L’Italia del miracolo
All’Eliseo a tavola con Fernand Braudel. L’Oscar per la finanza alla lira italiana e il «miracolo economico”. Enrico Mattei e le «sette sorelle». Il no al piano urbanistico nazionale. La Corte costituzionale e l’adulterio della moglie. Le denunzie contro la «Dolce vita» di Fellini. In Parlamento il festival di Sanremo.


  Il lungo tavolo era già pieno di invitati. Mi inchinai, chiesi scusa e mi misi a sedere. Accanto a me, alla mia sinistra, era seduto un anziano signore dai capelli bianchi. Detti un’occhiata al cartoncino col nome, posto davanti ai bicchieri: prof. Fernand Braudel. Proprio lui.

  I pranzi di gala che scandiscono gli incontri ufficiali fra capi di stato sono terribilmente noiosi e anche inutili. Il capo di stato ospitante ritiene di dover presentare al capo di stato ospite il meglio del paese: accanto a ministri e capi partito, ecco perciò i più noti fra gli industriali, gli scienziati, i letterati, gli artisti, i giornalisti, qualche attore famoso (in Italia una Sofia Loren, se è su piazza, fa fare sempre buona figura); poi i più alti funzionari del ministero degli esteri e anche qualche diplomatico minore, per riempire eventuali vuo­ti. Ci sono anche, ovviamente, i membri più importanti della delegazione che accompagna l’ospite.

  All’ingresso dei saloni d’onore i due capi di stato (e le mogli, se ce l’han­no) aspettano in piedi gli invitati (un centinaio, in media). Il padrone di casa li presenta via via; è aiutato da qualcuno (in genere il capo del cerimoniale) che gli ricorda o suggerisce il nome, ma il nome quasi sempre si perde nel brusio.

  Dopo la stretta di mano e un leggero inchino, gli invitati passano in un primo salone e i camerieri offrono un bicchiere di spumante o qualcosa del genere, mentre ospitante e ospitato sono ancora in piedi a stringere mani. A un certo momento, stabilito dal protocollo, tutti entrano nel grande salone dove è preparato il tavolo o i tavoli e ognuno prende il posto indicatogli da un cartoncino che ha ricevuto all’ingresso.

  In genere, se il salone è abbastanza spazioso, il tavolo è a ferro di cavallo (o, se si preferisce, «a U arrovesciato»). Al tavolo orizzontale, sul solo lato e­sterno, sono i personaggi più importanti e al centro di esso i due numeri u­no. Ai due tavoli perpendicolari, su entrambi i lati, interno e esterno, tutti gli altri, in ordine un po’ sparso, per evitare permali; in fondo, a chiusura, ven­gono collocati alcuni giovani diplomatici, convocati proprio per questo.

  E’ praticamente impossibile (a meno di non chiamarsi Sofia Loren) parla­re col capo di Stato ospite e lui con gli invitati prima che il pranzo cominci. Dopo, si può parlare soltanto con i compagni di tavolo più vicini. Se sono connazionali qualche banalità come «È da tanto tempo che non ci vediamo», se sono stranieri qualche banalità come «È la prima volta che visita questo paese?».

  In quell’occasione ‑ era il luglio del 1982 ‑ fui molto fortunato. Parigi, visita ufficiale del presidente Pertini al presidente Mitterrand. Pranzo di gala al palazzo dell’Eliseo, residenza presidenziale. Accanto a me era seduto Fer­nand Braudel, il direttore della rivista Les Annales e, insieme a Marc Bloch e poi a Jacques Le Goff, il più affascinante esponente della scuola che in que­sto secolo ha rivoluzionato la storiografia.

  Erano stati loro, e il loro maestro, Lucien Febvre, a buttare per aria quel modo di scrivere storia che ci aveva tanto annoiato al ginnasio e al liceo, cioè la storia «événementielle», fatta di date, di guerre e di battaglie; erano stati ­loro a insegnarci che il processo di sviluppo della società è un fenomeno complesso e che i grandi eventi, la grandi figure, le grandi congiunture poli­tiche e militari si dimostrano spesso meno importanti della modesta vita quotidiana, delle azioni, anche semplici, compiute e ripetute, giorno dopo giorno, dagli individui e dalle collettività.

  Da secoli si era creduto che per scrivere di storia bastassero gli archivi di­plomatici, i documenti ufficiali, i testi degli interventi politici, i proclami dei grandi condottieri di popoli e di masse. Oggi sappiamo, grazie agli «annali­sti», che la storia è l’umana vicenda di ognuno, grande o piccolo, ricco o po­vero, potente o debole, vittorioso o sconfitto, superbo o umile; e che per ca­pire quello che è accaduto e quello che accade non sono più sufficienti i tra­dizionali dati di ricerca; occorrono analisi nuove, dove le serie meteorologi­che si alternano alle mappe rurali, l’indice Dow‑Jones alle curve dei canoni di affitto e dei prezzi del combustibili, il numero dei morti per droga ai pro­cessi per terrorismo e per mafia; e possono servire, quindi, anche altri stru­menti: le pagine dei giornali e gli archivi elettronici di notizie.

  Fernand Braudel era terribilmente sordo; dovevo parlare ad alta voce, e alla conversazione parteciparono così, incuriositi, anche i commensali vicini: professore, non le sembra che, se si vuole costruire una storia più concreta e coerente, è giusto che, accanto alla sociologia e all’antropologia, alla demo­grafia, alla geografia e all’economia, come mezzi per accertare le diverse di­mensioni delle azioni dell’uomo e delle collettività, debba avere il suo posto anche il giornalismo come scienza del contingente, come conoscenza della quotidianità? un giornalismo ‑ è ovvio ‑ inteso e esercitato come lavoro se­rio, corretto e responsabile, confortato e reso più efficiente dalle nuove tec­nologie di raccolta, di elaborazione e di memorizzazione delle informazioni? Umberto Eco ha dato una così bella definizione del giornalismo: «storiogra­fia dell’istante».

  Il professor Braudel assentiva. Alla base di tutto sta la fonte dell’informa­zione, il fatto, i cento e cento episodi in cui si manifesta la vita di ogni gior­no, il flusso costante della storia. E questa storia che finalmente non ha più l’iniziale maiuscola, perché non è più qualcosa di trascendente al di sopra de­gli individui, ma è la storia vera, la storia di ognuno di noi, questa storia ‑ in­sistevo ‑ è proprio il brodo di coltura dove il giornalista (il giornalista serio) esercita il suo compito di ricerca e di analisi e dove l’informazione fiorisce in tutta la sua forza drammatica: come mezzo di conoscenza, come strumento di lavoro, come sussidio di servizio.

  Ma questo ‑ mi chiese Fernand Braudel ‑ è il giornalismo com’è o il gior­nalismo come dovrebbe essere? È davvero creatore di civiltà oppure è crea­tore di miti, e mito esso stesso, modellato sui clichés offerti dalla televisione e dalla pubblicità commerciale? e il mondo che esso rappresenta è la realtà ve­ra oppure è soltanto una realtà virtuale, che simula la realtà fino a sostituirla del tutto nell’esperienza del consumatore?

  Domande imbarazzanti, anche se la risposta era quasi ovvia: dipende dal­la coscienza con cui si esercita la professione; dipende dalla testata e dal tipo di testata in cui si lavora. Un’agenzia di informazioni che abbia una struttura sociale e una situazione economica che la renda autonoma dal potere è forse l’organo che più si avvicina all’idea di storiografia propria degli «annalisti». Un’agenzia racconta i grandi fatti, politici, economici e militari, ma anche i piccoli fatti, tanti piccoli fatti di cronaca. Le notizie che trasmette, una dopo l’altra, hanno tutte il titolo su una riga: il colpo di stato e le previsioni del tempo, i dati dell’inflazione e i programmi della televisione, l’attentato terro­ristico e le quotazioni di borsa; e le une e le altre ‑ i grossi eventi e le mode­ste cose che accadono nelle 24 ore ‑ solo se valutate insieme dànno il senso vero della giornata.

  Prima di essere mediazione, anche il giornalismo è (o dovrebbe essere) ri­cerca. Il giornalismo è scoperta, è acquisizione di novità, è analisi critica, è accertamento dei fili invisibili che legano ogni accadimento al passato e al fu­turo. Non è, come spesso si dice, il riconoscimento dell’effimero, bensì la consacrazione di una continuità che gli altri non vedono. Questa è la storia di ogni giorno; e, giorno dopo giorno, la storia della vita.

  Ecco perché un’informazione seria, precisa e attenta può essere strumen­to o, per lo meno, sussidio di storiografia. Gli anni Cinquanta furono pieni, in Italia, di avvenimenti clamorosi, ma pochi si accorsero della rapidità delle trasformazioni; e pochi si resero conto che stavamo diventando un paese moderno.

  Ancora oggi non si può capire quel decennio se non si sa anche che al censimento del 1951 il 13 per cento degli italiani risultava analfabeta e solo 1’1 per cento laureato; che 44 lavoratori su cento erano occupati nell’agricol­tura; che la paga netta di un bracciante ‑ espressa in moneta di oggi ‑ am­montava a duemila lire l’ora, mentre un chilo di pane costava l’equivalente di 2.600 lire, un paio di scarpe 120 mila lire.

  Le automobili erano nove ogni mille abitanti, le moto 20, i telefoni venti­nove. In una borgata di Roma cinquemila persone si dividevano 25 gabinetti esterni. In Calabria otto paesi su dieci erano privi di fognature. Nel 1955 un televisore, che permetteva di assistere a poche ore di trasmissione in bianco e nero su un solo canale, costava l’equivalente di cinque milioni di oggi. Molti andavano a vedere i programmi tv al bar; nelle case gli inquilini si riunivano la sera nell’abitazione del più fortunato, che faceva salotto, e qualcuno si ve­stiva col vestito buono, come se dovesse andare al cinema o al teatro.

  Verso l’inizio degli anni Sessanta ci si accorse che molte cose stavano ra­pidamente cambiando. Era importante che nel gennaio del 1960 il Financial Times di Londra assegnasse alla lira italiana l’Oscar per la finanza come «mi­gliore divisa dell’anno»; ma era importante anche che sulla linea ferroviaria Milano‑Roma cominciasse a correre il «Settebello» e che sui giornali appa­rissero pubblicità mai viste prima: per l’eliminazione dei peli superflui, per la crescita della statura, per il rafforzamento dei muscoli. Nel 1957 il grande fatto dell’anno era stato l’uscita della «Nuova 500» della Fiat, ma per chi a­veva sofferto la fame negli anni della guerra e aveva conosciuto la scarsità o la mancanza del pane, la cosa più sconvolgente fu in quegli anni la comparsa dei «krekkers» e l’annunzio di diete per dimagrire.

  Nel 1960 si cominciò anche a parlare di «miracolo economico». L’espres­sione l’usò per prima Ninetta Jucker, una giornalista inglese corrispondente da Roma dell’Economist, e rimbalzò sul Financial Times: «Le realizzazioni economiche di questo paese hanno tutti gli ingredienti del miracolo» scriveva il giornale e aggiungeva a conferma: «Le riserve di oro e di valuta straniera negli ultimi due anni sono raddoppiate e sono ora le terze del mondo».

  «Ninetta, ti sei presa una bella responsabilità» dissi un giorno alla collega. In realtà gli investimenti e il risparmio erano aumentati e così le esportazio­ni, dopo la liberalizzazione degli scambi voluta dal ministro del commercio estero Ugo La Malfa nonostante l’opposizione della Confindustria e l’avver­sione dei sindacati. Da paese agricolo l’Italia stava diventando un paese indu­striale. Nelle industrie del Nord si creavano ampie occasioni di lavoro e il paese vedeva un eccezionale fenomeno: la migrazione di migliaia di lavorato­ri, disoccupati o sottoccupati, soprattutto contadini, dalle regioni meridiona­li al così chiamato «triangolo industriale» di Torino, Milano e Genova.

  Anche l’alimentazione migliorava, ma il tenore di vita delle classi lavora­trici si presentava soddisfacente solo in confronto agli anni della guerra e del dopoguerra. C’era lavoro, la disoccupazione era quasi scomparsa, ma i salari degli operai e dei lavoratori agricoli, ancora non compiutamente sindacaliz­zati, così come quelli degli impiegati dello stato, erano cresciuti di poco.

  Vero o meno vero che fosse il «miracolo economico», l’espressione co­niata da Ninetta Jucker ebbe successo, anche all’estero. Gli italiani, a cui pia­ce sempre dir male dell’Italia, sono però contenti che ne dicano bene gli stra­nieri; come quando un giornale francese, il quotidiano Combat, scrisse che per l’Italia era finito il tempo del mandolino e delle coltivazioni di arance: «È l’energia del suo popolo e non un colpo di bacchetta magica che ha trasfor­mato l’Italia in un paese di altiforni e di autostrade, di officine e di dighe, che adempie con onore alle sue funzioni di terza ‘grande’ del Mercato comune». «Ninetta» dicevo, «sei proprio sicura che sia vero?».

  In realtà stava aumentando il numero degli autoveicoli in circolazione: 48 ogni mille abitanti. Alle Olimpiadi del 1960 l’Italia era stata quarta con 13 medaglie d’oro, dieci d’argento e tredici di bronzo (Livio Berruti aveva vinto i 200 metri in 20″ e 5). Nascevano i supermercati con la loro aria di dovizia di beni, e si scopriva il piacere del «carrello» da riempire (e dove mettere, a cavalcioni, il bimbo più piccolo). Nelle case in cui non arrivava il gas urbano, cioè nelle piccole città e nelle campagne, la bombola del metano era stata una vera e propria rivoluzione, che affrancava le donne dalla schiavitù della car­bonella, da accendere, con pazienza e fatica, due o tre volte al giorno. Grazie alla migliore alimentazione era cresciuta anche l’altezza dei ragazzi di leva: quasi tre centimetri in dieci anni.

  C’era perfino qualche tentativo di una politica estera che non andasse a rimorchio degli Stati Uniti e delle grandi multinazionali. L’ll ottobre del 1960 il presidente  dell’Eni, Enrico Mattei, aveva firmato col ministro del commercio estero dell’Urss una serie di contratti che prevedevano scambi di forniture fra i due paesi per 200 milioni di dollari: petrolio grezzo e olio combustibile dall’Urss contro tubi di acciaio, gomma sintetica, pompe e attrezzature per gli oleodotti dall’Italia.

  Nel 1961 giunsero nel porto di Bari 18 mila tonnellate di petrolio provenienti da un giacimento scoperto in Iran dall’Agip mineraria. Era il primo risultato dell’accordo firmato nel 1957 da Enrico Mattei con la società petrolifera statale iraniana: un accordo fifty-fifty. Mai prima di allora un paese del Medio Oriente era entrato in partecipazione paritetica con una società petrolifera occidentale per lo sfruttamento delle proprie risorse. Era stata l’Italia a rompere il monopolio planetario delle “Sette sorelle”: le statunitensi Esso (poi diventata Exon), Gulf, Mobil, Standard Oil of California, Texaco e le europee  British Petroleum e Dutch Shell, che controllavano da sempre l’estrazione e il commercio mondiale del petrolio.

  Dall’Iran Enrico Mattei sarebbe passato all’Algeria, ma non prima, disse, che finisse la guerra con la Francia: a differenza  delle compagnie francesi, inglesi e americane, voleva che i suoli tecnici lavorassero in un paese libero, non sotto la protezione dei mitra. Avrebbe dovuto aspettare fino al marzo del 1962.

  In quello stesso anno, in ottobre, il bireattore che portava Enrico Mattei da Catania a Milano precipitò a Bescapè, a dieci chilometri dall’aeroporto di Linate. Una disgrazia o un attentato? Tra quei rottami, tra l’acqua e il fango, moriva anche un progetto.

  Meno di un anno dopo, nel pieno dell’agosto, Giuseppe Saragat, segretario del Partito socialdemocratico cominciò, inaspettatamente, una violenta battaglia contro la politica energetica del governo. Saragat non si richiamava a motivi ecologici e di difesa dell’ambiente, ma sosteneva che le centrali nucleari in programma erano, a suo giudizio, un “pazzesco spreco di denaro pubblico”. Di lì a poco il segretario generale del Comitato nazionale per l’energia nucleare, Felice Ippolito, che aveva progettato un piano per garantire l’autosufficienza energetica del paese, sarebbe stato destituito; sette mesi più tardi sarebbe stato arrestato per peculato, interesse privato in atti di ufficio e abuso di funzioni. Da allora l’Italia non avrebbe più svolto una politica autonoma in campo energetico. Le “Sette sorelle” avevano vinto.

  Nelle periferie delle città del Nord, che si erano gonfiate di siciliani e di calabresi, il “miracolo economico” continuava a farsi sentire poco, ma la disoccupazione cominciò rapidamente a ridursi (dal 5.1 del 1961 al 3.9 del 1963) e così nei rinnovi contrattuali del 1963-63 i sindacati riuscirono a ottenere forti aumenti salariali. In due anni i redditi da lavoro dipendente crebbero del 43 per cento.

  L’aumento della popolazione urbana a Roma e nel Nord, a causa dei flussi migratori interni, aveva aumentato il valore delle aree e dato il via a una speculazione immobiliare selvaggia. Nel 1962 Fiorentino Sullo, ministro democristiano dei lavori pubblici del quarto governo Fanfani di centro sinistra, presentò un disegno di legge, che, basato sull’esperienza dei paesi europei più avanzati, si fondava sul principio dell’esproprio da parte dei Comuni delle aree edificabili comprese nei piani urbanistici e della loro successiva riconcessone ai privati appena fossero realizzate le opere di urbanizzazione.

  Nel giro di pochi mesi, dopo una opposizione violenta della destra confindustriale e poi della stessa Democrazia cristiana, attraverso una campagna diffamatoria che non risparmiò neppure la vita privata del ministro proponente, il primo (e ultimo) grande piano urbanistico nazionale fu ritirato.

  L’evoluzione verso il centrosinistra aveva impaurito buona parte della borghesia. Guido Carli, governatore della Banca d’Italia, auspicò nel 1963 quella “politica dei redditi”, di cui si sarebbe parlato trent’anni più tardi e avrebbe trovato nei sindacati un consenso che allora non ci fu; forse perché l’espressione era ambigua: i “redditi” da regolare erano i salari e i profitti o soltanto i primi?

  L’Italia era cresciuta troppo in fretta rispetto alle idee di gran parte della sua classe dirigente. Le forze che cercavano di impedire ogni cambiamento non si accorgevano di creare i presupposti di ben più gravi rivolgimenti. Sotto il primo governo di centrosinistra Guido Carli, in un consapevole tentativo (come poi confessò nelle sue memorie) di fermare quelli che considerava pericoli gravi per la libertà d’impresa, strinse i freni della moneta.  Era il 1964 e fu  la fine del “miracolo”.

  A guardare tutte queste cose  da quell’osservatorio privilegiato che era un’agenzia di informazione che continuava a rafforzare le sue strutture (le reti di trasmissione erano già due e sarebbero presto passate a tre; centoventimila le parole trasmesse ogni giorno, sufficienti a riempire una trentina di pagine di giornale) si rimaneva perplessi di fronte a fenomeni che non erano solo di gretto conservatorismo; erano soprattutto, a destra ma anche a sinistra, di sorprendente arretratezza culturale; e in più c’erano anche considerevoli quote di disinformazione, di ignoranza e di incompetenza.

  Nel novembre del 1961 la Corte costituzionale affermò la costituzionalità dell’articolo 588 del codice penale, che puniva il solo adulterio della moglie. Secondo la Corte, la norma non violava il principio di eguaglianza fra uomo e donna, previsto dalla Costituzione (e anche dalla logica e dalla morale); la norma – sostenevano i magistrati di un così importante organo istituzionale della repubblica – era volta a tutelare l’unità della famiglia, che, secondo il sentire comune, veniva turbata più dalla infedeltà della moglie che da quella del marito.

  Il Parlamento non era da meno. Nel gennaio del 1960 la Camera dei de­putati aveva aperto un acceso dibattito sul film di Federico Fellini La dolce vita, un film ‑ dicevano i deputati dc interroganti ‑ che gettava «un’ombra calunniosa sulla popolazione romana e sulla dignità della capitale d’Italia e del cattolicesimo». Anche in provincia c’era qualcuno che la pensava nella stessa maniera. Ad Arenzano, in Liguria, il sindaco proibì la proiezione di quel film, che «costituiva incentivo alla licenza del linguaggio» e incitava «al­la corruzione degli animi».

  Fu un anno ‑ e così l’anno seguente, il 1961 ‑ di episodi che oggi appaio­no incredibili. In aprile del 1960 la Curia arcivescovile di Napoli chiese che non fosse rappresentato al teatro San Carlo il Martirio di san Sebastiano di Claude Debussy, perché il testo (di Gabriele D’Annunzio) era stato messo all’Indice nel 1911 e inoltre «offendeva il sentimento religioso della città».

  In ottobre, a Milano, il procuratore della repubblica di Milano, Carmelo Spagnuolo, minacciò il sequestro del film Rocco e i suoi fratelli se non si fos­sero tagliate alcune scene considerate «raccapriccianti» e «offensive alla mo­rale»; e qualche giorno più tardi sequestrò prima il film di Michelangiolo Antonioni L’avventura, poi La giornata balorda di Mauro Bolognini, «per oscenità», e poi anche Il passaggio del Reno di André Cayatte, che aveva vin­to il «leone d’oro» alla mostra cinematografica di Venezia.

  Anche la questura riteneva di intervenire. Di sua iniziativa quella di Ro­ma vietò la proiezione di Non uccidere di Claude Autant Lara, perché tratta­va di obiezione di coscienza e perciò «istigava a compiere un reato», visto che allora l’obiezione di coscienza non era ancora riconosciuta in Italia. II di­vieto fu poi confermato dalla commissione di censura del ministero dello spettacolo e sul cattolico Quotidiano un gesuita scrisse che «Non uccidere» scalzava «dalle fondamenta l’ordine sociale» e deprimeva «l’autorità chiama­ta a sostenerlo e tutelarlo efficacemente per il bene della collettività».

  Nel 1961, a Milano, il solito procuratore capo della repubblica, Carmelo Spagnuolo, ordinò il sequestro addirittura di un libro, L’Arialda di Giovan­ni Testori, «ovunque si trovi o sia stato o sia per essere messo in vendita, nonché della composizione tipografica della matrice»; e a Roma la procura della repubblica (anonimamente; nessuno disse chi) fece sequestrare i mani­festi pubblicitari di Io amo, tu ami, Odissea nuda, All’inferno per l’eternità e Le ambiziose, perché riproducevano figure di donne «succintamente ve­stite».

  In aprile a Milano toccò a Giuseppe Patroni Griffi, di cui fu sequestrato (sempre per ordine di Carmelo Spagnuolo) il copione della commedia Ani­ma nera, in corso di rappresentazione da parte della compagnia De Lullo, Falk, Guarnieri. La rappresentazione fu ripresa soltanto dopo il taglio di una scena.

  Nel febbraio del 1961 arrivò in Parlamento anche Sanremo. Un deputato del Msi rivolse infatti un’interrogazione al governo per conoscere «quali esi­genze artistiche» soddisfaceva «l’ultimo festival di Sanremo e a quale gusto artistico» corrispondessero «tutti i movimenti contorsionistici a sfondo epi­lettoide che alcuni cantanti sistematicamente effettuano davanti a milioni di spettatori».

  Eppure l’uomo preparava il suo sbarco sulla Luna e perfino la Chiesa, col Concilio Vaticano II, si apriva al nuovo che stava arrivando. Ma la maggior parte del mondo andava avanti come se niente stesse per succedere. I generali del Pentagono preparavano l’invio di un corpo di spedizione nel Vietnam, convinti che nelle giungle del Mekong si difendesse la libertà e la democra­zia; a Berlino i comunisti costruivano il muro, come se un muro potesse re­spingere la forza delle idee; l’Urss faceva scoppiare, solo per esperimento, ventisei bombe atomiche in due mesi, e, per ultima, una superbomba di 50 megaton; e in Italia Parlamento, magistratura e polizia si baloccavano contro le scene «audaci» della Dolce vita di Fellini, contro i manifesti delle donnine seminude e contro i cantanti di Sanremo. E la stampa? La stampa guardava e raccontava, senza porsi problemi.Furono pochi quelli che si accorsero che il mondo era a una svolta.

  Furo­no pochi, perciò, quelli che non si stupirono del Sessantotto, quando arrivò, e non si stupirono dello sconquasso che sconvolse il pianeta alla fine degli anni Sessanta e all’inizio dei Settanta.