone partì e tutti si misero a cantare. Che cosa? È ov­vio: «Funiculì, funiculà».

  Anche i viaggi con Sandro Pertini erano piacevoli e divertenti, al di là del lavoro, che, in questi casi, è sempre un lavoro delicato, specie per un’agenzia che per la sua struttura sociale è tenuta a un’informazione esatta, completa e imparziale; e un’informazione senza commenti o ricami o ghirigori. Sandro Pertini era stato eletto presidente della repubblica 1’8 luglio del 1978 con i voti di tutti i partiti del cosiddetto «arco costituzionale»: Pli, Dc, Pri, Psdi, Psi e Pci. Così Pertini aveva chiesto come condizione del­la sua candidatura e della sua accettazione, così ripeté nel discorso di insedia­mento, proclamando di volere essere il presidente dell’«unità nazionale». E­ra, e rimase, la sua idea fissa: chiamare i comunisti al governo del paese insie­me a tutti gli altri partiti democratici. Giorno dopo giorno, la formula trovò poi la sua pratica attuazione, ma non in maniera ufficialmente costituzionale, bensì nel peggiore dei modi, quello della distribuzione allargata di porzioni di potere; fu chiamata «consociativismo».

  In una repubblica che si avviava inesorabilmente sul viale del tramonto il settennato di Sandro Pertini ha rappresentato tuttavia un lungo felice mo­mento per le cadenti istituzioni dello stato. La sua età (aveva quasi 82 anni quando venne eletto), la sua figura di vecchio combattente per la libertà e la democrazia; il suo richiamo non soltanto ai valori della lotta partigiana e del­la Resistenza, ma anche a quelli, più antichi, di patria e di bandiera, ossia la bandiera nazionale; i suoi frequenti appelli alla pace («si vuotino gli arsenali, si colmino i granai»); il suo conclamato amore per la gioventù e per i ragazzi (lui che non aveva avuto figli); la sua così convincente onestà e integrità mo­rale; insomma la sua grande umanità, anche se spesso intrisa di retorica e, a volte, di demagogia, fece di lui un sicuro ancoraggio di fiducia e di speranza per la democrazia.

  Gli italiani impararono a voler bene a quello che sentivano essere davvero il loro presidente e la stampa, anche politica, fece finta di non capire parole e di non vedere gesti che per nessun altro sarebbero passati lisci: gli inviti, pubblicamente espressi, per governi, appunto, di «unità nazionale» (anche all’estero, in una conferenza stampa a Monaco di Baviera, durante una «visi­ta di stato» nella Rft); i suoi interventi personali in vertenze sindacali, passando sopra al sindacato e al governo (una volta chiamò al Quirinale i rap­presentanti dei controllori di volo, che volevano essere smilitarizzati; e ci riuscirono); gli incontri con personalità del mondo internazionale, non privi di ben precisi significati politici (Yasser Arafat nel settembre del 1982; il pre­sidente del consiglio Giovanni Spadolini, invece, rifiutò di vederlo); il suo «schierarsi», insomma, ben al di là dei limiti pertinenti a un capo di stato.

  La sua umanità, il suo sentirsi non un simbolo ma un uomo come tutti, con le sue virtù (di cui era consapevole) e con i suoi difetti (di cui non si ac­corgeva), era ancora più percepibile standogli vicino. Una sera del settembre del 1979, a Berlino ovest, dove si trovava in visita ufficiale dopo Bonn e pri­ma di Monaco di Baviera, stava riposandosi in albergo chiacchierando con alcuni dei suoi collaboratori su un certo modo tedesco di arrostire il maiale.

  Arrivai io e gli dissi di aver saputo da Roma che c’era stata una leggera scossa di terremoto. «Davvero?» disse; «devo telefonare subito a Carla». Carla ‑ Carla Voltolina ‑ era la moglie e il fatto che il capo dello stato prima ancora di chiedere se c’erano stati feriti si preoccupasse della moglie lo rendeva sim­paticamente, nel bene e nel male, uno come noi. Per fortuna a Roma non c’e­rano stati né feriti né morti.Gli anni che aveva (e che, da vicino, dimostrava) non gli avevano addor­mentato una certa vanità, e lo si vedeva da come baciava la mano alle belle si­gnore.

  A Madrid (altra visita ufficiale, nel maggio 1980) mi raccontò che la sera prima, durante una cena privata in un locale tipico, il Corral, (c’ero an­ch’io, ma se ne era dimenticato), una zingara gli aveva predetto che avrebbe avuto un figlio maschio. Tre volte me lo raccontò.

  A Belgrado, nell’ottobre del 1979 (ancora una visita ufficiale), al pranzo di gala di prammatica il maresciallo Tito alzò il calice per brindare alla salute dell’ospite, ma la mano gli tremava e mentre pronunciava le solite parole di omaggio, più di metà dello spumante colò lentamente sulla camicia bianca dello smoking. Fu una scena angosciosa e imbarazzante.

  Al termine del pranzo il presidente Tito accompagnò il presidente Pertini ‑ cosa insolita ‑ fino alla scalinata esterna al grande portone d’ingresso e lì si congedò, tornando indietro. «Ha visto?» mi disse Pertini; «e lui ha soltanto quattro anni più di me». E poi (erano le 22 passate) ai suoi collaboratori: «Dove andiamo a finire la giornata?».

   Anche questo è il mestiere di giornalista; ed è questo, purtroppo, cioè il girare per il mondo, stare vicino ai personaggi importanti, dare un’occhiata a quelle che si credono siano le «stanze dei bottoni», è questo che attrae molti giovani verso il giornalismo. Non si illudano e non si lascino sedurre dai cat­tivi maestri.

   Parecchi anni addietro fu chiesto ad alcuni dei più noti giornalisti italiani (fra gli altri, Arrigo Benedetti, Indro Montanelli, Eugenio Scalfari) che cosa intendessero per giornalista. Ecco un sunto delle risposte: il bravo giornalista è un onesto uomo di mestiere, che ha scelto un lavoro di fatica e anche umi­le, ed è pagato per raccontare alla gente quello che è successo; è un artigiano, che deve molto imparare dalla buona bottega dove opera, che deve molto studiare, molto leggere; e che nel proprio lavoro deve mettere molta serietà e molto senso della misura.Tanta gente crede che giornalismo significhi scrivere e firmare con nome e cognome e farsi leggere. Non è vero.

   La maggior parte dei giornalisti non scrivono ma rivedono o elaborano cose scritte da altri: i servizi dei corri­spondenti e degli inviati, gli articoli dei collaboratori, i testi inviati dagli uffi­ci stampa di enti pubblici e privati, ma soprattutto materiale da agenzia, cioè le notizie che le agenzie trasmettono nelle 24 ore (parecchie centinaia al gior­no, quelle dell’Ansa); si tratta di selezionarle, in base all’interesse che esse possono avere per i lettori e in base all’urgenza, e poi di integrarle e arric­chirle o tagliarle e riassumerle, a volte di riscriverle; e poi di dar loro un tito­lo, a una o più colonne, secondo l’importanza; e di stabilire in quale pagina devono andare e se in apertura o «di spalla» o a centro pagina o in basso.

   È il lavoro di «desk», come si dice nel gergo giornalistico, o di «cucina»: un lavoro importante, anche se anonimo e poco gratificante. È da questo la­voro, più che dalle firme autorevoli e prestigiose, che dipende la qualità del giornale.E tutto nell’interesse del lettore. È lui il giudice; ed è lui che aspetta dal giornalista non le sue «verità», ma gli elementi per costruire o verificare le proprie verità; per accrescere il proprio patrimonio di conoscenze, per eser­citare meglio i propri doveri di cittadino, per affrontare meglio i cento pro­blemi della vita:Molti giornalisti, specie delle nuove generazioni, non vogliono capirlo: i lettori non amano l’informazione‑spettacolo, la drammatizzazione dei fatti, 1’enfatizzazione del linguaggio; diffidano dei titoli che vogliono far colpo (e spesso non concordano col testo del servizio), sospettano degli scoop che il giorno dopo vengono smentiti o ridimensionati.

  E a questo giornalismo che tradisce la funzione civile dell’informazione i lettori rispondono esercitando il potere che è nelle loro mani: di non comprare i giornali e di non ascoltare, se non distrattamente, i telegiornali.

  Le statistiche sono agghiaccianti. In Italia solo undici cittadini su cento comprano un quotidiano (meno di tre su cento in alcune zone del Sud); e la cifra è in discesa. Il tempo di lettura di un quotidiano a stampa va dai 15 ai 30 minuti, e sta calando, specie fra le classi giovanili. Anni addietro un’inda­gine del Servizio opinioni della Rai accertò che di cento interrogati su «che cosa facevano mentre guardavano il telegiornale», solo il 55.8 per cento ri­spose «guardavo senza parlare»; il 25.4 per cento rispose «parlavo con altre persone», il 18.0 per cento «lavoravo, leggevo, facevo altre cose», il 10.9 «en­travo e uscivo dalla stanza», il 4.1 «sonnecchiavo, ero distratto». Ci deve essere una ragione, se cresce questa generale disaffezione per l’informazione a stampa e televisiva.

  Forse siamo rimasti soltanto in pochi a sostenere che il giornalismo è un servizio. E che è una professione bellissima, se fatta con onestà e umiltà, pensando soprattutto a quelli che ci devono leg­gere o ascoltare, i cittadini.