Il terrorismo ossia gli anni della follia
Le Brigate rosse e la polemica sul «black out». L’«autunno caldo». La «strategia della tensione» e la «teoria dei doppi estremismi». Lo schieramento della stampae degli uomini di cultura. 11 sequestro e l’assassinio di Aldo Moro. La fine della «solidarietà nazionale» e la morte del «compromesso storico».

   Nei quasi trent’anni di direzione dell’Ansa quella fu la decisione più sofferta. Il terrorismo continuava a imperversare; la gente aveva paura; molti di noi esitavano ad uscire di casa e, prima di farlo, si guardavano attorno; dietro ogni angolo poteva esserci qualcuno che ci sparava addosso: un nemi­co invisibile, misterioso. Che cosa dovevamo fare, noi dell’agenzia: «staccare la spina» o no? Era il gennaio del 1981.

   Il 1° dicembre, un mese prima, le Brigate rosse avevano ammazzato a Ro­ma Giuseppe Furci, direttore sanitario del carcere di Regina Coeli. Il 12 le Brigate rosse avevano sequestrato a Roma Giovanni D’Urso, capo della dire­zione degli istituti di prevenzione e di pena del ministero della giustizia. Il 28 in una rivolta nel carcere di Trani le Brigate rosse avevano preso diciotto o­staggi e avevano chiesto, in cambio del loro rilascio e di quello del magistra­to D’Urso, la liberazione di tutti i «prigionieri politici». Il 31 le Brigate rosse avevano assassinato a Roma il generale dei carabinieri Enrico Galvaligi, re­sponsabile dell’ufficio di coordinamento delle carceri.

   Ogni tanto arrivava una telefonata all’Ansa: «Siamo le Brigate rosse; in una cabina telefonica in piazza Tal dei Tali c’è un nostro comunicato». Si av­vertiva la questura e poi un cronista si precipitava sul posto, cercando di ar­rivare almeno un attimo prima degli agenti che avrebbero sequestrato il do­cumento. Fa parte del mestiere: non perdere la notizia.

   Erano documenti sconcertanti, sia per i contenuti, sia per il linguaggio; ma erano una notizia. Sapevamo che le Brigate rosse ce li facevano conoscere proprio perché fossero pubblicati; e sapevamo quindi che pubblicarli signifi­cava fare da cassa di risonanza dei programmi di un’organizzazione crimina­le. Qualcuno ebbe un’idea: semplice, i giornali non li pubblichino; anzi, an­cora più semplice: l’Ansa non li trasmetta ai giornali.

   L’idea di un «black out» ‑ come fu sùbito detto per il solito vezzo di usa­re espressioni straniere ‑ sollevò un dibattito fra gli «addetti ai lavori». Alcu­ni giornali, col supporto di autorevoli sociologi ed esperti di comunicazioni di massa, erano d’accordo nello «staccare la spina»; altri no. E l’Ansa?

   L’Ansa ci pensò un po’; poi decise: primo, l’agenzia è una cooperativa fra tutti i quotidiani italiani e non può prendere decisioni che spettano sin­golarmente a ognuno di essi; secondo, i comunicati delle Brigate rosse sono documenti di una realtà che è bene sia conosciuta e studiata da tutti; terzo, in una società democratica qualsiasi forma di censura, anche a fine di bene, può essere pericolosa.

   Su questo fummo tutti d’accordo, noi dell’Ansa: direzione, redattori, comitato di redazione; ma nessuno ne fu felice; e tutte le volte che ci arriva­vano quei maledetti fogli di carta con quella maledetta intestazione «BRI­GATE ROSSE» e, fra «brigate» e «rosse» la stella a cinque punte inserita in un cerchio, era una sofferenza mandarli in trasmissione. Ci consolava solo il vedere che quei testi erano poi usati nel dibattito culturale e politico e nell’a­nalisi di un fenomeno di cui era necessario capire le radici e le motivazioni.

   Tutto era cominciato molto tempo prima. Nel 1969, nel clima delle agita­zioni giovanili che avevano scosso il 1968 e stavano ancora proseguendo ma senza più mordente, c’era stata la contestazione degli operai. Esaurita la spin­ta del «boom» economico, che aveva migliorato le condizioni generali di vita ma non accresciuto di molto i salari, le maggiori categorie di lavoratori ‑ me­talmeccanici in testa ‑ sfidavano imprenditori e polizia a sostegno delle loro rivendicazioni. Fu il cosiddetto «autunno caldo», che gli accordi contrattuali di dicembre riuscirono in gran parte a spengere. Come nel «maggio» francese, gli operai fecero capire di non volere la rivoluzione, ma solamente star meglio in una società che stava meglio. Più tardi si capì che era cominciato un pro­cesso di terziarizzazione, che avrebbe portato a una progressiva riduzione del lavoro manuale e quindi delle marxistiche classi lavoratrici.

   C’era tuttavia qualcosa di irrisolto. Nel giugno del 1969 un gruppo di i­scritti al Pci, poi radiati dal partito, e di intellettuali di sinistra aveva fonda­to il Manifesto. Nel primo numero della rivista si diceva che la lotta del mo­vimento operaio era entrata in una fase nuova; che molti schemi di interpre­tazione della realtà erano saltati senza rimedio; e che la crisi sociale e politica non poteva essere affrontata con i metodi tradizionali.

   In quello stesso mese di giugno (il richiamo non è casuale) i Vietcong a­vevano costituito un governo rivoluzionario provvisorio nel Vietnam del sud. In settembre morì Ho Chi Minh (il vecchio capo comunista vietnamita, lo «zio Ho», come lo chiamavano i giovani del Sessantotto) e il presidente Nixon annunciò l’inizio del ritiro delle truppe americane dal Vietnam. Gli Stati Uniti cominciavano a capire che non avrebbero vinto la guerra. Il 14 novembre quarantamila uomini e donne, bianchi e neri, percorsero in fila in­diana i sei chilometri e mezzo che separano il cimitero di Arlington dal Campidoglio di Washington; ognuno aveva in mano una candela accesa e ap­peso al collo un cartello con nome e cognome di un militare americano cadu­to nel Vietnam; l’avevano chiamata la «marcia della morte» e si svolse in si­lenzio, soltanto scandita dal rullio di sette tamburi ricoperti da un drappo nero.

   Alle 16.45 del 12 dicembre di quello stesso anno 1969 una grossa bomba esplose nella sala centrale della Banca nazionale dell’agricoltura in piazza Fontana a Milano; alle 17 un’altra bomba a Roma, in via san Basilio, nel pa­lazzo della Banca nazionale del lavoro e alle 17.30 una terza e una quarta bomba in piazza Venezia sul monumento al Milite Ignoto. A Milano 17 morti e 88 feriti; sedici feriti a Roma.

   Quattro mesi prima, nella notte fra 1’8 e il 9 agosto, nove bombe di picco­la potenza erano state messe e, salvo due, erano scoppiate su nove treni: a Milano, a Orvieto, a Pescara, a Caserta, a Mira (Venezia), a Grisignano di Zocco (Vicenza), a Venezia, ad Alviano (Trento), a Pescina dei Marsi (l’A­quila). Fu l’inizio di quella che, in dicembre, un giornale inglese, 1’Observer, chiamò la «strategia della tensione».

   L’espressione ebbe successo in Italia e fu intesa a indicare un oscuro dise­gno politico che voleva mettere in crisi le istituzioni democratiche. Era evi­dente che si cercava di creare una generale situazione di disordine e di stan­chezza come premessa per una svolta autoritaria. Chi c’era dietro? Non era difficile capirlo, ma cominciò allora un giuoco che sarebbe continuato negli anni seguenti: dietro gli attentati c’era la sinistra per darne colpa alla destra o la destra per incolparne la sinistra?

   Di tentativi eversivi della destra si era parlato cinque anni prima durante la crisi di governo dopo le dimissioni del primo governo Moro. Nel mese di luglio del 1964 erano circolate strane voci, che l’Ansa non aveva riportato perché ne mancava  la fonte e un sufficiente controllo. L’agenzia aveva tutta­via trasmesso le notizie di inconsueti colloqui al Quirinale fra il presidente della repubblica Antonio Segni e il comandante generale dei carabinieri Gio­vanni De Lorenzo e anche col capo di Stato maggiore dell’esercito Aldo Rossi; e poi, sempre al Quirinale, fra il presidente Segni, il presidente del consiglio incaricato Aldo Moro, il capo della polizia Aldo Vicari e ancora il generale De Lorenzo.

   Le voci riguardavano proprio lui, De Lorenzo, come autore di un pro­getto, il cosiddetto «piano solo», che si diceva prevedesse l’occupazione delle grandi città e dei centri strategici e la repressione delle eventuali reazioni. Di De Lorenzo, che nelle elezioni del 1968 si era presentato nelle liste del Msi ed era stato eletto deputato, si riprese a chiacchierare all’inizio del 1970; in­sieme si faceva il nome del generale Gian Adelio Maletti, già alto dirigente del Sid (Servizio informazioni difesa), e insieme si cominciò a parlare, per la prima volta, dei Servizi segreti.

   Soltanto voci? Proprio dopo nuove indagini sulla strage di piazza Fonta­na il generale Maletti sarà arrestato nel 1976 e condannato nel primo proces­so; e di «Servizi deviati», cioè di alti dirigenti dei Servizi e di una struttura parallela, si occuperà la stessa magistratura nel 1974 per la strage di piazza della Loggia a Brescia e per l’attentato al treno Italicus, nel 1980 per la strage alla stazione di Bologna, nel 1984 per l’attentato al rapido 904 in collusione non solo con l’estrema destra fascista ma anche con la camorra e con la ma­fia; e infine, nel 1994, sempre con camorra e mafia, per le autobombe di Fi­renze, Roma e Milano.

   La matrice nera dei primi attentati terroristici complicò la valutazione dei fatti e ne rese più difficile l’interpretazione quando, col 1970, il terrorismo si presentò anche come terrorismo rosso. Gruppi organizzati di estrema sini­stra (si cominciò a usare l’espressione «extraparlamentari») erano già nati: «Potere operaio», «Lotta continua»; c’erano anche un Pc d’Italia marxista leninista «linea rossa» e un Pc d’Italia marxista leninista «linea nera». Ave­vano motivazioni non coincidenti, salvo una: l’opposizione a un possibile colpo di stato della destra fascista.

   In novembre a Milano, allo stabilimento della Pirelli alla Bicocca compar­ve un altro nome: «Brigate rosse»; era in un volantino, «Comunicato n. 1», che conteneva l’elenco di una quarantina di dirigenti e capireparto dello stabi­limento, definiti «servi dei padroni»; di li a poco alcune delle loro auto furono date alle fiamme. Ci furono poi altri comunicati. Il «comunicato n. 6», del 6 febbraio del 1970, diceva «Alla violenza si risponde con la violenza».

   È da questo momento che comincia uno strano periodo, che durerà pa­recchi anni: un periodo difficilmente credibile per chi non l’abbia vissuto al­lora e lo senta oggi raccontare a tanta distanza di tempo; un periodo ‑ lungo, oltretutto ‑ in cui sembrava che la passione prevalesse sulla ragione, l’irra­zionalità sullo spirito critico, insomma una follia che caratterizzava non solo protagonisti della violenza ma anche molti di coloro che la violenza dove­vano valutare e giudicare: gli uomini politici, gli intellettuali, i giornalisti, an­che i magistrati.

   Prima di tutto l’ignoranza o, per lo meno, la sottovalutazione del feno­meno. A lungo le Brigate rosse continuarono ad essere chiamate «sedicenti» oppure «cosiddette» oppure «fantomatiche». Era un’organizzazione che si definiva «rossa» soltanto per screditare la sinistra. Un grande giornalista, Giorgio Bocca (che poi si ricre­derà e onestamente riconoscerà di avere sbagliato) scriveva, ancora nel 1975, che a lui le Brigate rosse facevano «un curioso effetto, di favola per bambini scemi o insonnoliti».

   Eppure c’erano stati, dal 1970 al 1975, tutti firmati Brigate rosse, tre omi­cidi e quattro sequestri di persona (due dirigenti industriali, un sindacalista, un magistrato; il magistrato era il sostituto procuratore della Repubblica Mario Sossi, a Genova); e nel febbraio del 1975, grazie a una perfetta azione militare, c’era stata l’evasione, dal carcere di Casale Monferrato, di quello che sarà uno dei capi storici delle Br, Renato Curcio.

   Già nel dicembre del 1971 il prefetto di Milano Libero Mazza aveva in­viato al ministero degli interni un rapporto in cui segnalava il pericolo rap­presentato dalla presenza in città di movimenti anarchici e di estrema destra, ma anche di formazioni estremiste di sinistra; nei gruppi di destra e nei grup­pi di sinistra si potevano calcolare ‑ diceva il prefetto ‑ circa ventimila mili­tanti, dotati di «organizzazione, equipaggiamento e armamento che può qualificarsi paramilitare».

   Il rapporto del prefetto Mazza interpretava quella che fu chiamata la teo­ria «degli opposti estremismi», una teoria che continuò a lungo ad essere av­versata e vilipesa dai più. Riccardo Lombardi, uno dei migliori parlamentari socialisti, la definì una «espressione di rozzezza culturale» e 1’Avanti!, orga­no del Partito socialista, che dal 1963 faceva parte della maggioranza gover­nativa, lamentò in un articolo di fondo, con chiaro riferimento al rapporto Mazza, che negli organi dello stato fosse tollerata la convinzione che «gli uomini che professano liberamente opinioni politiche vanno guardati con sospetto». Fra quegli uomini c’erano anche Franco Piperno, Oreste Scalzone e Toni Negri, che, qualche mese dopo, annunciarono con molta franchezza, in una conferenza stampa riportata dall’Ansa, quali erano le loro «libere o­pinioni politiche» ovverosia il programma di «Potere operaio»: l’insurrezio­ne armata e la presa del potere.

   Dalla parte opposta il terrorismo nero non scherzava: tre bombe lanciate a Catanzaro contro un corteo di socialisti e comunisti (4 febbraio 1971; un morto e sette feriti); cinque attentati dinamitardi sulle linee ferroviarie dove transitavano nove treni che portavano operai e sindacalisti a una manifesta­zione per il Mezzogiorno a Reggio Calabria (22 ottobre 1972; sei feriti); una bomba a orologeria in piazza della Loggia a Brescia durante una manifesta­zione sindacale (28 maggio 1974; otto morti e un centinaio di feriti); un’altra bomba a orologeria su un vagone del treno Italicus Roma‑Monaco (4 agosto 1974; 12 morti e 48 feriti).

   In un manifesto fatto trovare a Bologna il nerissimo «Ordine nuovo» ri­vendicava quest’ultimo attentato: «La bandiera nazista non è morta a Berlino nel lontano 1945. Essa continua a vivere per una grande Italia, fascista e nazi­sta. Il nazismo ritornerà. Viva l’Italia!».

   Follia. Ma meno di quattro mesi prima un comunicato delle Brigate rosse fatto avere alla sede Ansa di Genova aveva usato frasi altrettanto deliranti: «Entriamo in una fase nuova della lotta di classe. Il compito principale delle forze rivoluzionarie è quello di rompere l’accerchiamento delle lotte operaie, estendendo la resistenza e l’iniziativa armata ai centri vitali dello stato». La conclusione: «Portare l’attacco al cuore dello stato, trasformare la crisi di re­gime in lotta armata per il comunismo».

   Ciò nonostante, la teoria degli «opposti estremismi» continuava a non piacere. Sempre in quell’anno 1974 il presidente della Camera Sandro Perti­ni, in maggio, si limitava a dirsi addolorato della connotazione delle Brigate rosse («Quella gentaglia ha usurpato un colore che è sacro per noi socialisti e comunisti»); ma il massimo fu raggiunto in agosto, quando addirittura il mi­nistro degli interni, Paolo Emilio Taviani, sostenne che «gli indizi, le infor­mazioni, le prove raccolte dalla questura e da tutta la rete informativa della pubblica sicurezza» gli avevano dato la certezza «che non solo la matrice i­deologica ma l’organizzazione sovversiva va cercata a destra».

   «Indizi», «informazioni», perfino le «prove»; e lo diceva il ministro degli interni. Per l’Ansa, tenuta dal suo statuto e dalla sua struttura sociale di cooperativa fra i quotidiani italiani a fornire un notiziario non solo impar­ziale ma quanto più possibile veritiero, quello fu il periodo più difficile della sua storia.

   Assicurare l’imparzialità dei fatti raccontati non era difficile. Per evitare contestazioni da destra e da sinistra, si usarono espedienti perfino un po’ co­mici. A Roma si misurò la superficie in metri quadrati delle piazze dove si svolgevano le manifestazioni; i cronisti (da qualche tempo andavano in giro protetti da un giubbotto antiproiettile) accertavano quanti erano mediamen­te i manifestanti in ogni metro quadrato; una semplice moltiplicazione ne dava così il numero complessivo, difficilmente confutabile. Se si trattava di cortei, il numero dei partecipanti veniva indicato alla partenza (in genere era piazza Esedra), a metà percorso (in via del Tritone, sotto le finestre del Mes­saggero, dove c’era sempre qualcuno che contava la folla e poi controllava la sua cifra con la cifra dell’Ansa) e a conclusione, in piazza Santi Apostoli o in piazza Venezia.

   Quando la manifestazione era più modesta per numero di partecipanti il fotografo dell’agenzia era incaricato di fare una foto con un obiettivo gran­dangolare. Un giorno Amerigo Terenzi, che nel consiglio di amministrazione dell’agenzia rappresentava l’Unità, mi telefonò per dirmi che, secondo quanto gli avevano detto, i giovani (di estrema sinistra) che avevano fatto una manife­stazione di protesta contro il Pci erano molti meno dei 250 di cui aveva par­lato l’Ansa. Gli mandai l’ingrandimento della foto panoramica; erano 249.

   Difficile non era questo. Difficile era raccontare fatti di cui nessuno di noi era stato testimone oculare; difficile, cioè, era avvicinarsi quanto più pos­sibile alla verità attraverso le testimonianze o le versioni di altri. Com’era morto Paolo Rossi (aprile 1966; fu la prima vittima) durante un tafferuglio all’università di Roma? Com’era caduto Giuseppe Pinelli (dicembre 1969) da una finestra al quarto piano della questura di Milano? Com’era morto Gian­giacomo Feltrinelli (marzo 1972), trovato alla base di un traliccio dell’energia elettrica nei pressi di Segrate? Com’era stato assassinato il commissario Luigi Calabresi (maggio 1972) davanti alla sua abitazione a Milano?

   I cronisti e i redattori dell’agenzia cercavano di capire, ricostruendo il fat­to sulla base di quello che veniva detto dai testimoni e dalle varie fonti, uffi­ciali e non ufficiali; e riferendo, tra virgolette, le versioni, spesso contrastanti, degli uni e degli altri. Ma quando, il giorno dopo, guardavamo i giornali, an­che i grandi quotidiani nazionali, constatavamo che la «verità», la loro «ve­rità», era un’altra; noi, quindi, non l’avevamo saputa accertare: Paolo Rossi ‑ si sosteneva ‑ era stato colpito da uno studente di destra; Giuseppe Pinelli e­ra stato buttato di sotto da un agente, forse dallo stesso commissario Cala­bresi; Giangiacomo Feltrinelli era stato ucciso altrove (dai fascisti? dai Servi­zi segreti?) e poi portato sotto il traliccio; Luigi Calabresi era stato colpito da un killer di destra; forse era stato vittima di un complotto organizzato, at­traverso i fascisti, direttamente dalla Cia.

   Col tempo la verità vera quasi sempre veniva fuori e ci dava ragione; spesso, paradossalmente, erano gli stessi gruppi di sinistra che, smentendo i loro incauti patrocinatori, raccontavano o facevano capire come erano anda­te le cose. Le Brigate rosse riconobbero che Feltrinelli era rimasto ucciso «per errore» in una «azione di guerriglia». Lotta continua aveva perfino anti­cipato 1’«esecuzione» del commissario Calabresi: «L’imputato e vittima è già  da tempo designato: un commissario aggiunto di PS, torturatore e assassino: Luigi Calabresi».

   Sul momento, tuttavia, noi dell’Ansa ogni giorno ci domandavamo in­quieti com’era che la realtà fotografata dall’agenzia non corrispondeva a quella che appariva sui giornali; e com’era che i giornali erano così pieni di certezze, mentre noi eravamo così pieni di dubbi.

   Le informazioni disponibili, le informazioni sicure, erano le stesse per l’Ansa e per tutti gli altri; gli indizi erano sempre vaghi; di prove, nell’im­mediato, non ce n’era quasi mai nessuna. Eppure leggevamo ogni giorno brillantissimi pezzi di noti e valenti giornalisti che sul nulla riuscivano a co­struire grandiose architetture interpretative; tutte schierate da una parte, na­turalmente. Le eccezioni furono poche: Giampaolo Pansa, Carlo Casalegno (vicedirettore della Stampa, che pagò con la vita, novembre 1977, il suo con­cetto di un’informazione seria e responsabile), Gianfranco Piazzesi, Indro Montanelli («gambizzato», il 2 giugno 1977; il giorno prima era stato «gam­bizzato» Vittorio Bruno, vicedirettore del Secolo XIX; il giorno dopo, Emi­lio Rossi, direttore del TG1); furono eccezioni anche Giorgio Bocca, dopo una prima fase di sbandamento, Arrigo Levi, Enzo Biagi.

   Fu Enzo Biagi che, nel 1975, dopo l’omicidio di Pier Paolo Pasolini (an­che per la morte di Pasolini, nonostante la cattura dell’assassino, reo confes­so, si parlò di complotti), chiamò «intellettuali di pronto intervento», «sem­pre in grado di esprimere un giudizio di circostanza», quegli intellettuali che non esitavano a firmare condanne prima ancora di conoscere i fatti.

   In quegli anni molti intellettuali fecero ancora peggio e se oggi ne leggiamo i nomi (quasi tutti uomini di valore, uomini di studio, uomini ‑ alcuni ‑ che sono diventati per tutti un esempio di serietà scientifica e di autorità mo­rale) non possiamo non chiederci quale vento di follia portasse alla rinuncia ad ogni spirito critico e all’adesione fideistica e irrazionale alle posizioni del­l’estrema sinistra.

   Il 13 giugno del 1971 un documento in cui il commissario Luigi Calabresi veniva definito un «commissario torturatore» e denunziato come «responsa­bile della fine di Pinelli» (nell’ottobre del 1975, dopo quattro anni di indagi­ni, Calabresi sarebbe stato prosciolto da tutte le imputazioni perché «il fatto non sussiste») fu pubblicato dall’Espresso. In calce c’erano ottocento firme di personalità della cultura. Forse erano state raccolte senza interpellare l’inte­ressato o senza fargli conoscere il testo? Molti lo sperarono; ma non ci furo­no o non apparvero smentite o dissociazioni.

   Tra i firmatari c’erano filosofi come Norberto Bobbio (davvero anche Norberto Bobbio?), Lucio Colletti e Lucio Villari; personalità del cinema come Federico Fellini, Cesare Zavattini e Liliana Cavani; poeti come Pier Paolo Pasolini e Giovanni Raboni; pittori come Renato Guttuso, Andrea Cascella, Carlo Levi; editori come Vito Laterza e Giulio Einaudi; storici co­me Franco Antonicelli e Paolo Spriano; scienziati come Margherita Hack; scrittori come Alberto Moravia, Domenico Porzio, Dacia Maraini, Enzo Si­ciliano, Alberto Bevilacqua, Franco Fortini, Angelo M. Ripellino, Primo Le­vi; giornalisti come Eugenio Scalfari, Giorgio Bocca, Furio Colombo, Livio Zanetti, Paolo Mieli, Giuseppe Turani, Andrea Barbato, Vittorio Gorresio, Carlo Rognoni, Carlo Rossella, Camilla Cederna.

   Il caso più sconcertante avvenne quattro mesi più tardi, nell’ottobre. Molti giornali pubblicarono una lettera aperta indirizzata alla procura della repubblica di Torino, che aveva denunciato, per istigazione per delinquere, alcuni esponenti di «Lotta continua». Nella lettera si diceva fra l’altro: «Quando essi (cioè gli imputati) gridano `lotta di classe, armiamo le masse’, noi lo diciamo con loro. Quando essi si impegnano a `combattere un giorno con le armi in pugno contro lo stato fino alla liberazione dai padroni e dallo sfruttamento’, noi ci impegniamo con loro».

   Tra i firmatari, che dunque si impegnavano, almeno a parole, a prendere le armi contro lo stato, c’erano ancora Umberto Eco, Lucio Colletti, Paolo Mieli, Giovanni Raboni, Cesare Zavattini e poi Giulio Carlo Argan, Dome­nico Porzio, Sergio Saviane, Natalia Ginzburg e fermiamoci qui. Sforziamo­ci di rimanere nel dubbio, o nella speranza, che avessero messo a disposizio­ne la propria firma senza prima aver letto il testo.

   Un altro motivo di sconcerto per l’atteggiamento di questi intellettuali e­ra infatti non solo l’insensatezza dei programmi del terrorismo di sinistra, ma l’inconsistenza culturale dei loro presupposti teorici (quando, e non sem­pre, essi venivano esposti).

   Il 4 aprile del 1978, diciotto giorni dopo il sequestro di Aldo Moro e il massacro della sua scorta, le Brigate rosse fecero trovare un opuscolo di ses­santa pagine, intitolato Risoluzione della Direzione Strategica ‑ Febbraio 1978; aveva una copertina bianca con la scritta «Brigate rosse» e la stella a cinque punte; sull’ultima pagina di copertina quattro slogan: «Portare l’at­tacco allo stato imperialista e alle multinazionali», «Disarticolare e distrug­gere i centri della controrivoluzione imperialista», «Creare, organizzare o­vunque il potere proletario armato», «Riunificare il movimento rivoluziona­rio nella costruzione del partito comunista combattente».

   Il libretto riassumeva concetti e programmi che già erano stati illustrati in molti dei tanti comunicati lasciati, a uso della stampa, qua e là in Italia e so­prattutto nel comunicato in cui le Brigate rosse rivendicavano la cattura di Aldo Moro, l’attuatore «dei programmi controrivoluzionari voluti dalla bor­ghesia imperialista».Il discorso di quei comunicati era spesso involuto e di non facile com­prensione. Vi si parlava di una «crisi irreversibile» dell’«imperialismo», dei suoi tentativi di «ristrutturazione» e del pericolo che l’Italia passasse «sotto il controllo totale delle centrali del capitale multinazionale». Si diceva infatti che «la trasformazione nell’area europea dei superati stati‑nazione di stampo liberale in stati imperialisti delle multinazionali (SIM)» era «un processo in pieno svolgimento anche nel nostro paese» e che «il SIM si predisponeva a svolgere il ruolo di cinghia di trasmissione degli interessi economici‑strategi­ci globali dell’imperialismo e nello stesso tempo ad essere organizzazione della controrivoluzione preventiva rivolta ad annichilire ogni velleità rivolu­zionaria del proletariato».

   A conclusione dei proclami c’era spesso un appello: «Proletari di tutti i paesi uniamoci». Ma erano proletari coloro che scrivevano queste tragiche a­menità? Molti non lo erano, come risultò quando uscirono dai loro covi; e un richiamo alla comprovata maturità del proletariato e al suo contributo al­la «crescita democratica» dell’Italia era stato fatto nel giugno del 1977 da Giorgio Amendola sull’Unità, in polemica con un articolo di Norberto Bob­bio sulla Stampa e con tanti politologi, «abili nell’indicare le cose che non vanno, ma miopi di fronte a quello che di nuovo e di sano c’è nel paese».

   «Quando l’estremismo» scriveva Amendola «si rivolge contro le istitu­zioni repubblicane, i sindacati, i partiti e finisce col combattere essenzial­mente il Pci, allora si capisce quali possono essere le forze interne e interna­zionali che si avvantaggiano di simili azioni».

   La polemica di un alto esponente del Pci come Giorgio Amendola con­tro i «cattivi maestri» centrava uno dei problemi più gravi del momento, e cioè l’influenza che su tanti giovani intellettualmente sbandati potevano ave­re gli uomini di cultura e di scienza, quando rinunziavano a quello spirito critico che avrebbe dovuto essere il loro più felice privilegio e accettavano posizioni di preconcetto schieramento. Ma il partito comunista aveva tutte le carte in regola?

   All’inizio del movimento terroristico il Partito comunista aveva tenuto un atteggiamento incerto: forse per sottovalutazione del fenomeno, forse per il timore di avere concorrenti alla sua sinistra, forse per il disegno opportuni­stico di non compromettersi in attesa dell’evolversi della situazione. Nel gennaio del 1970 uno dei primi e più importanti convegni organizzativi di «Potere operaio» e di «Lotta continua» fu ospitato proprio in una sezione fiorentina del Pci, il circolo «Faliero Pucci».

   Un primo accenno di riflessione si ebbe nel marzo del 1972, quando Enrico Berlinguer, aprendo il tredicesimo congresso del Pci, invitò alla «vigilanza contro le provocazioni» e chiese «un impegno costante per convincere i giovani animati da un giusto sentimento di protesta che la linea dell’avventurismo non solo non è rivoluzionaria ma giova ai nemici della classe operaia». Nel settembre dell’anno successivo il colpo di Stato del generale Pinochet in Cile indusse Berlinguer ad elaborare quella proposta di «compromesso storico» con la Dc che rimarrà per lungo tempo al centro del dibattito politico. Nel 1974 si allargarono le imprese del terrorismo rosso e soprattutto di quello nero (strage di piazza della Loggia a Brescia, in maggio, attentato al treno Italicus, in agosto); il clima si fece incandescente con la campagna elettorale per il referendum sul divorzio e poi per la situazione economica (la Fiat mise in cassa integrazione 65 mila dipendenti).

    Nel 1975 le elezioni amministrative segnano una forte avanzata del Pci e «giunte rosse» si costituiscono nelle principali città. Nel 1976 le elezioni politiche vedono il successo della Dc e del Pci, ma è nel 1977 che esplode il conflitto tra il partito comunista e la sinistra extraparlamentare: il 17 febbraio a Roma il segretario della Cgil, Luciano Lama, pensa di poter tenere un comizio all’università occupata dagli «autonomi» ed è costretto a scappa­re sotto la protezione della polizia. È l’anno in cui l’ondata terroristica tocca il massimo: 2128 attentati, trentadue «gambizzati», undici morti.

    Il 2 novembre, a Mosca, alle celebrazioni per il sessantesimo anniversario della Rivoluzione d’ottobre, Enrico Berlinguer dice, tra il palese dissenso della dirigenza sovietica, che il Partito comunista italiano intende realizzare «una società nuova, che garantisca tutte le libertà personali e collettive, civili e religiose, il carattere non ideologico dello Stato, la possibilità di esistenza di diversi partiti, il pluralismo della vita sociale, culturale e ideale».

    Il 16 gennaio del 1978 il terzo governo Andreotti si dimette. Il 19 Andreotti ottiene l’incarico di formare il nuovo governo. Il 28 febbraio Aldo Moro sostiene, davanti ai gruppi parlamentari del suo partito, l’opportunità di costituire una nuova maggioranza, programmatica e non politica, che comprenda anche il Partito comunista. Il 9 marzo si apre a Torino il primo processo alle Brigate rosse (ci sono gli esponenti più in vista: Renato Curcio, Alberto Franceschini, Prospero Gallinari, Giorgio Semeria, Mario Moretti Nadia Mantovani). L’11 Andreotti costituisce il suo quarto governo, un monocolore dc. Il 16 le Brigate rosse rapiscono Aldo Moro e massacrano i cinque poliziotti della sua scorta.

    Nella stessa giornata la Camera (545 sì, 30 no) e il Senato (267 sì, cinque no) votano immediatamente la fiducia al nuovo governo anche con i voti del Pci; per la prima volta dal 1947 il Partito comunista fa parte della maggioranza governativa.

   Alla redazione centrale dell’Ansa la notizia del rapimento del presiden­te della Dc fu data dalle stesse Brigate rosse con una telefonata che diceva: «Questa mattina abbiamo sequestrato il presidente della DC Moro ed elimi­nato la sua guardia del corpo, ‘teste di cuoio’ di Cossiga». L’agenzia era fer­ma per uno sciopero aziendale dei giornalisti, ma fu pronta a rispondere ai suoi doveri. La telefonata fu fatta alle 10.10; la notizia venne trasmessa alle 10.15: soltanto quattro minuti e 30 o 45 secondi di ritardo rispetto a come sarebbe stato se l’agenzia fosse stata normalmente operante. E prima delle 12 tutti i redattori erano al loro posto di lavoro; avevano saputo che cosa era successo e non c’era stato bisogno di convocarli per telefono.

    In agenzia si sentiva la responsabilità che pesava sulle nostre spalle: ga­rantire un’informazione non solo imparziale ma quanto più possibile esatta in un mondo giornalistico e politico in cui sembrava che molti avessero perso la testa. Ai guai del passato si aggiunse allora, dopo il sequestro di Aldo Moro, un dibattito acceso ‑ fra i politici, sulla stampa e anche nell’o­pinione pubblica ‑ pro e contro quella che venne chiamata la «politica della fermezza».

   Per gli uni (in testa i comunisti) qualsiasi patteggiamento di fronte al ri­catto delle Br avrebbe significato un loro riconoscimento politico e quindi u­na resa dello stato di fronte al terrorismo; da un ricatto si sarebbe passati ad un altro ricatto. Per gli altri, invece, il dovere dello stato era di salvare la vita di Aldo Moro, aprendo spazi di trattativa con i terroristi e facendo loro qualche concessione. Favorevoli alla ricerca di un contatto con i sequestrato­ri erano Craxi e i socialisti e, nella Dc, forse per solidarietà a Moro più che per principio, Amintore Fanfani.

     Un appello disperato alla trattativa era anche nelle quattro lettere che Al­do Moro scrisse nella sua prigionia e che le Br impietosamente resero pub­bliche. Erano documenti drammatici e sconcertanti. Molti democristiani sostennero che si trattava di lettere apocrife o perché non ammettevano che Moro facesse esplicite accuse al suo partito («Non accetto» scriveva «l’iniqua sentenza della Dc») e ai suoi colleghi («Mi sento abbandonato da voi»; «Non assolverò e giustificherò nessuno»; «Io sono condannato a morte; che la condanna sia eseguita dipende da voi») oppure perché non si sentivano di accettare una figura umana che da questi scritti appariva molto diversa da quella ufficiale e generalmente conosciuta.

    Che si trattasse di lettere autentiche lo sostenevano i familiari e, per moti­vi diversi, molti che in quelle parole vedevano il veritiero ritratto di un uomo che, dietro un grande e sofferto patrimonio culturale, finalmente svelava un temperamento debole e incerto. Fu uno dei pochi casi in cui un documento rimase per qualche minuto sul mio tavolo prima di essere trasmesso. Legge­vo quelle frasi: «Siamo quasi all’ora zero. Mancano più secondi che minuti. Siamo al momento dell’eccidio». Che fare? Poco dopo, quelle strazianti pa­role erano sulle telescriventi dei giornali in Italia e nel mondo. Aldo Moro, se è in condizioni di farlo, mi comprenda e mi perdoni.

   Furono 55 giorni di agonia per Aldo Moro, 55 giorni di angoscia e di tre­pidazione per tutti noi. Il 15 aprile, col solito volantino lasciato in qualche posto, le Brigate rosse annunziarono che il «processo» a Moro era terminato e che il «prigioniero» era stato «condannato a morte». Il 22 papa Paolo VI lanciò un appello alle Brigate rosse; era la prima volta che Paolo VI faceva il nome delle Brigate rosse ed era inconsueto che si rivolgesse ai brigatisti in prima persona, senza usare il «pluralis majestatis»: «Vi prego in ginocchio, liberate Aldo Moro».

   Il 9 maggio alle 13.59 l’Ansa trasmise una notizia: «Un cadavere in una macchina è stato trovato in via Caetani, una traversa delle Botteghe Oscure». Alle 14.04: «L’on. Moro sarebbe la persona trovata morta». Alle 14.13: «È confermato che Aldo Moro è stato trovato morto in una Renault4 rossa in via Caetani». Poco più tardi l’agenzia trasmise una foto, scattata da un foto­grafo dell’agenzia, Rolando Fava, dalla finestra di un appartamento al primo piano in via Caetani. È la fotografia che ha avuto il maggior numero di ri­produzioni nel mondo. Si vede la Renault4 con lo sportello aperto del portabagagli, nell’interno il corpo di Aldo Moro supino, la testa reclinata a sini­stra, la mano destra abbandonata sul petto.

   Sulla morte di Aldo Moro si scatenarono le supposizioni e le congetture di tanti; e per alcuni, come sempre, le supposizioni e le congetture diventaro­no certezze: il presidente della Dc era stato sequestrato e ucciso dalle Briga­te rosse per impedire il «compromesso storico» fra la Democrazia cristiana e il Partito comunista; le Brigate rosse erano state guidate, attraverso oscuri le­gami con i Servizi segreti italiani, da qualche «grande vecchio» avente quel­1’obbiettivo; dietro l’oscura vicenda c’era un complotto internazionale e la mano di qualche «intelligence» (la Cia?) di oltre oceano.

   Vero è che tutta la storia presentava aspetti stranamente inquietanti e sin­golari coincidenze di date e di eventi. Le successive confessioni e le ammis­sioni dei brigatisti non convalidarono tuttavia le ipotesi di Br manovrate dal­l’esterno e il 15 ottobre del 1993 Prospero Gallinari, il brigatista indicato co­me l’esecutore della «sentenza» su Aldo Moro, dichiarò, con una certa iat­tanza, che dietro la loro impresa non c’era stato niente né nessun altro; non c’erano stati i Servizi segreti, non c’era stato un complotto. «Moro» disse «è stato roba nostra».

   Forse sarebbe stato più interessante indagare sul perché e sul come erano falliti, in quei drammatici 55 giorni, tutti i tentativi di ritrovare Aldo Moro. L’impreparazione e l’inefficienza delle forze di polizia e l’insipienza dei loro capi non sembrano essere una spiegazione sufficiente. I Servizi segreti erano comandati da uomini legati alla loggia P2, e la P2 e tanti altri centri di potere, italiani e stranieri, erano contrari al coinvolgimento del Partito comunista nel governo.

   A scoprire la verità non servirono neppure i maghi e i veggenti che qual­cuno, nell’anno di grazia 1978, ritenne di interpellare. Ma se il disegno era quello, il disegno ebbe successo. Nel gennaio dell’anno seguente Enrico Ber­linguer ritenne conclusa la stagione della «solidarietà nazionale». Non pos­siamo restare, disse, con una Democrazia cristiana che ha indicato il Pci co­me il «fondamento ideologico e politico del terrorismo» proprio «quando il Pci dava un esempio di fermezza nella difesa della democrazia e di solida­rietà nei confronti del governo e della stessa Dc colpita nel suo leader più autorevole».

   Nel 1980 il congresso nazionale della  Dc rinnegò la politica di Aldo Mo­ro, il Partito comunista tornò all’opposizione, si vide Enrico Berlinguer che arringava gli operai in sciopero davanti ai cancelli della Fiat a Torino.

   Ci furono ancora anni difficili. Dopo la strage alla stazione di Bologna (agosto 1980) il terrorismo nero, con la bomba sul rapido 904 (dicembre 1984), mostrava di integrarsi con la mafia e con la camorra.

   Sul fronte rosso si ebbe, nel febbraio del 1980 l’assassinio di Vittorio Ba­chelet, vicepresidente del Csm dal 1976 e docente di diritto amministrativo; le Br gli spararono a freddo, davanti alla sua aula, all’università di Roma. Al­la fine del 1981, ci fu lo spettacolare sequestro (e, dopo poco più di un mese, la liberazione da parte delle «teste di cuoio» della polizia) del generale ameri­cano James Dozier. Nel 1985 fu assassinato Ezio Tarantelli, docente di eco­nomia del lavoro e consulente economico della Cisl.

   Nel 1986 le Brigate rossé ammazzarono a Firenze l’ex sindaco repubbli­cano Lando Conti, ma il volantino lasciato sul cadavere non spiegava le ra­gioni di un omicidio che è rimasto senza senso. L’ultimo morto fu, nell’aprile del 1988, Roberto Ruffilli, docente di storia contemporanea all’università di Bologna; il solito volantino diceva: «Attacco al cuore dello stato. Brigate rosse per la costruzione del partito comunista combattente»; ma il motto ap­parve vecchio e non più credibile. I «combattenti» ancora in libertà erano già, quasi tutti, tornati a casa.

   E oggi dove sono i protagonisti di quegli anni di follia? Alcuni sono in galera; alcuni, in libertà vigilata, lavorano in organismi di assistenza o di vo­lontariato. Ma gli altri? non solo quelli che si erano limitati a gettare sassi contro la polizia o a fracassare le vetrine dei negozi e a incendiare auto, ma gli autori di molti omicidi rimasti impuniti e che la giustizia non ha saputo raggiungere: gli uni e gli altri, che cosa fanno?

   Sicuramente hanno messo famiglia, hanno figli, sono diventati insegnanti, docenti universitari, dirigenti industriali, architetti, medici, giornalisti. Han­no qualche capello bianco, esercitano con impegno e serietà la propria pro­fessione, la sera dànno un’occhiata alla televisione, il sabato vanno al cinema, e l’estate tutti al mare o in montagna. Niente di più facile che, senza sapere chi sono, li incontriamo nell’ascensore di casa, dal tabaccaio, a un concerto. Chissà: qualcuno si presenta, «Sono l’ingegner Tal dei tali», e noi gli stringia­mo la mano.

   Il tempo ha sepolto ogni cosa, non solo quei poveri morti innocenti. E così sono tutti eguali, quelli che ammazzarono e quelli che furono ammazza­ti. Così anche noi: quelli che sbagliarono e quelli che videro giusto.