Giorgio La Pira: l’uomo dei sogni che si avverano
Un avventuroso viaggio ad Hanoi. La guerra del Vietnam poteva finire otto anni prima con un milione di morti in meno. Le officine Galileo a Firenze: la prima occupazione di fabbrica. La «giusta causa» e le regole di una società capitalistica. Una polemica con Ernesto Rossi sul Mondo di Pannunzio.

   Giorgio La Pira parti da Firenze il 20 ottobre del 1965. In tasca aveva qualche migliaio di lire e un visto per Varsavia; in una valigetta qualche indu­mento e la riproduzione di una Madonna di Giotto. Meta del viaggio: Hanoi; speranza: di incontrarsi con Ho Chi Minh; scopo: far finire la spaventosa guerra del Vietnam. Con lui c’era un giovane docente di matematica all’uni­versità, Mario Primicerio, oggi (1997; dal 1994) sindaco di Firenze, come La Pira lo era stato nel 1951 e nel 1961.

   A Varsavia, dove La Pira arrivò in aereo da Roma, l’ambasciatore d’Italia era Enrico Aillaud. Nel 1958 Aillaud era stato capogabinetto di Amintore Fanfani ministro degli esteri (e presidente del consiglio) e Fanfani era ora presidente dell’assemblea delle Nazioni Unite a New York. La Pira rimase dieci giorni a Varsavia: il tempo necessario perché l’ambasciatore Aillaud riuscisse ad avere dall’ambasciata del Vietnam del nord, superando la sorpre­sa dell’ambasciatore, il visto per Hanoi.

   Da Varsavia a Mosca, da Mosca a Irkutsk in Siberia con un aereo della so­vietica Aeroflot; da qui a Pechino con un aereo delle linee cinesi e con un al­tro aereo cinese da Pechino ad Hanoi. All’aeroporto di Hanoi La Pira fu ri­cevuto da bambini con mazzi di fiori e da funzionari che lo accompagnarono in città. Per qualche giorno non successe niente e l’unica attività di La Pira fu di andare a messa nella chiesa di San Pietro; di messe ce n’era una sola, alle cinque e mezzo del mattino.

   Un giorno, finalmente, La Pira fu avvertito che sarebbe stato ricevuto dal primo ministro nel palazzo presidenziale. Pham Van Dong l’aspettava in ci­ma alla scalinata d’ingresso; lo salutò, lo introdusse in un sala e qui, a un cer­to momento, entrò Ho Chi Minh. «Buon giorno, La Pira» disse Ho, e lo ab­bracciò. Era 1’8 novembre 1965.

   Il Vietnam era in guerra dal 1940; prima contro i giapponesi, che l’aveva­no invaso; poi, dal 1946, contro i francesi, che avevano rioccupato la loro vecchia colonia, l’Indocina. Nel 1954 le truppe francesi furono sconfitte a Dien Bien Phu e una delle tante conferenze di Ginevra riconobbe la divisio­ne del Vietnam: a nord una repubblica (comunista) guidata da Ho Chi Minh, capitale Hanoi; a sud, capitale Saigon, una monarchia filoccidentale, subito trasformata in una repubblica presidenziale e poi in una dittatura appoggiata dagli Stati Uniti. La riunificazione del Nord e del Sud sarebbe dovuta avve­nire ‑ diceva l’accordo ‑ dopo le elezioni in programma per il 1956.

   Negli anni successivi il Nord, anche su pressione di Pechino, capì che la riunificazione col Sud, divenuto un paese prospero grazie all’aiuto economi­co americano, non poteva avvenire che attraverso una lotta armata. Con le sue montagne coperte da una giungla fitta e piena di pericoli, tra nebbie e piogge, il paese era il terreno ideale per reparti di guerriglieri.

   Nel 1957 i vietcong, cioè i guerriglieri comunisti appoggiati dal Vietnam del nord, cominciarono ad attaccare l’esercito regolare del Vietnam del sud. In aiuto del governo di Saigon gli americani prima mandarono «consiglieri» e aiuti militari, poi reparti di truppe, carri armati, elicotteri e bombardieri: novemila ufficiali e soldati nel 1962, 15 mila nel 1963, 16 mila nel 1964, 60 mila nel 1965; sarebbero diventati 539 mila nel 1969.

   Era una guerra vera e propria, ma una guerra che non seguiva gli schemi tradizionali; era una guerra di tipo nuovo, che si svolgeva dovunque, nelle città e nei villaggi, nelle strade e nelle foreste, nel fango dei campi e nell’ac­qua degli acquitrini. La potenza militare degli Stati Uniti si trovò inadatta a contrastare una guerriglia senza fronti e spesso senza uniformi, dove i nemici erano invisibili e potevano essere tutti, uomini, donne e ragazzi, armati di ar­mi leggere, le più moderne e sofisticate, fornite ai vietcong dalla Cina, dal­l’Urss e dagli altri paesi socialisti. E ogni giorno che passava, la guerra si in­canagliva, da una parte e dall’altra, entrambe accomunate dalla violenza bru­tale e dall’orrore.

   Il colloquio fra Giorgio La Pira e Ho Chi Minh durò tre ore. Nella lin­gua locale Ho Chi Minh significa «colui che illumina»; aveva allora 75 anni e una vita spesa per fare del Vietnam una nazione unita e libera. Era vissuto brevemente negli Stati Uniti e poi per molti anni a Parigi; dal 1946 aveva guidato la guerra contro la Francia e ora guidava la lotta per l’unificazione del paese, contro il governo di Saigon e le forze armate americane.

   Giorgio La Pira pose subito il problema delle condizioni pregiudiziali per arrivare a un negoziato tra il governo di Hanoi e il governo americano. Ho Chi Minh espose quattro condizioni: che gli Stati Uniti 1) interrompes­sero i bombardamenti sul Vietnam del nord; 2) cessassero di introdurre trup­pe e materiale bellico nel Vietnam del sud; 3) riconoscessero come interlocu­tore il Fronte di liberazione del Vietnam del sud; 4) fossero disposti al ritor­no alla sostanza degli accordi di Ginevra del 1954 cioè l’unificazione del pae­se attraverso una consultazione elettorale (che i vietnamiti cominciavano a pensare di vincere e gli americani cominciavano a pensare di perdere).

   C’era un’altra condizione: che tutto questo (di cui Pechino e Mosca non erano stati informati) rimanesse riservato.

   La Pira tornò a Roma il 15 novembre (sembra che il biglietto aereo per il viaggio di ritorno glielo offrisse Ho Chi Minh, visto che a lui non era rima­sto neppure un soldo) e tre giorni dopo Mario Primicerio partì per New York, dove illustrò ad Amintore Fanfani, presidente dell’assemblea dell’O­nu, i risultati del colloquio. Fanfani si incontrò subito con l’ambasciatore a­mericano alle Nazioni Unite, Goldberg, e gli consegnò una lettera per il pre­sidente degli Stati Uniti, Lyndon Johnson.

   Il 6 dicembre il segretario di Stato americano Dean Rusk scrisse a Fanfani che la quarta condizione posta da Hanoi non poteva essere accettata e Fanfa­ni inviò subito una lettera a Ho Chi Minh per un ultimo tentativo. Il 15 di­cembre l’aviazione americana riprese i bombardamenti sul Vietnam del nord; era il rigetto della prima condizione. Il 17 dicembre un quotidiano del Mis­souri, il Saint Louis Post and Dispatch, rese di pubblico dominio l’intero af­fare; era il rigetto della richiesta di Ho Chi Minh della segretezza dell’opera­zione, necessaria per procedere senza l’assenso di Pechino e di Mosca.

   Chi aveva fatto la «soffiata» a quel poco noto giornale di Saint Louis? E­videntemente al Pentagono e al Dipartimento di Stato era prevalsa la tesi di una soluzione non politica ma militare del conflitto; erano convinti che con la loro potenza tecnologica gli Stati Uniti non potevano non vincere.

   La guerra, invece, durò ancora otto anni e gli Stati Uniti furono sconfitti. L’accordo, firmato a Parigi il 2 marzo del 1973 dal segretario di Stato ameri­cano Henry Kissinger e dal rappresentante vietnamita Le Duc To, conteneva le stesse clausole concordate nel novembre del 1965 da Giorgio La Pira e Ho Chi Minh.

   In quegli otto anni, secondo calcoli americani, il numero dei civili morti o feriti nel Vietnam era stato di un milione 350 mila. Dal gennaio 1961 al 6 gennaio 1973 gli Stati Uniti ebbero 45.931 morti in combattimento, altri 10.296 morti per cause diverse, 303.605 feriti, 1.216 dispersi.

   Giorgio La Pira non era nuovo a queste sconfitte e non si consolava pen­sando che la storia prima o dopo gli avrebbe dato ragione; sapeva ‑ chi sa co­me ‑ che alla fine le cose sarebbero andate così come era giusto che andassero.

   Tanti anni prima, un giorno del febbraio 1951 ‑ la guerra in Corea si sta­va sempre di più infiammando ‑ La Pira capitò al giornale fiorentino dove lavoravo e mi chiese quali erano le ultime notizie. Nel giugno dell’anno pre­cedente truppe nordcoreane avevano attraversato il 38° parallelo, che era il confine fra il Nord comunista e il Sud filoccidentale, e il Consiglio di sicu­rezza dell’Onu aveva chiesto ai paesi membri di fornire assistenza al gover­no di Seul; gli Stati Uniti erano subito intervenuti, ma, dopo alterne vicende, il 4 gennaio le truppe nordcoreane affiancate da reparti cinesi avevano occu­pato la capitale sudcoreana.

   «Le cose vanno male, professore» risposi; «la guerra non è fra Nord e Sud Corea, ma fra gli Stati Uniti e la Cina; e le truppe del Nord stanno invadendo il Sud». Conclusi con una tipica espressione popolare che si usa a Firenze quan­do tutto va a scatafascio: «Qui, professore, si rischia di finire a seggiolate».

   «Non c’è da preoccuparsi» disse La Pira; «tutto andrà bene. Io lo vedo già il capo del Cremlino che si incontra alla Casa Bianca col presidente degli Stati Uniti».

   C’era qualcun altro con me e tutti lo guardammo sbalorditi e tutti pen­sammo «Ma non sarà davvero un po’ matto il nostro amico professore?». Di quelle parole ci ricordammo non tanto cinque mesi dopo, l’8 luglio, quando, inopinatamente, fu firmata la tregua in Corea e neppure due anni più tardi quando fu firmato l’armistizio; ce ne ricordammo soprattutto quando, il 15 settembre del 1959, Nikita Kruscev, primo ministro dell’Unione Sovietica, si incontrò a Washington col presidente degli Stati Uniti Dwight Eisenhower.

   La sera, al pranzo ufficiale alla Casa Bianca (tutti in frac, salvo Kruscev, in abito blu scuro, camicia bianca e cravatta grigio chiara) si racconta che il capo del Cremlino apprezzasse molto il primo piatto del menù, un piatto ti­picamente italiano: prosciutto e melone.

   Nel suo sogno meraviglioso di pace e di comunione fra i popoli era un caso ‑ un caso, anche questa volta ‑ che La Pira vivesse a Firenze? A Firenze era arrivato, prima della guerra, da Pozzallo, un paese in provincia di Ragu­sa, forse il comune più meridionale d’Italia; oltre Pozzallo c’è il mare e poi l’Africa. In Firenze, nei suoi monumenti, nei suoi tesori di arte e nelle sue tradizioni letterarie, La Pira sentiva ancora lo spirito dell’Umanesimo e del Rinascimento, il senso di una civiltà culturale che si era estesa a tutta 1’Europa nel segno di un ritorno all’uomo come principale misura del sapere. Non poteva essere, Firenze, la nuova Gerusalemme?

   Nel 1942, in gruppo con Giuseppe Lazzati, Giuseppe Dossetti e Aminto­re Fanfani (i «professorini», li chiamavano), aveva aderito alla Democrazia cristiana, il nuovo partito fondato da Alcide De Gasperi sulle ceneri del vec­chio Partito popolare. Deputato all’assemblea costituente nel 1946 (è sua la frase della Carta costituzionale «L’Italia è una repubblica fondata sul lavo­ro») e poi alla Camera nel 1948 e nel 1958, fu eletto per la prima volta sinda­co di Firenze nel 1951.

   Firenze era una città «rossa», ma per un uomo che si aggirava nei vicoli dei quartieri più poveri dicendo che la «città di Dio» bisogna cominciare a costruirla su questa terra, votò anche una parte dell’elettorato comunista; an­che di più avrebbero votato per lui, se il Partito comunista non avesse furba­mente istruito le cellule: a qualcuno piace La Pira? nessun problema: la croce sul simbolo del Pci, la preferenza a La Pira. Furono migliaia i voti alla falce e martello e, insieme, le preferenze date a La Pira e annullate, secondo la norma, in sede di scrutinio.

   Eletto sindaco, una delle prime cose che fece fu di dare un grande ricevi­mento in Palazzo Vecchio, addirittura nel Salone dei Dugento, agli spazzini municipali e alle loro famiglie. «Firenze» disse «è la perla del mondo e io vi ho chiamato qui per ringraziarvi, perché questa perla voi la pulite tutte le mattine». Poi concluse il discorsino dicendo: «E ricordate che la bandiera di Firenze è una bandiera bianca con in mezzo un grande giglio rosso; e sopra c’è scritto pane, amore e fantasia».

   Pane, amore e fantasia era il titolo di un recente film di Vittorio De Sica, ma niente poteva esprimere meglio la politica di La Pira: pane (e perciò lavo­ro, e giusta retribuzione), amore (ossia carità cristiana, fratellanza, solida­rietà) e fantasia, tanta fantasia.

   Era la fantasia che suggeriva a Giorgio La Pira iniziative non troppo per­tinenti all’amministrazione di una grande città. L’opposizione (più di destra che di sinistra) gli rimproverava di non preoccuparsi troppo della fognatura cittadina, ma lui rispondeva che c’erano questioni ben più importanti per u­na città destinata ad essere un centro vitale per la comunione di tutti i popoli; lo scrisse anche in una lettera inviata ai bambini della città e in un’altra indi­rizzata ai nonni.

   Nell’ottobre del 1955 un convegno internazionale di sindaci trovò di fronte (si era in piena guerra fredda) il sindaco di Mosca e il vicesindaco di Washington. Nel 1958 uno degli annuali Colloqui mediterranei vide per la prima volta di fronte israeliani e palestinesi e, per la prima volta, francesi e algerini, a quattro anni dai colloqui di Evian del 1962, risolutivi per l’indi­pendenza dell’Algeria. L’incontro fu presieduto dal principe ereditario del Marocco, presenti il presidente della repubblica italiana Giovanni Gronchi e il ministro degli esteri Fanfani.

   In quello stesso anno il sindaco La Pira dovette occuparsi anche di una vi­cenda che toccava da vicino la città. Anche qui fu un caso che quella vicenda apparisse emblematica di un modo tradizionale di concepire l’occupazione e il libero mercato e diventasse perciò un argomento non solo di polemica poli­tica ma anche di dibattito culturale? Tema: i limiti di un società capitalistica.

   Nel novembre del 1958 la Sade (la stessa società che nel 1963 sarebbe sta­ta coinvolta nel disastro del Vajont: 1989 morti) licenziò 980 operai delle of­ficine Galileo. Motivo? La produzione non aveva più mercato. Certo che non l’aveva: era una produzione di guerra e la guerra era finita da parecchi anni, senza che la dirigenza avesse studiato qualche modo di riconversione; e l’avvio alla chiusura della Galileo rientrava in una strategia generale di un’impresa impegnata soprattutto nella produzione di energia elettrica.

   Nei contratti di lavoro non esisteva ancora il principio della «giusta causa» (proprio dalla vertenza fiorentina della Galileo le organizzazioni sindacali a­vrebbero tratto spunto per questa rivendicazione) e, prima ancora che i sinda­cati prendessero posizione, il sindaco La Pira mandò subito un telegramma al presidente del consiglio, che ‑ si dà il caso ‑ era Amintore Fanfani. Non si può dire che il testo fosse protocollare; diceva fra l’altro: «In una società vera­mente libera atti come quelli compiuti dalla Sade dovrebbero essere puniti in un solo modo e cioè mettendo i licenziatori al posto dei licenziati».

   Per lo meno inusuale era anche il messaggio dell’arcivescovo di Firenze, il novantenne cardinale Elia della Costa: «Come non scegliere» diceva «la par­te di coloro che sono nell’angustia per l’incertezza del loro avvenire? Ci ri­volgiamo ai dirigenti industriali ed economici perché vogliano riconoscere ed osservare le proprie obbligazioni sociali nella trattazione dei loro affari». Diceva proprio così: «obbligazioni sociali» dei dirigenti industriali.

   Il 9 gennaio del 1959 alcune centinaia di operai della Galileo, dopo un’as­semblea indetta dalle commissioni interne, rimasero all’interno. Era la prima volta che in Italia veniva occupata un fabbrica. La Pira mandò agli occupanti un messaggio di solidarietà: «Non sentitevi soli, ma sorretti dall’affetto e dalla pre­ghiera di moltissimi». Sorretti «dalla preghiera», dunque, ma anche dai materas­si, portati in fabbrica da organizzazioni cattoliche e anche dalla Poa, la Ponti­ficia opera di assistenza, perché gli occupanti non dormissero sulla nuda terra.

   La domenica successiva il parroco della zona andò nella fabbrica occupa­ta per celebrare la messa. Ci andò anche il sindaco La Pira. Contro questo atto ritenuto inammissibile un gruppo di deputati presentò alla Camera un’interpellanza al presidente del consiglio. Fanfani rispose che non era nei suoi poteri impedire a un sindaco di ascoltare la messa dove meglio riteneva.

   La vertenza si chiuse in febbraio con la vittoria degli operai. Invece di 980 i licenziati furono soltanto 64, confortati da una speciale liquidazione extra­contrattuale. Di lì a qualche mese le officine Galileo furono cedute dalla Sade al’Eni di Enrico Mattei; avrebbero fabbricato le bombole per il gas metano ad uso casalingo, la grande rivoluzione domestica che in quei tempi stava af­francando milioni di donne di casa. Anche questo fu un effetto positivo della vertenza fiorentina.

   La conseguenza più importante fu però il largo dibattito che sulla stampa affrontò il tema dei limiti di una società capitalistica. Sul Mondo di Mario Pannunzio Ernesto Rossi attaccò con violenza il sindaco La Pira; si capiva sùbito dal titolo: «Il diavolo dietro la croce» (nientemeno: Giorgio La Pira portavoce del Maligno). In un paese di libero mercato ‑ diceva Ernesto Rossi ‑ è giusto che un’impresa i cui prodotti non trovano più accoglienza riduca la sua produzione e licenzi gli operai esuberanti; sarà il libero mercato del la­voro ad assorbire in altre imprese quei disoccupati.

   Sulle stesse pagine del Mondo gli risposi io: una cosa è l’azienda costretta a chiudere perché non riesce più a coprire la differenza fra i costi e i ricavi a causa di un improvviso mutamento del mercato; un’altra cosa è l’azienda che chiude, o riduce il personale, unicamente per il malgoverno dei suoi proprie­tari e per l’incompetenza dei suoi dirigenti. Una cosa è sostenere che il bloc­co dei licenziamenti significherebbe la rinunzia al progresso economico e la burocratizzazione dell’industria; un’altra cosa è ammettere che cento o due­cento operai debbano scontare col licenziamento le malefatte dell’ammini­strazione della fabbrica.

   La libertà del mercato significa anche il diritto dell’imprenditore di com­mettere errori senza doverne pagare le conseguenze? perché i dirigenti della Galileo non avevano pensato per tempo a riconvertire o a diversificare la produzione per conquistare fette nuove e diverse di consumatori? e in un grosso gruppo imprenditoriale si possono ammettere strategie che non ten­gano conto minimamente di una forza lavoro che è fatta non di ingranaggi ma di persone? Insomma si può ammettere una società capitalistica senza un minimo di regole?

   Naturalmente Ernesto Rossi replicò (quasi quattro colonne di testo) e mi bacchettò bene bene. Il buffo era che tutti e due avevamo la stessa estrazione liberale. Parecchi anni dopo lo incontrai nella sua casa al Terminillo. «Profes­sore» dissi (non era professore, non era niente, era solo un grande maestro di democrazia); «Professore» dissi; «ma aveva proprio torto il sindaco La Pi­ra?». «Sono problemi difficili, sono problemi difficili» rispose. Mi bastò.

   In un anniversario della morte di La Pira fui invitato a parlare all’Istituto De Gasperi alla Camilluccia: com’è che un giovane come me, che si definiva storicista postcrociano e postmarxiano, aveva lavorato con La Pira e votato per lui? Benedetto Croce ‑ dissi ‑ ci ha insegnato che il liberalismo è una concezione etico‑politica, un criterio di valutazione dei fatti caso per caso, e che caso per caso ci suggerisce di scegliere la soluzione che garantisca la maggiore libertà dell’individuo e la maggiore libertà di tutti; e la soluzione può essere in un caso di tipo liberista e in un altro caso di tipo opposto (don Benedetto aveva usato addirittura l’espressione «di tipo collettivistico»; io non arrivavo a tanto).

   L’economia ‑ aggiungeva Benedetto Croce ‑ non ci offre che suggeri­menti tecnici, schemi di previsione circa le probabili conseguenze di certi comportamenti e non è quindi mai in condizione di indicare il fine ultimo dell’azione, designabile soltanto dalla coscienza morale. «Questo sosteneva il suo maestro?» mi chiedeva La Pira; e concludeva in maniera più sbrigativa: «Insomma la soluzione giusta è quella giusta; e che c’importa se è di destra o di sinistra, e se ora è di destra e ora di sinistra».

   Erano gli anni Cinquanta, quaranta anni prima del dibattito che si è aper­to per qualche tempo sui concetti di destra e di sinistra. È bene produrre ric­chezza senza preoccuparsi di lasciare qualche morto lungo la strada, convinti che poi parte di quella ricchezza ricadrà su tutti; oppure è più giusto proce­dere con gradualità, contemperando le esigenze del profitto con quelle di chi contribuisce a crearlo?

   Destra e sinistra erano due parole che La Pira detestava. A1 massimo, ma con fatica, accettava il senso che alla «sinistra» ha dato di recente Norberto Bobbio. Sinistra può significare solo questo: stare dalla parte dei più deboli, dalla parte di chi ha più bisogno di aiuto.

   Giorgio La Pira morì a Firenze il 10 novembre 1977, a settantatré anni. Da parecchio tempo viveva in una clinica di via Venezia, affidato alle cure di alcune vecchie suore. La piccola stanza (all’ultimo piano; dalla finestra si ve­deva il duomo di Santa Maria del Fiore e la bella cupola del Brunelleschi) era piena di libri e di giornali. Sull’unico tavolo una fotografia di papa Giovanni, la Bibbia e tante lettere e telegrammi; avevano firme illustri: De Gaulle, Ken­nedy, Kruscev, il segretario generale dell’Onu U Thant, e tutti gli altri capi di Stato a cui aveva scritto citando il Vecchio e il Nuovo Testamento.

   Una sua lettera diceva: «I teoremi sono due: in un versante c’è la distru­zione della Terra e dell’intera famiglia dei popoli, il suicidio planetario. Nel l’altro versante c’è la millenaria fioritura della Terra e dell’intera umanità che la abita. Fioritura carica di pace, di civiltà, di fraternità e di bellezza, la fiori­tura messianica dei mille anni intravista da Isaia, da Ezechiele e da san Gio­vanni. I popoli di tutta la Terra e le loro guide politiche e culturali sono oggi chiamati a fare questa suprema e irrecusabile scelta. Tertium non datur».

   Un giorno del giugno 1956 nelle mani di La Pira era arrivato un lungo documento in francese. Glielo aveva portato personalmente Andrei Bogo­molov, già ambasciatore dell’Urss a Roma e ora a Parigi. Era il testo inte­grale del rapporto di Nikita Kruscev al ventesimo congresso del Partito co­munista sovietico, svoltosi a porte chiuse a Mosca nel mese di febbraio; un testo a prima vista incredibile: il segretario del Pcus accusava Stalin dei peggiori delitti e definiva il suo regime un delirio di sospetto, di paure e di terrore. Kruscev aveva voluto che Giorgio La Pira fosse uno dei primi in Occidente a conoscere la fine dello stalinismo.

   Chi era Giorgio La Pira? un «candido», un «ingenuo»? un «utopista» da rispettare, ma da mettere da parte? un «profeta disarmato», anche un po’ matto, come sono spesso i profeti disarmati?

   Giorgio La Pira non aveva avuto molti amici, né nel mondo politico né, soprattutto, in quello economico; neppure nella Chiesa, neppure nel suo partito, salvo, con frequente esercizio di pazienza, Amintore Fanfani e Enri­co Mattei presidente dell’Eni. Non aveva mai avuto amica la stampa, che quasi tutta ne ignorava le iniziative e spesso lo chiamava, a volte irridendolo, il «giullare di Dio».

   Al termine della sua vita intensa e tormentata, qualcuno ne riconobbe la fi­gura, forte, intensa, scomoda. Fu Pietro Ingrao, che, come presidente della Ca­mera, ricordò in aula il parlamentare appena morto. Giorgio La Pira, disse, non era un candido né un ingenuo, ma un politico più politico di tanti altri, un uomo direttamente e radicalmente immerso nella politica, ma una politica in­tesa non come una macchina di potere, bensì come creatività, come costruzio­ne di una nuova gerarchia di valori, come lettura dei segni misteriosi dei tempi.

   Subito dopo la morte di La Pira l’Ansa trasmise un servizio che, sulla base di testimonianze dirette (Mario Primicerio), ricostruiva il viaggio di La Pira ad Hanoi, il suo incontro con Ho Chi Minh e tutta la vicenda che, in un momento di gravi tensioni internazionali, si inseriva, in maniera atipica ma importante, nella storia di quegli anni.

   Il servizio dell’Ansa fu ripreso dalle grandi agenzie internazionali, la Reuter, la France Presse e l’Associated Press. Il New York Times ne pubblicò un estratto e anche Le Monde a Parigi con un titolo su due colonne.

Sui giornali italiani neppure una riga.