Kennedy e la fine delle certezze
Una fiammella nel cimitero di Arlington. Il mito della «nuova frontiera”. La visita al muro di Berlino: «Ich bin ein Berliner». Il viaggio in Italia e l’abbrac­cio della folla napoletana. L’inizio della rivoluzione elettronica e la crisi delle ideologie.

  Un giorno (doveva essere nella primavera del 1970) l’intervistatore di una emittente televisiva mi chiese qual era ‑ nei miei dieci anni, allora, di direzio­ne dell’Ansa ‑ l’avvenimento che mi aveva colpito di più.

  Non era facile rispondere. Succedono ogni giorno tante cose, e il gior­nalismo è proprio questo: sapere scegliere, fra i mille e mille eventi della giornata, quelli che si ritiene possano soddisfare i bisogni informativi dei cittadini. I motivi che stanno dietro quei bisogni sono sempre gli stessi, og­gi come 35 o 40 mila anni fa, quando le creature che poi furono chiamate uomini e donne cominciarono a camminare erette e trovarono nelle prime forme di socialità i mezzi per affrontare meglio i pericoli mortali della fo­resta. I motivi sono l’utilità, la partecipazione e la curiosità, cioè il deside­rio di sapere.

  Fatte le loro scelte, i giornalisti si mettono a raccontare quei fatti, giorno dopo giorno; e giorno dopo giorno quei fatti si accavallano, alcuni si consu­mano subito o di lì a poco, altri si sommano ad altri oppure sono bruciati da quelli che accadono più tardi; la maggior parte vengono dimenticati. Solo fa­cendo il giornalista si ha il senso terribile dell’effimero.

  I quotidiani a stampa, per lo meno, danno a quei fatti una certa gerarchia di importanza, giusta o meno giusta: questo avvenimento in prima pagina, questo in una pagina interna (la pagina dispari meglio della pari); questo al centro o in basso, questo in alto (a destra, «di spalla», meglio che, a sinistra, «in apertura»); questo con un titolo su due colonne, questo con un titolo su tre o quattro o cinque colonne o a tutta pagina.

  Nelle agenzie di informazioni, no. Ventiquattro ore su ventiquattro, l’agenzia trasmette le notizie di seguito, una dopo l’altra, tutte con un tito­lo di una sola riga e non più di 65 battute: sia un terremoto con mille morti o le dimissioni di Di Pietro, sia le estrazioni del lotto o la nuova canzone di Zucchero. Al massimo, c’è un ordine di precedenza. Secondo la rilevan­za del fatto, il redattore scrive, in testa alla notizia che lo racconta, una let­tera di codice, un codice internazionale: «R» per le notizie per le quali non c’è fretta, «U» per le notizie più importanti e quindi considerate urgenti, «B» per le notizie urgentissime, «F» per il «flash». L’elaboratore elettroni­co stabilisce lui l’ordine di trasmissione: alle «U» dà la precedenza sulle «R»; quando vede una «B», la trasmette appena finita la notizia in trasmis­sione; ma se vede una «F» la trasmette immediatamente, anche all’inizio o a metà della notizia in corso. È un «flash», in genere non più di due, tre o quattro parole: «Montini papa», «Morto Brezhnev», «Coppi campione del mondo».

 Alla domanda dell’intervistatore, «Qual è l’avvenimento di questi ultimi anni che l’ha colpito di più?», risposi senza riflettere un momento: «La mor­te di Kennedy». Perché? Eppure c’erano stati tanti fatti importanti in quei dieci anni: nel 1961 la sedizione dei generali francesi per l’Algeria, il distacco della Cina popolare dall’URSS, la costruzione del «muro della vergogna» a Berlino, in Italia l’apertura della Dc ai socialisti; nel 1962 addirittura il peri­colo di una terza guerra mondiale con i missili russi a Cuba; e poi la tragedia del Vietnam, le guerre nel Medio Oriente, l’alluvione dell’Arno a Firenze, il Sessantotto, la Rivoluzione culturale cinese, l’uomo sulla Luna, l’inizio del terrorismo nero e rosso in Italia. No. Qual era l’avvenimento che,mi aveva colpito di più? «La morte di Kennedy» fu la risposta immediata. Ma perché proprio la morte di Kennedy?

  Il perché mi fu chiaro alcuni anni più tardi, quando andai a visitare nel ci­mitero di Arlington a Washington la tomba del presidente americano assassi­nato. Era l’inizio di novembre, quella stagione dolce e luminosa che gli ame­ricani chiamano «indian summer» e corrisponde, più o meno, alla nostra «e­state di san Martino». Il cimitero militare di Arlington è un parco bellissimo lungo il fiume Potomac e, tra i grandi alberi e nel verde intenso dei prati, le bianche pietre tombali, sessantamila, allineate ma non a ridosso l’una all’al­tra, non dànno il senso tragico della morte. È un cimitero dove si può pas­seggiare e viene voglia di stringerci la mano e di salutarci come se tutti fossi­mo amici da sempre, i vivi e i morti.

  In mezzo a un’aiuola una piccola lastra di marmo grigioazzurro con tre parole soltanto: «John Fitzgerald Kennedy»; e sotto: «1917 ‑ 1963»; a sinistra, una fiamma accesa giorno e notte; di fronte una grande lastra di pietra e, scolpite, le parole di un indimenticabile appello: «Amici miei in tutto il mon­do, non chiedetevi quello che gli americani faranno per voi, ma chiedetevi quello che insieme potremo fare per la libertà dell’uomo».

  Di Kennedy, oggi, i più, specie fra i giovani, rischiano di sapere soltanto il peggio: le sue avventure sentimentali, le infedeltà coniugali, le amicizie con questo o quel mafioso; e anche qualche iniziativa non elogiabile: nell’aprile del 1961, complice l’insipienza della Cia, il fallito tentativo di invasione del­l’isola di Cuba (1500 cubani sbarcati nella Baia dei Porci) e, dal 1961 al 1963, complice l’insipienza del Pentagono, l’invio a Saigon di «consiglieri militari», cioè il primo passo di quella che poi, con i presidenti Johnson e Nixon, di­ventò la «sporca guerra» americana nel Vietnam.

  Oggi il meglio di Kennedy è, in genere, dimenticato: in politica estera l’a­zione riformatrice in materia di disarmo e di distensione internazionale, l’a­bolizione degli esperimenti nucleari nell’atmosfera, gli aiuti al Terzo mondo e all’America latina (1’«alleanza per il progresso»); e, in politica interna, i programmi di «guerra alla povertà», le battaglie per i diritti civili, l’emanci­pazione dei negri; ma soprattutto è dimenticata la sua immagine di giovane leader che, in quegli anni di guerra fredda e di paurosa contrapposizione fra mondo comunista e mondo libero, mostrò di saper capire e interpretare le paure e le speranze dei popoli di tutta la terra.

  «Ci troviamo alle soglie di una nuova frontiera» aveva detto a Los Ange­les, nel luglio del 1960, al congresso del partito democratico, dopo aver rice­vuto la nomination alla presidenza degli Stati Uniti; «non è una frontiera che assicuri promesse, ma soltanto sfide, ricca di sconosciute occasioni, ma anche di pericoli, di incompiute speranze e di minacce».

  La «nuova frontiera», cioè il sogno di un mondo diverso, senza guerre e senza fame, fu il mito che in tutti i continenti travolse milioni di uomini e di donne. Nella figura di John Kennedy ognuno proiettava speranze di pace e attese di giustizia. Anche in Italia; e, in Italia, chi meglio del popolo di Na­poli poteva esprimere questi sentimenti, che erano i sentimenti di tanti?

  John Kennedy arrivò a Roma il 1° luglio del 1963, proveniente da Mila­no. Quattro giorni prima era stato a Berlino; alla porta di Brandeburgo ave­va sostato in silenzio davanti al muro che divideva in due la città (dall’altra parte, per l’occasione, c’era una selva di bandiere rosse) e poi aveva parlato nella piazza del municipio a più di duecentomila berlinesi. «Duemila anni fa» disse «si era orgogliosi di dire civis romanus sum. Oggi la più orgogliosa delle espressioni che possono risuonare nel mondo libero è Ich bin ein Berli­ner, io sono un cittadino di Berlino».

  Dall’aeroporto di Fiumicino al Quirinale e a Villa Taverna, residenza dell’ambasciatore americano, il corteo delle auto trovò per le strade, in quella calda mattinata di luglio, soltanto i passanti; e nel pomeriggio, in piazza Ve­nezia, quando Kennedy si recò all’altare della patria, c’era molta folla e ci fu anche un po’ di confusione e qualche smanacciata della scorta, ma erano, quasi tutti, cittadini americani. Roma è fatta così; ha troppi secoli di storia.

  A Napoli, dove Kennedy arrivò il giorno dopo, fu tutta un’altra cosa e più di un milione di napoletani, senza che nessuno li avesse chiamati, scesero nelle strade del centro. Alle finestre della case c’erano centinaia di bandiere tricolori e di bandiere americane e sulle pareti grandi manifesti e frasi scritte a mano e improvvisati striscioni da una casa all’altra. La gente si agitava, gri­dava, chiamava Kennedy per nome, sventolando bandierine fatte in casa. Da­vanti al teatro San Carlo l’auto presidenziale, un’auto scoperta, fu costretta a fermarsi dalla folla che aveva rotto i cordoni, e poté riprendere la corsa sol­tanto dopo qualche minuto. In via De Pretis un uomo riuscì addirittura a lanciarsi dentro l’auto di Kennedy e a abbracciarlo sotto gli occhi sbigottiti degli agenti di scorta. Davanti all’università una donna gettò dalla finestra di un piano alto un mazzo di fiori, che finì però a qualche metro dall’auto; Kennedy fece fermare l’auto e raccogliere i fiori; poi li prese e li agitò in aria, guardando sorridente e commosso verso la gente affacciata alle finestre.

  Cento giorni più tardi, il 22 novembre, tre colpi di fucile (o quattro?) uc­cisero a Dallas (e ancora non si sa bene come e perché) l’uomo che aveva da­to vita, in tutto il mondo, a tanta speranza di pace e di giustizia.

  In Italia ‑ e non era mai successo prima per un capo di stato straniero ‑ le bandiere a mezz’asta furono esposte per tre giorni su tutti gli edifici pubbli­ci. Le scuole furono invitate a commemorare la figura dello scomparso. Al­l’arrivo della notizia, Aldo Moro aveva interrotto in segno di lutto la riunio­ne delle delegazioni per la formazione del nuovo governo e all’uscita da Pa­lazzo Chigi Pietro Nenni fu visto piangere mentre diceva «È una tragedia per tutto il mondo». Anche Palmiro Togliatti espresse la sua costernazione, e sembrarono parole sincere. A Firenze il sindaco La Pira disse: «Con Ken­nedy si è voluto abbattere la bandiera della pace, della liberazione e della fraternità di tutto il genere umano».

  Chi in quegli anni non era nato o era soltanto un ragazzo potrà capire tutto questo? Anche noi, del resto, dico quelli della mia generazione, non l’avevamo capito, allora. Non ci eravamo accorti che continuavamo a vivere in un sistema di valori o pseudovalori che erano nati nell’Ottocento ed erano caratteristici di quel secolo; non ci eravamo accorti che il secolo ventesimo non esisteva con una sua precisa identità culturale; che una grande rivoluzione era cominciata con l’invenzione del computer; e che le nuove tecnologie dell’informazione stavano portandoci, saltando il Novecento, direttamente nel Duemila.

  Il muro di Berlino sarebbe caduto tanti anni più tardi, ma fu proprio all’i­nizio degli anni Sessanta che cominciarono a entrare in crisi le ideologie: ca­pitalismo, comunismo, socialismo, socialdemocrazia, lotta di classe, dittatura del proletariato, queste grandi matrici dell’immaginario collettivo, queste i­dee‑forza a cui ognuno di noi dava una partecipazione concettuale ed emoti­va in base alle proprie esperienze o alle proprie paure. Tutto stava cambian­do, ma, dopo le tragedie della seconda guerra mondiale e l’Olocausto e col terrore incombente delle bombe nucleari, avevamo ancora bisogno di un an­coraggio, di valori o di utopie.

  John Kennedy era il nostro ancoraggio. Per alcuni cominciava ad esserlo Mao, finché la sua entusiasmante rivoluzione culturale non finì nella trage­dia; per altri fu il «Che» Guevara, ottimo simbolo per chi ha una concezione romantica e dannunziana della vita e della lotta; per altri, in mancanza di meglio, perfino Fidel Castro. Per i più, e non solo in Italia, la certezza, in quegli anni, era Kennedy.

  Dall’epoca delle certezze stavamo invece passando all’epoca delle incer­tezze: dall’accettazione passiva di verità rivelate  alla ricerca paziente e soffer­ta, caso per caso, della verità; e sapendo bene che la verità di oggi può essere l’errore di domani e viceversa. Da sempre ci aveva spaventato il dubbio; sa­rebbe dovuto passare un po’ di tempo prima di capire che il dubbio è il più grande fattore di progresso e il segno più alto della civiltà.

  All’Ansa la notizia dell’attentato di Dallas arrivò alle 19.40. La notizia terminava così: «Non si esclude che il presidente, rimasto ferito, sia in condi­zioni gravissime e forse possa essere deceduto». Alle 20.11: «Il presidente si trova nella sala di emergenza dell’ospedale Parkland». Alle 20.13: «Al presi­dente sono state praticate alcune trasfusioni di sangue». Alle 20.30: «Al pre­sidente Kennedy è stato somministrato il sacramento dell’estrema unzione».

  A quel tempo l’elettronica non era arrivata nei giornali e nelle agenzie di informazione; le procedure tecniche erano ancora un po’ artigianali. Io ero uscito dal mio ufficio e stavo, in piedi, nel salone delle telescriventi; da una parte avevo l’operatore della telescrivente di trasmissione, dall’altra il telefo­no collegato con l’ufficio di corrispondenza di New York, a sua volta colle­gato con Dallas nel Texas.

  Supponevamo che la notizia delle 20.30 fosse una notizia volutamente ri­tardata e sapevamo che l’ormai certo morte sarebbe stato da­to soltanto dopo la conclusione delle procedure giuridiche per il passaggio della suprema autorità dello stato al vicepresidente Johnson. La nostra tele­scrivente era ferma, in attesa, ma il «flash» era stato già battuto e pronto a partire: un piccolo pezzetto di striscia di carta gialla, pieno di forellini alli­neati: da due a cinque per ogni lettera.

  L’annunzio ufficiale della morte fu dato a Dallas alle 20.33 e qualche se­condo dopo dal nostro corrispondente da New York. Dissi «via!» e l’opera­tore pigiò un tasto e lanciò il «flash»: «Il presidente Kennedy è morto». Era­no le 20.34, e alle 20.34 la notizia correva sulle telescriventi dei giornali e di tutti gli altri abbonati ai notiziari dell’agenzia.

  Era morto Kennedy. Era morta l’ultima delle nostre certezze.