I telegiornali del servizio pubblico, come farli?

Lettera pubblicata nel 2006 sul sito di “Articolo 21 liberi di”


Cari  amici,

   si parla tanto di televisione di qualità. Io ho un sogno: che i telegiornali siano dei telegiornali; che, cioè, i telegiornali non siano strumenti di propaganda politica ma organi di informazione corretta, imparziale, utile per la nostra vita di ogni giorno; insomma che l’informazione del Servizio pubblico Rai (almeno quella) sia un’informazione di servizio pubblico.

   Il problema non è di difficile soluzione. Cominciamo dalla responsabilità del Servizio pubblico. Un’indagine del Censis (“Italiani e media”) ci dice che il 43.9 per cento degli italiani non legge nessun quotidiano e che del restante 56.1 per cento il 43.2 legge un quotidiano da tre a sette volte la settimana e il 12.9 soltanto una o due volte. Tutti gli italiani (98.5 per cento) guardano invece la televisione; e il telegiornale è – subito dopo i film (64.4 per cento) – il genere televisivo maggiormente preferito (55.1).

    E’ facile quindi una prima conclusione: i telegiornali  sono, per la maggior parte degli italiani, l’unico strumento di informazione.     

     Che tipo d’informazione? Nel giornalismo a stampa il tipo d’informazione è deciso dal direttore della testata, che deve conquistare o conservare una certa fetta di mercato (il suo mercato: nazionale o interregionale o locale; generale o settoriale); ma nel giornalismo televisivo il direttore del telegiornale deve soltanto cercare di capire e di interpretare la domanda di informazione che viene dal pubblico; e il pubblico è quello che è, e non cambia: è la società. A differenza, cioè, dei quotidiani a stampa, i cui lettori appartengono ovviamente soltanto ad alcune fasce socioculturali medio-alte, il pubblico delle televisione coincide con l’intera società, metà della quale – dicono i dati Istat – ha la licenza elementare come massimo titolo di studio.

     Ecco, allora, la seconda conclusione: chi stabilisce, o dovrebbe stabilire, il tipo dell’informazione televisiva è il pubblico e soltanto il pubblico. Il direttore di testata deve soltanto tener conto delle caratteristiche del proprio pubblico, accertare le sue esigenze informative e cercare di soddisfarle, sia per il linguaggio, sia per i contenuti.

      Primo, il linguaggio: linguaggio come comprensibilità e linguaggio come arricchimento culturale. La comprensibilità di un testo è affidata  alla semplicità e alla sobrietà del linguaggio; e un testo semplice e sobrio, ma concettualmente ricco accresce il patrimonio culturale di chi ascolta: sul piano grammaticale e lessicale, e sul piano conoscitivo. Così si impara la storia, la geografia, la scienza, anche la politica. Lo stesso vale per l’uso e la corretta pronunzia della lingua italiana e dei nomi propri stranieri. E’ in questo modo che – al di là della sua funzione istituzionale – l’informazione giornalistica assume anche un compito di carattere sociale: di contribuire alla crescita culturale della società.

      Dopo il linguaggio, i contenuti. Che cosa è la notizia? Notizie sono quelle informazioni del giorno che rispondono soprattutto ai bisogni informativi dei cittadini; sono le informazioni concrete (lavoro, salute, scuola, cultura, risparmio, servizi sociali; così dicono i sondaggi), utilizzabili in ragione degli interessi vitali degli individui: per esercitare meglio le proprie responsabilità di lavoro, per risolvere i problemi personali e familiari, per migliorare la qualità della vita; anche – perché no? – per soddisfare le nostre curiosità. Notizia è tutto ciò che accresce le nostre conoscenze e ci aiuta ad amministrare meglio la nostra vita.

     Ovviamente, anche gli eventi di cronaca, i piccoli e grossi avvenimenti che, in una società sempre più globalizzata, possono coinvolgerci, vicini o lontani, in una maniera o in un’altra: la guerra o il terrorismo, la polmonite atipica o il disastro ferroviario;  anche l’incidente stradale, se fornisce informazioni o suggerisce comportamenti; anche il fatto di cronaca nera, se stimola riflessioni; e – perché no? – anche la cronaca scabrosa, se ritenuta opportuna e necessaria come ammonimento o avvertimento (ma da trattare con garbo e avvedutezza, specie nelle cosiddette fasce orarie protette).

      Conclusione numero tre: un telegiornale deve dare, con un linguaggio comprensibile, tutte le informazioni che accrescono le nostre conoscenze e ci aiutano ad amministrare meglio la nostra giornata e a rendere più liberi i nostri giudizi; senza drammatizzazione dei fatti e senza sottomissione a fattori extragiornalistici, quali i condizionamenti dei soggetti politici ed economici che costituiscono il sistema di potere. Per esempio, i bla bla di certi politici. 

    Parliamo allora della politica. Un raffronto con i telegiornali stranieri denunzia una sconcertante caratteristica italiana: da alcuni anni i nostri telegiornali danno molto più spazio che nel passato alla politica interna; e questo spazio è coperto non solo dall’informazione politica della giornata, ma anche dai commenti e dalle interpretazioni dei politici. Il telegiornale non è quindi soltanto, come dovrebbe essere, un organo di informazione giornalistica; con la passata maggioranza di governo si è fatto strumento permanente di propaganda politica – più o meno squilibrata – a uso e consumo delle varie formazioni politiche, soprattutto di quelle in carica. Nessun telegiornale straniero aggiunge alle informazioni politiche le polemiche dei partiti fra di loro. Raramente, infatti, quelle polemiche sono notizia.

   Si aggiunga la manipolazione dell’informazione politica: con l’omissione del fatto o degli elementi più caratterizzanti del fatto; con la brevità del testo, e quindi con una difficile comprensibilità di esso; con l’oscurità del linguaggio; e anche collocando le notizie sgradite dopo altre gradite. Le tecniche in atto sono state tante, e tutte hanno rinnegato l’unica tecnica di un giornalismo serio e responsabile: la tecnica di stabilire gerarchia e dimensione delle notizie soltanto in base all’importanza del fatto raccontato dalla notizia, un’importanza da valutare unicamente in rapporto agli interessi e ai bisogni informativi dei telespettatori.

      In una situazione anomala come quella italiana, dove la maggioranza di governo possedeva l’emittenza privata e controllava l’emittenza pubblica, il codice della “par condicio”, culturalmente discutibile come tale (non si può misurare l’imparzialità dell’informazione col pallottoliere e col cronometro), è stato proposto come espediente per evitare il peggio. Durante la campagna elettorale si è dimostrato che il codice non era sufficiente e che il peggio veniva evitato solo in parte.

    Quarta conclusione: l’imparzialità dell’informazione politica non si garantisce con codici, norme e regolamenti; è affidata alla coscienza professionale del direttore di testata, che non per nulla in Italia è chiamato “responsabile” e i cui poteri sono garantiti dall’articolo 6 del contratto nazionale di lavoro (“è competenza specifica ed esclusiva del direttore fissare le direttive politiche e tecnico-professionali del lavoro redazionale”). I giornalisti redattori possono fare poco o niente se il loro direttore ritiene che lealtà e buona fede significano per lui soltanto obbedienza a chi lo ha nominato o fatto nominare sulla base di una consensualità di idee, di opinioni e di interessi, politici e no.

    Qualcosa di più di semplici e magari nobili raccomandazioni è stato il messaggio inviato alle Camere dal presidente Ciampi il 23 luglio del 2002. Nei cinque anni di presidenza, dal maggio 1999, questo è stato il suo unico messaggio alle Camere. “La garanzia del pluralismo e dell’imparzialità dell’informazione” cominciava il messaggio “costituisce strumento essenziale per la realizzazione di una democrazia compiuta”. E’ questo un tema che investe “l’intero sistema” dei mezzi di comunicazione, dai giornali alle tv, e che richiede “attenta riflessione”. Nel grande processo di trasformazione in corso “il pluralismo e l’imparzialità dell’informazione non potranno essere conseguenza automatica” dell’evoluzione tecnologica – continuava il messaggio – ed è perciò necessaria l’emanazione di una “legge di sistema”, che regoli “l’intera materia delle comunicazioni, delle radiotelediffusioni, dell’editoria di giornali e periodici e dei rapporti tra questi mezzi” e che tenga conto  del “ruolo centrale del Servizio pubblico”. Si può sperare che l’invito, fino ad oggi disatteso, venga accolto finalmente?

  Ma c’è un altro problema, forse il più scottante. Negli ultimi anni Ottanta (governi Dc-Psi) si ritenne di assicurare l’imparzialità o, per lo meno, il pluralismo dell’informazione televisiva assegnando un telegiornale Rai alla Democrazia cristiana, uno al Partito socialista e uno al Partito comunista: la lottizzazione come garanzia di una corretta informazione. Invece di un 10+10=20 eguale per tutti, un 10+10=18, un 10+10=19, un 10+10=21; così tutti contenti.

     Fu una decisione culturalmente indifendibile, ma non scandalosa come l’occupazione dei telegiornali fatta dalla maggioranza di centrodestra. Auguriamoci che l’attuale maggioranza, sperabilmente più rispettosa dell’articolo 21 della Costituzione, si ricordi che l’informazione Rai è un servizio pubblico, per il quale servono non tanto codici o compromessi, quanto giornalisti (ce ne sono tanti) provvisti di coscienza professionale, consapevoli della responsabilità che pesa sulle loro spalle e anche, come più volte ha ammonito Carlo Azelio Ciampi, provvisti di schiena diritta.