Informazione e potere

Intervento a una tavola rotonda
nel salone dei Dugento di Palazzo Vecchio
a Firenze il 23 giugno 2000

   L’apporto che posso dare a questo dibattito è la testimonianza di trenta anni passati alla guida della massima agenzia di stampa italiana, l’organo cooperativo che fornisce l’informazione di base a tutti i giornali italiani, scritti e parlati.

Risponderò a due domande. La prima: quali sono i modi con cui il Potere condiziona o cerca di condizionare l’informazione e quindi l’opinione pubblica? La seconda domanda: esistono i modi, e quali, per assicurare un’informazione libera e imparziale?

La prima domanda è semplice e la risposta addirittura banale. Alla fine del Settecento un deputato inglese, Edmund Burke, disse alla Camera dei comuni che la stampa era il “quarto potere”. Fu l’infelice nascita di un nefasto luogo comune che ha trovato la sua popolare risonanza nell’omonimo film di Orson Welles. La stampa può essere un potere, ma soltanto nella misura in cui sia espressione e portavoce dell’unico legittimo detentore del potere che è il cittadino. Un privilegio raro, nel passato e nel presente. Il giornalismo è stato quasi sempre ed è quasi sempre non un potere – il quarto dopo il legislativo, l’esecutivo e il giudiziario – ma lo strumento o il riflesso di uno o di più di uno dei tanti poteri in cui si articola la società.

Le novità sono recenti. Prima novità: ai tanti poteri con nome e cognome se ne è aggiunto un altro – fortissimo più che nel passato e anonimo – il profitto. Seconda novità: anche il giornalismo (Edmund Burke fu profeta) è diventato un autonomo potere. In che modo? Nel peggiore dei modi.

La sempre più diffusa commistione dell’informazione con gli altri due prodotti dell’informazione che sono lo spettacolo e la pubblicità ha infatti portato l’informazione ad essere non uno strumento di conoscenze ma un intrattenimento. L’informazione è trattata come una merce, come un detersivo o un biscotto ai cinque cereali. I giornali sembrano non vogliano suggerire riflessioni, ma soltanto suscitare emozioni.

Ecco allora la drammatizzazione dei fatti e la loro enfatizzazione semantica. Ecco il mancato controllo delle fonti o il rifiuto o il rigetto delle fonti, quasi esse fossero un intralcio all’aggiunta, alla realtà effettiva, di porzioni più o meno grandi di realtà simulata; o addirittura alla libera creazione dei fatti, di quelli che i sociologi americani chiamano “media events”, gli eventi mediatici, i fatti che non sono fatti ma diventano fatti perché omologati dall’essere pubblicati e stampati o detti da un telegiornale.

Manipolazione drammatica e spettacolare dei fatti; è così che la ricerca del profitto e la strumentalizzazione politica come riflesso di questo o quel potere portano alla creazione di una realtà fittizia, grazie anche all’uso perverso dei titoli, che spesso non corrispondono al testo cui sono apposti e dove l’uso improprio delle virgolette consacrano spesso – con la forze della loro valenza grammaticale – fatti non accaduti e dichiarazioni non pronunciate: Ecco dunque (ricordiamoci che il tempo medio di lettura di un quotidiano va dai 15 ai trenta minuti, il tempo per leggere qualche pezzo e poi i titoli), ecco la creazione di una specie di realtà virtuale, una meta realtà; cioè una realtà mistificata e mistificante, che si sovrappone alla realtà effettiva e condiziona i nostri giudizi e, per quelli di noi che hanno responsabilità operative, politiche, culturali o scientifiche; una realtà mistificata e mistificante che condiziona anche le nostre scelte e le nostre decisioni.

Il secondo fenomeno è quello che Giuseppe De Rita denunziò fino dal 1993, nella generale disattenzione dei commentatori. Con sociologica eleganza De Rita lo chiamò l’”esaltazione, da parte dei giornalisti, della propria autoreferenzialità”. In altre parole, il tentativo, da parte non del giornalismo, ma da parte del singolo giornalista, di conquistare un potere attraverso la qualunquistica delegittimazione di tutti i poteri.

Dopo decenni di conformismo dei loro padri, molti giovani giornalisti hanno scoperto che si può dir male di Garibaldi, impunemente, senza conseguenze di carriera; e via, allora, a dir male di Garibaldi, di tutti i Garibaldi, di destra e di sinistra. I Garibaldi di destra anche sui giornali di destra e i Garibaldi di sinistra anche sui giornali di sinistra; e non parliamo dei vignettisti o battutisti, che  con la loro satira politica si considerano e sono considerati – chi sa perché – giornalisti al disopra del codice penale.

Dopodiché è inutile domandarsi le ragioni della disaffezione dei cittadini per la politica e il perché del non voto. Quanto dell’antipolitica nasce dalla politica ossia dai modi in cui la politica è così spesso perseguita e quanto dell’antipolitica nasce dai modi in cui la politica è raccontata dall’informazione-spettacolo, nel giornalismo stampato e soprattutto in quello televisivo?

Qui nasce, oltretutto, il problema dei direttori di testata, “direttori responsabili”, come dice la legge italiana. Ai direttori è affidato il compito di governare i giornali che dirigono; perché, allora, non richiamano i loro redattori al rispetto delle norme che regolano un serio e corretto giornalismo? E se è la proprietà che così vuole, o il Potere, questo o quel potere, che cosa ci stanno a fare i direttori e perché il contratto di lavoro ne tutela la libertà?

Passiamo alla seconda domanda. Esistono i modi per garantire un’informazione libera e imparziale?

Ho diretto l’Ansa per trenta anni. Dal 1960 al 1990 ci sono state dieci campagne elettorali politiche, a parte quelle amministrative; c’è stata la guerra fredda, Cuba, il Vietnam, il Sessantotto, il terrorismo, la mafia, la fine del comunismo. In trent’anni non ci sono state – né sulle pagine dei giornali né nei verbali del Consiglio di amministrazione dell’agenzia – critiche all’imparzialità del notiziario dell’Ansa. E come è potuto accadere?

La struttura sociale dell’agenzia – sommo privilegio: una società cooperativa fra quotidiani di diversa e contrapposta collocazione politica o politico-culturale – spiega il perché; non spiega il come. Spiega perché l’Ansa debba essere imparziale, non spiega in che modo.

Non è vero che non ho mai avuto mai critiche da parte dei giornali soci. Una critica l’ebbi, la prima e l’unica, agli inizi degli anni Sessanta: l’agenzia dava troppo politica e poca cronaca. Era una critica giusta e la spiegazione c’era: lo spazio era poco e mentre il notiziario di cronaca si può ridurre, non si può ridurre oltre certi limiti il notiziario politico. Ridurre significa infatti riassumere, tagliare, eliminare; comporta cioè un’operazione soggettiva e quindi legittimamente criticabile o da destra o da sinistra.

Il problema fu presto risolto, e facilmente: aumentando lo spazio. L’Ansa passò da una due reti e poi a tre reti di trasmissione in telescrivente. Rimase tuttavia un secondo problema: anche aumentando lo spazio, si risolveva, o quasi, il problema della completezza dell’informazione (“quasi”, perché intanto era aumentata la dialettica politica, erano aumentati i soggetti politici, era aumentata la spettacolarità dello scenario politico); era insomma risolto, o quasi, il problema della completezza, non quello della imparzialità dell’informazione. Rimaneva cioè il problema della “par condicio”.

Il ricorrente dibattito sulla par condicio mi ha lasciato sempre perplesso. La convinzione che l’imparzialità dell’informazione si garantisce dando eguale spazio all’una e all’altra parte (eguale numero di presenze ed eguale numero di secondi e minuti a loro concessi: un’imparzialità stabilita col pallottoliere e col cronometro), questa convinzione – mi domandavo e mi domando – nasceva (nei soggetti favorevoli a un codice di “par condicio”) da una non conoscenza dei meccanismi del linguaggio televisivo oppure (da parte dei soggetti contrari al codice) dall’astuta conoscenza di quei meccanismi?

La comunicazione politica televisiva – dicono linguisti e sociologi – ha uno scarso potere di produrre effettiva informazione; è solo un “blabla” difficilmente assimilabile dal ricevente. E’ importante invece la presenza del soggetto politico, lo “star system”, come dicono gli americani, laddove l’informazione diventa spettacolo e l’uomo politico non trasmette un messaggio ma è egli stesso un messaggio, e il suo successo, o il suo insuccesso, dipendono da elementi non concettuali ma extraverbali, l’espressione del volto, il suo sorriso, il tono della voce, i gesti, i modi con cui riesce a convincere di quello che dice; e meno dice, meglio è, perché non crea problemi di comprensione.

Nasce così quel rapporto diretto fra uomo politico ed elettore che i sociologi chiamano di “cooperazione testuale”, grazie al quale sono gli elettori (o la maggior parte di essi) che nell’uomo politico che dà loro fiducia trasferiscono le loro ansie e le loro speranze, cioè i loro sogni, per cui da fruitore del messaggio il cittadino-elettore si trasforma in autore del messaggio, i cui molteplici significati sta a lui di costruire a piacimento. Proprio come i bambini che seguono una fiaba alla tv.

Per fortuna l’Ansa era testo senza immagine, ma un analogo criterio di “par condicio” avrebbe portato a stabilire l’imparzialità della sua informazione sulla base di tante righe di testo agli uni e tante righe di testo agli altri: una cosa assolutamente ridicola.

La soluzione era così ovvia (e lo sarebbe anche per il servizio pubblico della Rai, avendone il coraggio): l’unica norma che può guidare un’informazione seria è l’importanza del fatto in rapporto agli interessi dei cittadini; e l’equilibrio di un notiziario e quindi la sua imparzialità dipendono dalla coscienza professionale del giornalista: questa è notizia, e la trasmettiamo; questa non è notizia, e non la trasmettiamo.

Per l’Ansa non era solo il rispetto della sua struttura sociale di cooperativa di giornali di maggioranza e di giornali di opposizione, non era la bravura del direttore e la concorde collaborazione dei suoi redattori e l’assistenza del suo organismo sindacale, il Comitato di redazione; era un fatto di professionalità e di coscienza professionale, cioè la coscienza di accettare i suggerimenti dell’esperienza. Nessuno alla fine della giornata faceva il conto delle notizie date a una parte e le notizie date all’altra parte e il numero delle righe di destra e il numero delle righe di sinistra; avevamo dato le notizie che dovevano essere date e buttato nel cestino le notizie che non erano notizie perché prive di interesse giornalistico.

Ma – qualcuno mi potrebbe chiedere – la notizia, giornalisticamente, che cos’è? Che cos’è che fa diventare notizia un’informazione?

Una vecchia massima dice che il cane che morde un uomo non fa notizia, mentre fa notizia un uomo che morde un cane. Prendiamo allora il cane dell’on. Veltroni che morde l’on. Berlusconi o viceversa: non è notizia? E’ notizia. E dove lo morde; non in un giardino pubblico ma davanti a Montecitorio dopo un dibattito parlamentare. E’ una grande notizia. E lo morde non al dito mignolo ma nel fondoschiena. Non è notizia? E’ una grandissima notizia.

Chiedo scusa della battuta scherzosa. Il problema esiste in realtà e lo vediamo ogni giorno. I giornali non ci raccontano i fatti, ma, preferibilmente, le voci, i presunti retroscena, le risse, le contumelie; cioè il “colore”, tutto ciò che può attirare l’attenzione emotiva del lettore piuttosto che le sue capacità di ragionamento. Così, mentre un tempo si diceva che i media sono lo specchio del mondo politico, oggi è il mondo politico che è diventato specchio dei media. Se i media vogliono non concetti ma battute, non programmi ma slogan, non programmi ma risse e insulti, i politici sono pronti: ecco a voi la battute, gli slogan, ecco le risse, ecco gli insulti.

Al povero lettore non resta che cambiar pagina o saltare quelle pagine; oppure – attenzione! – cercare le notizie in Internet, nella speranza che quelle siano affidabili. Non per nulla molti dicono che quella dei giornalisti dell’informazione tradizionale è una specie in via di estinzione; come i panda e la foca monaca. Ma allora il problema posto dal tema del nostro dibattito suggerisce un altro tema: potere e informazione “on line”.