Il bene, il male, il non male

Socrate diceva: chi conosce il bene fa il bene; quindi chi fa il male non conosce il bene. Alla base del male è l’ignoranza. Chi fa il male crede che in quel momento il male che fa non sia il male; se lo sapesse, non lo farebbe.

Da solo l’individuo non è attore del male. Il male (come il bene) presuppone almeno due individui. Per fare il male o non farlo l’individuo (il soggetto) ha bisogno di un altro individuo (l’oggetto). Il male è tale in una comunità di individui.

Il bene nasce storicamente come non-male. E’ la società (il vecchio del clan, il capotribù e così via, fino agli organi delle Chiese O dello Stato) che stabilisce che cosa è il male (il male è il danno che l’individuo può fare ad altri individui), si preoccupa che il male non sia esercitato e stabilisce la pena per chi fa il male. Chi non fa il male solo perché lo proibisce un’autorità esterna o perché sa che il male è passibile di pena o di castigo non fa il bene ma il non-male.

Il male è un fatto non metastorico ma storico. Il male come danno che un individuo può arrecare a un altro individuo (e la definizione che di esso dà la società) è relativo alla singola situazione storico-politica e storico-sociale; può cambiare secondo i tempi e i luoghi.

Il male è classificato come tale dalle istituzioni religiose o statuali secondo criteri di utilitarietà; così i dieci comandamenti (“non fare agli altri quello che non vuoi che sia fatto a te”), così il codice di Giustiniano; così tutti gli altri codici attraverso i tempi e così oggi.

Il non-male diventa il bene quando la ragione del non-male non è l’utile (la paura del contrappasso o la paura della pena o del castigo); il non- male diventa il bene quando evitiamo di fare il male non perché un’autorità ce lo proibisce, non perché può nuocerci, ma perché non amiamo farlo.

Perché non amiamo farlo? Se non amiamo fare il male, non è per ragionamento, non è per obbedienza a codici generali di comportamento, non è per la prescrizione imposta da entità esterne, civili o religiose, non è per la paura della pena (in tutti questi casi non sarebbe il bene ma il non-male). Non facciamo il male perché non ci sentiamo di farlo. Ma perché? Che cosa ci spinge a non essere soggetti di male anche se rischiamo di esserne oggetto? Quand’è che, nel fare il non-male, l’utile è sostituito dal disinteresse; quand’è che sull’imposizione (civile o religiosa) prevale la libera volontarietà; quand’è che il non-male diventa il bene?

Non facciamo il male e il non-male ma il bene quando sentiamo che l’altro da noi non è un altro, un diverso da noi, cioè un oggetto, ma è una persona come noi, cioè un soggetto. E quand’è che l’altro da noi diventa persona come noi e non più un oggetto diverso da noi; e perché?

Ancora Socrate. Il male è ignoranza; il bene è conoscenza. La conoscenza nasce dalla nostra eredità biologica (che risale indietro nel tempo, da generazione e generazione, frutto dell’evoluzione della specie umana) e dalla nostra storia personale, cioè dalla vita che abbiamo vissuto; ossia dalle informazioni contenute nel nostro dna, e quindi innate, e dalle informazioni acquisite dalla nostra nascita in poi, cioè le informazioni che ci sono state date dall’educazione familiare (e dall’esempio dei genitori), dall’istruzione scolastica (specie nelle scuole primarie), dalle persone che frequentiamo, dalle letture che facciamo, dagli spettacoli che vediamo, dalle esperienze personali, familiari e professionali, dalle vicende di cui siamo stati spettatori o protagonisti; e informazioni sono anche quelle create dagli stati emotivi di cui abbiamo sofferto o gioito, dalle nostre paure e dai nostri sensi di felicità; informazioni sono anche i dati biologici della nostra vita affettiva, i sentimenti e gli istinti che ci legano ai nostri familiari e da questi agli amici e da questi ai conoscenti e da questi, grazie anche alle nostre informazioni culturali, a tutti.

L’insieme di queste informazioni costituisce quel patrimonio di cosiddetti valori, cioè di principii disinteressati di comportamento, che  comunemente chiamiamo coscienza morale.

Il massimo accade quando questi valori (cioè queste informazioni, anch’esse storiche, non metastoriche) non solo ci spingono ad agire  secondo norme di civile convivenza (onestà, lealtà, rispetto degli altri, limitazione delle nostra libertà in presenza delle altrui libertà), ma ci inducono a trovare piacere e soddisfazione nel generare il bene degli altri (carità, rinunzia alle proprie cose, spirito di sacrificio; tutto quello che comunemente chiamiamo altruismo).

Tutto questo richiama il concetto kantiano di “bene supremo” e due delle tre formule dell’imperativo categorico di Immanuel Kant: “Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere nello stesso tempo come principio di una legislazione universale; agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo”.

Non sono gli individui che fanno la storia, ma è la storia che fa gli individui; intendendo per storia l’insieme dei fatti (atti e parole) in cui si esprimono, “hic et nunc”, i membri di una comunità. La storia cambia di giorno in giorno, arricchendosi via via di nuovi fatti e quindi di nuove esperienze, buone e cattive; è la storia diversa secondo le diverse situazioni sociali (in cui contano cronaca, politica, economia), e quindi secondo le diverse aree geografiche ed etniche; è la storia diversa secondo le diverse culture, tradizioni e abitudini e secondo i diversi sistemi politici e sociali; è la storia diversa secondo gli individui, anch’essi diversi fra loro per le loro diverse esperienze di vita e la loro diversa capacità di recepire, selezionare e far proprie culturalmente quelle esperienze; e anche l’individuo non è mai lo stesso, giorno dopo giorno, nel tempo che scorre e che cambia.

C’è chi ha più informazioni e chi ne ha meno. Chi di conoscenze ne possiede di più (e meglio se di un certo tipo) è portato a fare il bene; chi ne ha di meno è portato a fare il male, ritenendo che il male sia il bene.

Spesso, tuttavia, anche chi conosce il bene fa il male; cioè nel momento in cui fa il male ritiene di fare il bene. Fare il male o fare il bene non è quindi un atto di permanente razionalità; è un atto compiuto sotto la spinta di quel mondo interiore in cui le conoscenze innate (eredità biologica) e conoscenze acquisite (storia personale) si aggregano e interagiscono fra loro insieme alle pulsioni irrazionali (emozioni, passioni, sensazioni, istinti).

Questo mondo interiore è l’inconscio, cioè quell’area psichica profonda, fuori della nostra coscienza, in cui si raccolgono tutte le informazioni e che rappresenta il nostro vero “io”; e l’“io” di ogni individuo è diverso da ogni altro “io”: è un patrimonio di contenuti, ovviamente diversi da individuo a individuo, che si collegano, si contrastano, si sovrappongono e così condizionano, stimolano, regolano, disciplinano la nostra attività cosciente.

Non fare il male è un riflesso condizionato anche quando appare come un atto razionale; sembra una libera scelta, ma è una scelta inconsapevolmente obbligata, come tutti gli atti della nostra vita.

Conclusione: chi commette il male non sa di fare il male, quindi è innocente; chi, consapevolmente e volontariamente, senza imposizione altrui, non commette il male fa il bene e ne trae soddisfazione; e la soddisfazione appare un premio che gratifica chi lo compie e rafforza i presupposti del suo fare il bene.

Sia chi fa il male, sia chi fa il non-male, sia chi fa il bene è condizionato dalle sue conoscenze, minori o maggiori, e da certi tipi di conoscenze. A spingere al bene sono le conoscenze contenute nell’inconscio; a spingere al male la mancanza, nell’inconscio, di certe conoscenze (o la momentanea ignoranza di esse).

L’ameba è un essere unicellulare che reagisce a un solo stimolo: la temperatura; possiede cioè una sola informazione: la sensazione del caldo e del freddo. Gli animali che consideriamo in certo modo intelligenti (il cavallo, il gatto, il cane) lo sono perché hanno un largo patrimonio di informazioni, create prima da secoli di addomesticamento e create poi dall’ambiente fisico e umano in cui vivono.

I riflessi degli animali sono tutti riflessi condizionati. Condizionati sono anche i riflessi degli esseri umani e i loro atti. La differenza è solo nel numero dei condizionamenti (cioè le informazioni); pochi negli animali, tantissimi negli esseri umani, che alle tante informazioni contenute nel loro dna, cioè nella eredità biologica, hanno potuto aggiungere le tantissime informazioni acquisite (è la loro storia personale) con le esperienze di vita, gli apprendimenti fatti, gli insegnamenti ricevuti. E tanto maggiore è la loro spinta verso il bene quanto maggiore è il numero e il tipo delle informazioni possedute.

Chi più sa, più è libero (e più è soggetto morale); ma il cosiddetto libero arbitrio non esiste. Tutti i nostri atti sono condizionati dalle informazioni che costituiscono l’inconscio (eredità biologica più storia personale). I condizionamenti sono migliaia di migliaia e questo ci dà l’impressione di essere liberi. In realtà, in certo modo lo siamo, se le informazioni condizionanti sono tante da garantire un ventaglio larghissimo di opzioni.

La vita non è regolata dal caso ma dalla necessità. Il caso non esiste. Una moneta lanciata in aria cade a terra: testa o croce? E’ il caso, si dice. No. La caduta a terra della moneta – testa o croce – dipende dal peso e dalla forma della moneta; dall’altezza e dalla velocità del lancio; dalla maggiore o minore leggerezza dell’aria e dal suo eventuale movimento.

La necessità può tuttavia manifestarsi in un solo modo (l’ameba) o in migliaia e migliaia di modi (la persona umana). Compito delle istituzioni (la scuola, lo stato; per secoli è stata la Chiesa) è di moltiplicare quei modi almeno in ragione dell’utilità; sarà l’individuo, sublimando culturalmente quei modi, cioè con l’accrescimento personale del proprio patrimonio di conoscenze, a trasformare l’utilità in moralità.

Innocenza del male non significa assoluzione del male. Qualsiasi comunità deve difendersi per impedire che i propri membri ricevano danno.

L’evoluzione delle società attraverso i secoli ha visto un continuo processo di diminuzione del male e di aumento del non-male, fino al superamento del concetto di non-male nel concetto di bene. Nei primi secoli ne hanno avuto il merito le Chiese, soprattutto le Chiese cristiane col richiamo al Vangelo (nella maggioranza dei casi, al comandamento divino e ai suoi castighi); poi gli stati col ricorso ai codici penali e con l’allargamento dell’istruzione; poi l’evoluzione sociale con la diffusione della cultura. Ma a livelli culturali più bassi e nelle società meno progredite la rinunzia al male è dipesa dalla paura della pena: la pena della detenzione statale, ma, soprattutto, per molti secoli, fino all’ultimo scorso, dalla paura di quella pena suprema che è l’inferno.

L’istruzione è lo strumento principale per quell’aumento di conoscenze che permette di compiere il bene (e di trarne soddisfazione): l’istruzione scolastica, principalmente, col richiamo ai doveri di una civile convivenza; un tempo anche l’istruzione religiosa, limitatamente all’insegnamento morale di Cristo (fratellanza, carità, amore per il prossimo); e poi l’istruzione che può venire dalle letture e dai grandi mezzi della comunicazione sociale (stampa e tv).

L’insegnamento scolastico si sta tuttavia dimostrando carente per deficienza di mezzi, discutibilità di programmi e livello culturale di docenti. L’insegnamento religioso ha perduto autorevolezza e ha difficoltà di trasmettere in una società sempre più secolarizzata il messaggio morale intitolato a Cristo, che è valido per credenti e non credenti. La televisione ha dimostrato di essere non solo un veicolo di messaggi ma un messaggio essa stessa, un medium che modifica comportamenti e modi di pensare, anche attraverso l’ossessiva narrazione di fatti di violenza. Le testate giornalistiche si adeguano agli indirizzi della televisione e si fanno spesso strumento di rissa politica e di delegittimazione della persona. La politica si lascia sedurre dall’idea di un potere che giustifica tutto e trasforma il reato in una innocente occasione di normale attività.

Tutto questo non è solo rinunzia al dovere di contribuire alla crescita civile della società. Tutto questo è violenza. La violenza non è solo il delitto. Violenza è anche l’esibizione del delitto come se non fosse tale. Violenza è anche l’illustrazione compiaciuta del delitto. Violenza non à solo l’atto delittuoso ma anche l’eccesso verbale e gestuale. Violenza non è solo l’uso della forza fisica, ma anche la coercizione culturale o morale. Violenza è la menzogna. Violenza è la manipolazione delle informazioni. Violenza è la limitazione della libertà altrui. Violenza è anche l’imposizione mediatica di modi e stili di vita. Il male è la violenza.

I tempi che viviamo presentano aspetti contradditori: da una parte sono nati strumenti privilegiati per la diffusione e l’approfondimento delle conoscenze: la crescita e il miglioramento tecnico dell’editoria e della stampa e soprattutto i nuovi mezzi di comunicazione creati dalle tecnologie elettroniche (il pc e i suoi derivati; Internet); dall’altra parte si manifesta una perdita di coscienza del male, specie da parte di quelle classi dirigenti (politiche, economiche e finanziarie) e di quelle categorie professionali che dovrebbero dare l’esempio di corretti costumi e comportamenti ed essere modello per tutti di senso e rispetto dei valori che rendono civile la società.

Di fronte ai tanti esempi di insensibilità morale, che impedisce l’esercizio del bene o per lo meno del non-male, l’unico modo di impedire il male è la gravità della pena e la certezza della pena. I codici penali sono nati per questo; si tratta di applicarli con rigore contro coloro che non li rispettano. E così i codici di deontologia professionale.

L’obiettivo rimane l’esercizio del bene, cioè la promozione e diffusione di quelle conoscenze che trasformano in bene il non-male; ma in una comunità di individui il non-male, anche se ottenuto col castigo o con la minaccia del castigo, è sempre preferibile al male.

Ancora sull’innocenza del male

1 – L’innocenza del male, cioè la non consapevolezza del male nel momento in cui lo si compie, non significa impunibilità del male commesso. Innocenza del male è un concetto filosofico; punibilità del male (comunque sia stato commesso) è una norma necessaria per la difesa della società. Anche chi viene dichiarato incapace di intendere e di volere nel reato compiuto è messo nelle condizioni di non commettere altri reati. Giustamente la società punisce il male, e non ha importanza, socialmente, che il male sia stato commesso senza che l’autore si rendesse conto che era male.
Si tratta di due piani diversi: sul piano filosofico il male come non conoscenza del bene, e quindi l’innocenza del male; sul piano sociale il male come un danno per gli altri e quindi la punibilità del male. Il codice penale non è un testo filosofico; si preoccupa di punire il male; non si preoccupa di sapere perché si fa il male e non il bene. Sta ad altri di studiare le radici del male; e se lo si fa, non lo si fa soltanto per proprio intellettuale diletto, ma allo scopo di suggerire i modi per ridurre l’esercizio del male.

2 – L’ignoranza del male è quindi una colpa all’interno di una società. Ma la colpa è soltanto di chi commette il male? Se commettere il male significa non conoscere il bene, cioè non avere quel patrimonio di conoscenze che permette di sapere che cosa è il bene e di distinguere perciò fra bene e male, la colpa del male è sicuramente di chi lo commette (la responsabilità è individuale), ma è anche del sistema sociale (lo Stato e la scuola, il sistema mediatico, anche la Chiesa nel suo ambito) quando non garantisce a tutti la conoscenza del bene; non fornisce cioè i mezzi e i modi perché tutti acquisiscano quelle conoscenze che permettono di distinguere il bene dal male.
Un recente caso istruttivo, la tragedia di Oslo. Primo. Breivik è convinto di avere fatto una cosa giusta. Se vogliamo arrivare al limite del paradosso, si può dire che è in buona fede. Forse è malato di mente, ma questo non cambia molto le cose. Sempre paradossalmente, tutti coloro che commettono il male sono in certo modo, anche se non clinicamente, malati di mente. Secondo. Nel codice penale norvegese non esiste l’ergastolo, cioè la pena a vita che esclude una possibile redenzione, e nelle carceri ci sono libri, Internet e dvd, cioè l’offerta di una opportunità di acquisizione di conoscenze che è mancata al detenuto nella sua vita. Giusto; per il colpevole non c’è una punizione del male senza possibilità di riscatto, ma un’offerta di redenzione; e redenzione questo vuol dire per il colpevole: apprendere quello che non sapeva, cioè sapere di più.