Firenze 1943-1947

Dalla fine del fascismo all’avvento della repubblica. Cinque anni di storia italiana visti dalla redazione della “Nazione del popolo”, organo del Comitato toscano di liberazione nazionale, e del quotidiano “Giornale del mattino” di Firenze

 


1943 – La monarchia rompe col fascismo

   Il 25 luglio, domenica, il giornale radio delle 22.45 comincia con otto minuti di ritardo e trasmette questo comunicato ufficiale: “Sua Maestà il re e imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di capo del governo presentate da Sua Eccellenza il cavaliere Benito Mussolini ed ha nominato capo del governo Sua Eccellenza il cavaliere maresciallo d’Italia Pietro Badoglio”. Il comunicato è stato trasmesso alle 22.15 alla radio di stato (Eiar) e diramato  ai giornali dall’agenzia di stampa Stefani, l’agenzia ufficiale del regime fascista. Al suo direttore, Roberto Suster, il comunicato è stato consegnato  personalmente poco prima delle 22 da un alto funzionario del Quirinale, il professore Vittorio Casorati. E’ un testo che non dice tutta la verità: Mussolini non ha presentato le dimissioni; alle 18 è stato arrestato a villa Savoia, subito dopo un colloquio col re, e in autoambulanza è stato trasportato dai carabinieri in una caserma di via Legnano. Il fascismo è finito e la monarchia si è fatta autrice di un colpo di stato, in concomitanza con la crisi esplosa al vertice del partito fascista con la riunione del Gran Consiglio del fascismo, che si è svolta dalle 17 del 24 alle 4 del mattino del 25 a Palazzo Venezia; 19 membri su 28 partecipanti alla riunione hanno votato contro Mussolini. Sedici giorni prima, il 9, reparti americani al comando del generale George Patton sono sbarcati in Sicilia fra Gela e Licata e reparti inglesi al comando del generale  Montgomery sulla costa fra Capo Passero (Ragusa) e Siracusa. Il 22 è stata occupata Palermo. Scarsa la resistenza delle truppe italiane e calorosa l’accoglienza della popolazione. Il 19 Roma è stata bombardata per la prima volta da aerei alleati; devastati gli impianti ferroviari e il popolare quartiere di San Lorenzo; 1500 morti e migliaia di feriti. Papa Pio XII è accorso sul luogo del bombardamento; non Mussolini, non ancora rientrato da Feltre, dove si è incontrato con Hitler per un esame della drammatica situazione generale. La mattina del 26 luglio, lunedì, i giornali, cancellando in un momento anni e anni di fascistissima ufficialità, pubblicano con grandi titoli il comunicato del Quirinale: le “dimissioni di Mussolini”, “Badoglio a capo del governo” e quasi tutti “viva l’Italia”, “viva il re”. Ma, dopo venti anni di complicità col fascismo, la monarchia ha ancora possibilità di sopravvivere?  

1943 – L’armistizio dell’8 settembre. Una tragedia

La firma dell’armistizio, l’8 settembre del 1943, porta a un generale disastro a causa dell’insipienza, della paura, della viltà, dell’ipocrisia delle istituzioni (monarchia e governo)e degli alticomandi militari. Nella notte fra l’8 e il 9 Vittorio Emanuele III ha lasciato Roma; si è imbarcato a Ortona su una corvetta militare e si è rifugiato a Brindisi, dove stanno per arrivare le truppe alleate, che hanno già liberato la Sicilia e sono sbarcate in Calabria. Quella che è stata chiamata una “fuga” ha per lo meno il merito (probabilmente non previsto da chi in realtà si limitò a fuggire, senza obiettivi più nobili) di garantire una continuità istituzionale e di presentare un interlocutore alle autorità angloamericane in vista degli sviluppi futuri (entrata in guerra dell’Italia contro la Germania, costituzione di un Corpo militare italiano – il “Corpo italiano di liberazione” – che risalirà l’Italia accanto alle truppe alleate, possibile trattamento meno punitivo in sede di trattato di pace); ma col re sono scappati anche il capo del governo Badoglio, il principe ereditario Umberto e tanti generali, senza lasciare ordini chiari e precisi su come affrontare le situazioni che nascono dal ribaltamento delle alleanze.

In realtà a metà agosto lo Stato Maggiore dell’esercito ha diramato agli alti Comandi militari un ordine (chiamato “Memoria op 44”) in cui si danno disposizioni per modificare i piani di difesa, dal momento che il “nemico” non sono più le armate angloamericane, già sbarcate in Sicilia (luglio) o che possono sbarcare in altre zone (come poi sbarcheranno, a Salerno, il 3 settembre, e ad Anzio, il 22 gennaio 1944)), ma le divisioni tedesche di stanza in Italia. Fuggendo da Roma, il Comando Supremo (per un accordo con i tedeschi, come prezzo per permettere la fuga del re?) non ha dato l’ordine di applicare le disposizioni contenute nella Memoria, cioè di reagire alle azioni militari tedesche; ma l’applicazione di quelle disposizioni è implicita nella Memoria (che dice che l’applicazione delle disposizioni si deve effettuare “a seguito di ordine dello Stato Maggiore” oppure “di iniziativa dei comandanti in relazione alla situazione contingente”). Ricerche recenti hanno peraltro accertato che l’ordine di applicazione è stato diramato  dal Capo di stato maggiore dell’esercito, il generale Roatta, all’1.45 della notte fra l’8 e il 9 settembre. L’ordine non è stato però eseguito, salvo qualche caso sporadico, come, fra gli altri, a Roma (a Porta San Paolo), a Piombino, sull’Appennino toscoemiliano e a Cefalonia. Quasi tutti gli alti comandanti hanno ritenuto di dover scomparire.

Abbandonate a se stesse, le forze armate (salvo la Marina, che trasferisce quasi tutta la flotta a Malta e a Tunisi, salvo la corazzata Roma, che viene affondata a nord della Sardegna da una bomba radioguidata di un aereo tedesco) si sono dissolte; i soldati più fortunati, specie in Italia, hanno gettato via l’uniforme grigioverde e, con qualche straccio addosso e con mezzi di fortuna, hanno cercato di tornare nelle città e nei paesi di provenienza (“Tutti a casa” è la parola d’ordine e anche il titolo di un film con Alberto Sordi). Poi parecchi di loro andranno in montagna e costituiranno i primi reparti partigiani). Molti però, specie in Francia e nella penisola balcanica, vengono fatti prigionieri dai tedeschi (anche fucilati, dopo qualche scontro, come a Cefalonia) e trasportati nei campi di lavoro in Germania.

La guerra, che almeno nell’Italia centrale poteva terminare con la firma dell’armistizio, continua così per altri mesi: a giugno 1944 la liberazione di Roma, in agosto la liberazione di Firenze; con eventi terribili: il rastrellamento del ghetto ebraico di Roma, 16 ottobre 1943; l’eccidio delle Fosse Ardeatine, 23 marzo 1944; l’assassinio di Giovanni Gentile a Firenze, 15 aprile 1944; la fucilazione dei sette fratelli Cervi, 28 dicembre 1943; l’eccidio di Sant’Anna di Stazzema, 12 agosto 1944; l’eccidio di Marzabotto, 28 settembre 1944; e tanti altri episodi di violenza feroce, sia da parte tedesca sia da parte fascista, che spiegano, in seguito, molti casi di ritorsione e di vendetta.

1944 – Firenze insorge e si libera da sé 

La liberazione della città è cominciata alle 6.45 dell’11 agosto del 1944. E’ una mattina luminosa e nel silenzio della città (il coprifuoco termina alle 7) i rintocchi della Martinella (il campanone del medievale palazzo del Bargello) hanno dato il segnale dell’insurrezione. I soldati alleati (inglesi, americani, canadesi e indiani oltre a un reparto di paracadutisti italiani della divisione “Folgore”) sono arrivati il 4 sulla riva sud dell’Arno, ma lì si sono attestati. Un giorno prima, la sera tardi del 3, i ponti sono stati fatti saltare in aria dai tedeschi in ritirata: il primo è stato, alle 22, il ponte a Santa Trinita (il ponte dell’Ammannati, 1557-80, il ponte più bello del mondo), poi, di seguito, altri quattro; ne hanno risparmiato solo uno, il Ponte Vecchio, ma per impedirne il transito hanno distrutto con cariche di esplosivo gli antichi quartieri – case e torri del Trecento – ai due capi di esso. Dal 3 all’11 sono stati otto giorni di paura (i fiorentini li chiameranno l’”Emergenza”) con la gente chiusa in casa, senz’acqua, senza luce, senza viveri. Piovono bombe, si sentono spari e raffiche di mitragliatrice; passano camionette e carri armati. In città sono rimasti due reggimenti di paracadutisti tedeschi, un reparto antipartigiani e parecchie decine di cecchini fascisti. Nelle strade qualche donna esce guardinga e si azzarda a prendere acqua alle fontanelle; ogni tanto si vedono i Fratelli della Misericordia che trasportano morti e feriti sulle lettighe trascinate a mano o su carretti a due ruote. Ma in Prefettura e in Palazzo Vecchio già operano i dirigenti del Comitato di liberazione e qualcuno di loro, passando dalla Galleria degli Uffizi e dal Corridoio vasariano, è sceso sulle rovine del Ponte Vecchio per prendere contatto con gli alleati di là d’Arno.Poi, l’11, la libertà. La gente esce dalle case e i giovani dalle cantine. Ci si incontra, ci si abbraccia, si piange e si ride. Quando – dopo una settimana dai rintocchi della Martinella – le truppe alleate si decideranno ad attraversare l’Arno passando sulle macerie dei ponti e sulla pescaia di Santa Rosa, troveranno una città difesa dai reparti partigiani che combattono contro le ultime pattuglie tedesche e i franchi tiratori repubblichini soprattutto nei quartieri delle Cure e di Rifredi, lungo la via Bolognese e sulle pendici della collina di Fiesole. Di giorno e di notte la città è ancora sotto i colpi delle artiglierie leggere dei tedeschi (gli “88”), ma al suo arrivo a Palazzo Vecchio, il comandante in capo alleato (il brigadiere generale Edgar Hume) si accorgerà – con sorpresa e, almeno all’inizio, con un po’ di disappunto – che la città ha già un governo e che tutti i posti istituzionali sono  coperti ed operanti con le persone da tempo designate dal Ctln (dal  sindaco al questore, dal comandante dei carabinieri al presidente della Camera di commercio e così via) e con tutte le strutture amministrative in via di riorganizzazione. Firenze – primo caso nella guerra di liberazione in Italia – si è liberata da sé. Non senza sangue: i morti sono settecento, più di duemila i feriti. 

Nella divisione degli incarichi istituzionali della città il Partito comunista non ne ha chiesto nessuno, salvo la presidenza dell’Eca, l’Ente comunale di assistenza (posto che nel 1946 sarà attribuito a La Pira dall’amministrazione comunale comunista). Fra gli incarichi previsti manca quello di prefetto, che tutti i partiti ritengono sia da abolire con la proponibile eliminazione delle province, in vista di un auspicato decentramento statale e di quel possibile ordinamento regionale che è nei programmi di quasi tutte le forze politiche.

 Per paura dei proiettili che provengono dalle artiglierie piazzate sulle colline a nord della città, nelle abitazioni del centro chi ha la camera da letto esposta a nord e con le finestre sulla strada dorme sui materassi spostati nelle stanze interne. Nella loro traiettoria i proiettili fanno un fischio, che si sente soprattutto di notte ed è seguito dal rumore sordo dell’esplosione. Si sentono anche i fischi dei proiettili delle artiglierie alleate, ma è un fischio diverso, perché il proiettile parte da più vicino (a sud dell’Arno) ed esplode più lontano (a Monte Morello e oltre Fiesole, dove sono ancora i tedeschi). In città, durante la notte, chi non riesce a dormire rimane affacciato alla finestra e inventa una gara col vicino di casa: “Fischio in partenza?” (il proiettile degli alleati), “Fischio in arrivo?” (il proiettile dei tedeschi). L’esplosione, vicina o lontana, dà la vittoria all’uno o all’altro.     

1944-1945 – La “Nazione del popolo”: un quotidiano un po’ speciale 

La “Nazione del popolo” è il quotidiano che esce subito dopo la liberazione di Firenze. E’ l’organo del Comitato toscano di liberazione nazionale, espressione dei cinque partiti che hanno guidato la Resistenza a Firenze e nella regione (Partito liberale, Democrazia cristiana, Partito d’azione, Partito socialista, Partito comunista; manca il partito chiamato “democratico del lavoro”, che ha una presenza esclusivamente romana; a Roma infatti il Cln à fatto di sei partiti, e i critici lo chiamano l’”esarchia”).

Il giornale ha cinque direttori, uno per partito, e cinque vicedirettori supplenti; la redazione è composta da alcuni giornalisti di mezza età non implicati col fascismo e da giovani praticanti, scelti in maniera paritaria – cioè in egual numero – tra i vari partiti (il principio non è quello della lottizzazione, ma dell’unità nazionale che ha caratterizzato la Resistenza; oltretutto, in assenza di consultazioni elettorali, non si conosce la consistenza di ciascun partito; tutti eguali, quindi).

 I direttori sono: Vittore Branca (Dc), professore di storia della letteratura italiana all’università (e il maggiore studioso del Boccaccio a livello mondiale); sarà poi direttore per le arti e le lettere nell’Unesco a Parigi, poi segretario generale e quindi presidente della Fondazione Cini a Venezia; Carlo Levi (Pd’az.), pittore e scrittore (il suo libro più famoso: “Cristo si è fermato a Eboli”); Vittorio Santoli (Pli), professore di lingua e letteratura tedesca all’università; Alberto Albertoni (Psi), ispettore didattico, poi vicesindaco di Firenze; Luigi Sacconi (Pci), professore di chimica all’università (ha sostituito Bruno Sanguinetti). Due vicedirettori sono Giovanni Pieraccini e Sergio Lepri, poi passati redattori. Direttore amministrativo è Gastone Fattori, poi consigliere delegato dell’Ansa.Con le rotative riempite di sabbia dai tedeschi, lo stabilimento tipografico della “Nazione” (che ha cessato le pubblicazioni il 30 luglio appena venuta a mancare l’energia elettrica) è per il momento inutilizzabile. Il primo numero della “Nazione del popolo” viene stampato nella tipografia Ariani in via San Gallo su una macchina piana, fatta funzionare prima a mano e poi col motore di una vecchia Fiat Balilla. Ci sono tutti gli uomini che da tempo aspettano questo momento; ci sono Vittore Branca, Bruno Sanguineti, Alberto Albertoni (mancano solo Carlo Levi e Vittorio Santoli, che sono bloccati di là d’Arno); e qualcuno dei tipografi tiene il moschetto a tracolla o la pistola alla cintura; in giro c’è ancora qualche pattuglia tedesca. Il giornale esce in due edizioni: una destinata alla distribuzione al prezzo di una lira, e una per l’affissione murale. Il titolo dell’articolo di fondo è “Firenze in mano ai patrioti”. “Mai come in quelle  notti in cui tutti lavoravamo gomito a gomito alla luce scarsa e tremolante delle candele” scriverà Vittore Branca “sentimmo che il nuovo giornalismo italiano, non più strumento spregevole di dominazione e di avvelenamento dell’opinione pubblica, nasceva con la missione morale di educare il popolo alla libertà e alla giustizia, con l’unico intento di servire la verità”. Con la liberazione di Firenze le autorità angloamericane (il PWB, “Psychological Warfare Branch” ossia il Servizio alleato di informazioni politiche e di propaganda) fanno uscire, così come in tutte le altre grandi città via via liberate, un loro quotidiano, che ha, come altrove, la testata  “Corriere alleato” e l’indicazione della città. Ovviamente il PWB fa del suo meglio per favorire la diffusione del suo giornale a svantaggio della “Nazione del popolo”, considerato un foglio di sinistra e quindi da sottoporre anche a controllo censorio; per di più la “Nazione del popolo” è costretta a uscire non la mattina ma nelle prime ore del pomeriggio; solo il 23 settembre sarà autorizzata a uscire al mattino. Nella loro avanzata verso Nord e verso la vittoria finale le autorità inglesi e americane che si occupano dell’organizzazione delle città via via liberate si mostrano guidate da due contrapposte linee politiche; una, specie ai gradi medi, di aiuto alle forze locali che hanno contribuito alla liberazione; un’altra, specie nei Comandi più elevati, dalla paura del partito comunista e di quello che comunisti potranno fare nell’occupazione dei posti di potere. Si ignora spesso, oltretutto, che i partigiani (una parola non usata dalle autorità angloamericane; preferiscono la parola “patrioti”) non sono soltanto comunisti o socialisti, ma anche democristiani o cattolici, liberali e, nel Nord dell’Italia,  anche monarchici). 

 Verso la fine dell’anno la “Nazione del popolo” riesce a entrare nell’edificio della “Nazione” in via Ricasoli, dove le rotative sono state ripulite e hanno ricominciato a funzionare. La redazione è tutta in una stanza, la vecchia stanza degli stenografi, a piano terra. 

Una stanza neppure tanto grande e disadorna; pochi, vecchi tavolini molto vicini l’uno all’altro, con due macchine per scrivere di vecchio modello (tipo Remington); su un tavolo cinque o sei candelieri con candela, pronti per tutte le volte, frequenti, in cui manca la luce elettrica. Lungo la parete di fondo ci sono tre cabine di legno, a cui è stata tolta la porta; in una di esse c’è un uomo di mezza età con la cuffia agli orecchi: è il marconista, che ascolta in morse e traduce le notizie di agenzia, trasmesse da Roma per telegrafo.

E’ qui, nel 1945, tutta la redazione della “Nazione del popolo”. La stanza è quella dove, prima, stavano (ecco perché le cabine) gli stenografi della “Nazione”, il quotidiano che per ora non è stato autorizzato ad uscire perché testata considerata fascista e coinvolta nelle trascorse vicende. Solo a metà del 1946 la redazione del giornale passerà in alcune stanze, poche, all’ultimo piano. Il palazzo, di proprietà dell’editore della “Nazione”, Egidio Favi, è all’inizio di via Ricasoli, dalla parte di piazza del Duomo, e dalle finestre si vede la cupola del Brunelleschi.

 Un dialogo con due redattori (Lepri e Pieraccini):  “Avete fatto carriera al contrario: da vicedirettori a redattori”. Risposta: “Da vicedirettori non prendevamo, così come i direttori, neppure una lira; ora, almeno, abbiamo uno stipendio”.Il giornale, che per la scarsità di carta esce in un solo foglio, pubblica nella seconda pagina le notizie locali (soprattutto quelle che riguardano la disponibilità di viveri e i provvedimenti per riportare alla normalità la vita cittadina) e in prima pagina soprattutto note e commenti, perché le notizie dal resto del paese e dall’estero sono pochissime.A Roma il 15 gennaio del 1945 nascerà l’Ansa, col consenso e l’aiuto degli alleati, mostratisi favorevoli (specie gli inglesi) all’istituzione di un’agenzia che, al posto della Stefani fascista e repubblichina, sia un’agenzia cooperativa fra tutti i quotidiani, sia di destra, sia di sinistra. La struttura sociale cooperativa è in realtà la formula più adatta a un organo dell’informazione di base, anche perché soci di diverso e contrapposto orientamento politico non possono non richiedere alla loro agenzia un’informazione pluralistica e imparziale. Diverso sarà invece (e questo ha un chiaro significato politico: di benevolenza e amicizia verso l’Italia) l’atteggiamento degli alleati in Germania, dove non sarà permessa fino al 1949 la nascita di un’agenzia di informazioni tedesca e le quattro grandi potenze distribuiranno nelle rispettiva zone di occupazione una versione in tedesco delle loro agenzie (Reuter, Afp, Ap e Tass).Per tutto il 1944 e i primi mesi del 1945 funziona come agenzia di informazioni per la stampa quotidiana del Sud e del Centro, e quindi anche per Firenze e la “Nazione del popolo”, la NNU (“Notizie nazioni Unite”), un organismo creato e gestito, con giornalisti italiani, falle autorità alleate. Le notizie vengono trasmesse per telegrafo e all’inizio sono non più di quattro o cinque al giorno; cresceranno lentamente col tempo. In una maniera o nell’altra si riesce però, anche se con forti ritardi, a conoscere gli eventi più importanti. Il 15 aprile la redazione del giornale è scossa dalla notizia dell’assassinio di Giovanni Gentile. I redattori sono tutti intellettuali e laureati, qualcuno proprio in filosofia, e ha studiato sui suoi testi. La notizia suscita emozione anche fra le forze antifasciste fiorentine che operano nella Resistenza. Colui che è stato, insieme a Benedetto Croce, uno dei più grandi pensatori italiani e protagonista della rinascita idealistica dell’inizio del secolo, è colpito a morte da un gruppo di tre giovani mentre rientra in auto alle due del pomeriggio nella villa Montalto (di proprietà del bibliofilo Tommaso De Marinis) che lo ospita in via del Salviatino. Giovanni Gentile, contrariamente a Croce (che a tutti appare come un grande maestro di libertà), ha aderito al fascismo cercando di esserne l’interprete culturale; è stato e continua ad essere (nel novembre precedente è stato nominato da Mussolini presidente dell’Accademia d’Italia) un esponente di spicco del regime. Nel fiorentino Comitato di liberazione tutti i partiti condannano l’episodio, salvo i socialisti e i comunisti, che, con evidente imbarazzo, non lo rivendicano ma non se ne dissociano. Sugli autori del gesto in città corrono voci contrastanti; una voce è che Gentile sia stato ammazzato dai fascisti che gli rimproverano la sua tolleranza e i suoi numerosi interventi in favore degli avversari politici; l’altra è che l’uomo che gli ha sparato colpendolo al cuore è un partigiano comunista, Bruno Fanciullacci, che il 15 luglio viene arrestato dalla repubblichina “banda Carità” e il cui cadavere viene trovato due giorni dopo (suicida o assassinato?) su un marciapiede di via Bolognese, sotto le finestre di Villa Triste, così chiamata dai fiorentini perché vi venivano torturati gli antifascisti arrestati.Di recente Teresa Mattei, detta Chicchi, sorella di un partigiano torturato dai fascisti e suicida in cella, partigiana lei stessa e poi deputata del Pci alla Costituente, personaggio notissimo in quegli anni fiorentini, ha detto al “Corriere della sera” (6 agosto 2004) che a decidere l’esecuzione di Gentile fu l’uomo che dopo la Liberazione sarebbe diventato suo marito (per poi morire quarantunenne nel 1950), Bruno Sanguinetti, intellettuale di origine ebraica, figlio di un grande magnate dell’industria alimentare (l’”Arrigoni” di Trieste) ma comunista fin da giovane, laureato in ingegneria e in fisica e  grande cultore della letteratura francese. Nell’agosto 1943 era uno dei cinque direttori della “Nazione del popolo” (poi sostituito da Luigi Sacconi). Teresa Mattei dice che la decisione fu presa a livello locale, approvata dal segretario fiorentino del Pci, l’operaio cementista Giuseppe Rossi, e da un esponente comunista molto in vista, lo studioso e docente universitario di storia dell’arte Ranuccio Bianchi Bandinelli (che per le sue origini nobiliari era chiamato il “conte rosso”). Teresa Mattei conferma che a eseguire l’azione fu un piccolo gruppo di partigiani guidato da Bruno Fanciullacci. Qualche giorno dopo l’intervista di Teresa Mattei al “Corriere” il coinvolgimento di Bianchi Bandinelli è stato invece smentito dallo storico Luciano Canfora, secondo cui l’ordine di uccidere Gentile venne dato al Pci fiorentino dal Servizio informazioni delle truppe britanniche operanti in Italia; così in realtà ha scritto (in base a “notizie attendibili”) Benedetto Gentile, figlio del filosofo, in un saggio pubblicato nel 1951. L’uccisione di Gentile ha continuato a riproporre nel tempo, ad ogni annuale anniversario, l’opportunità o no di eliminare un tale uomo di pensiero. Ma non si può condannare senza cercare di spiegare e di capire. C’era una guerra, allora, una spaventosa guerra mondiale contro il nazismo e contro Hitler, per la libertà e la democrazia; e in Italia, dalla fine del 1943, una guerra civile insanguinava il paese. In quei tempi difficili (c’era stata la fine del fascismo col 25 luglio del 1943 e la sua temporanea rinascita con la Repubblica sociale; c’era stato l’armistizio dell’8 settembre e il capovolgimento delle alleanze: non più con i tedeschi, ma con gli angloamericani) per molti giovani – quelli che non avevano dietro di sé la ricchezza e il conforto di una tradizione culturale o familiare di libertà – non fu facile una scelta: da che parte stare? Ancora con Hitler e Mussolini (in nome di un presunto “onore”, di fedeltà e di continuità) oppure con gli ex-nemici americani ed inglesi, portatori di libertà e di democrazia? Vero è che dalla parte di Mussolini c’erano le leggi razziali, c’erano le deportazioni degli ebrei, c’era la ferocia assassina della brigate nere, c’erano le torture di tante Ville Tristi, come a Firenze in via Bolognese; ma da quella stessa parte c’era anche Giovanni Gentile e la sua autorità e il suo prestigio di uomo di studi e di pensiero. Uccidere è un male, ma quella era una guerra. In una guerra i morti sono tutti eguali; i vivi, no. E da vivo Giovanni Gentile fu un grande pensatore, ma, per molti, anche un grande cattivo maestro.    

Nell’Italia del nord, dopo la liberazione di Mussolini da parte dei tedeschi a Campo Imperatore sul Gran Sasso (12 settembre 1943), il 14 novembre è nato il Partito fascista repubblicano, il 19 è stata ricostituita la Milizia fascista e il 25 il nuovo stato costituito da Mussolini a Salò ha assunto il nome di Repubblica Sociale Italiana. In gennaio si è svolto a Verona il processo contro i gerarchi fascisti che nell’ultima seduta del Gran Consiglio del fascismo, il 24-25 luglio 1943, hanno votato contro Mussolini, ed è terminato con la condanna alla fucilazione di cinque imputati, fra cui Galeazzo Ciano, genero di Mussolini. Nel giugno 1944 gli operai della Fiat a Torino sono scesi in sciopero per bloccare il minacciato trasferimento dei macchinari delle officine e nel marzo-aprile del 1945 una grande ondata di scioperi si è estesa in Piemonte e in Lombardia con carattere insurrezionale.   

Nell’Italia del sud l’11 febbraio 1944 il governo Badoglio, che il 13 ottobre ha dichiarato guerra alla Germania (l’Italia avrà però la qualifica non di “alleata” ma di “cobelligerante”) si è trasferito a Salerno; il 17 marzo Palmiro Togliatti è rientrato in Italia dopo diciotto anni di esilio e si è messo alla guida del Partito comunista; il 18 è stato costituito il Corpo italiano di liberazione; il 24 Badoglio ha costituito un governo che per la prima volta riunisce esponenti di tutti i partiti; il 5 giugno Vittorio Emanuele III ha firmato il decreto con cui nomina il principe Umberto luogotenente generale del regno; l’11 giugno un vecchio uomo politico, Ivanoe Bonomi, ha costituito un nuovo governo, che si trasferisce a Roma l’11 luglio, seguìto in dicembre da un secondo governo, in cui è ministro degli esteri il democristiano Alcide De Gasperi.

1945 – La fine della guerra in Italia

Il  5 aprile comincia l’offensiva alleata nel settore tirrenico e il 9 scatta l’attacco anche sul fronte adriatico. A ridosso della cosiddetta “linea gotica”, che i tedeschi hanno fortificato sull’Appennino toscoemiliano, entrano in azione le brigate partigiane. Il 16 aprile il maresciallo Harold Alexander, comandante in capo delle forze alleate nel Mediterraneo, lancia un proclama ai soldati, ai marinai e agli aviatori: “La vittoria finale è vicina. Questa è l’ultima battaglia e porterà alla fine della guerra in Europa”; e il generale Mark Clark, comandante delle forze alleate in Italia: “Questa è l’ora dello sforzo decisivo”.

 Soprattutto nell’Italia centrale la maggior parte dei militari (ufficiali, sottufficiali  e soldati) che con l’armistizio dell’8 settembre hanno lasciato l’esercito in sfascio, non ha aderito alla Repubblica sociale, rispondendo negativamente ai ripetuti e minacciosi bandi di richiamo alle armi; sono definiti disertori, passibili di pena di morte. Alcuni di loro si sono nascosti in città, per evitare l’arresto e quindi la fucilazione o per lo meno il trasferimento nei campi di lavoro in Germania; alcuni sono andati in montagna per dar vita alle formazioni partigiane; alcuni hanno svolto attività di organizzazione e di propaganda nelle strutture clandestine dei partiti (anche nei clandestini giornali di partito; Sergio Lepri nel foglio liberale “L’Opinione”); alcuni sono entrati a far parte dei reparti del Corpo italiano di liberazione. Il Corpo italiano di liberazione è stato costituito nel dicembre del 1943, raccogliendo, su base volontaria, ufficiali e soldati del vecchio esercito rimasti nelle regioni meridionali dopo l’8 settembre. Un reparto è stato sùbito impiegato nella zona di Cassino e si è distinto a Montelungo con numerosi morti. All’inizio del 1945 il Corpo, che si compone di cinque divisioni, viene schierato nell’Italia settentrionale. Il comandante è il generale Messe (già comandante di un corpo d’armata in Russia), ma i reparti operano inquadrati nei corpi d’armata alleati. 

Il 14 aprile nel Quartier generale di Mussolini a Gargnano sul lago di Garda l’ambasciatore tedesco Rudolf von Rahn si incontra con Mussolini, col segretario del Partito fascista repubblicano Alessandro Pavolini e col comandante dell’esercito della Repubblica Sociale Rodolfo Graziani: che fare? Il 16 Mussolini decide di partire per il nord. Il 17 Mussolini è a Milano, in Prefettura. Il 18 Torino è bloccata da uno sciopero insurrezionale, che si estende rapidamente a tutta la regione. Il 21 le truppe alleate entrano a Bologna, dove già da due giorni combattono i partigiani (con gli americani c’è anche un reparto italiano, il “Legnano”, al comando del generale Utili). Il 23 gli alleati attraversano il Po e i partigiani cacciano i tedeschi da Genova. Il 25 il Clnai (Comitato di liberazione Alta Italia) dà l’ordine di insurrezione generale e assume i pieni poteri civili e militari. A Milano ha inizio lo sciopero generale e Mussolini fugge verso la Svizzera con un gruppo di ministri e una scorta di SS. Il 26 l’inviato di guerra dell’Associated Press scrive che i tedeschi sono in rotta in tutta la Val Padana; le truppe inglesi e americane stanno avanzando in ogni direzione. Il 27 l’Agenzia telegrafica svizzera dice di avere appreso che Mussolini è stato catturato dai partigiani in una località del lago di Como.

Il corrispondente della Reuter riferirà di una conversazione avuta con l’arcivescovo di Milano, cardinale Schuster, nella quale il prelato ha raccontato di un suo colloquio con Mussolini immediatamente prima della sua fuga da Milano. Il cardinale ha detto: “Per me Mussolini era un’anima da salvare. Parlammo per più di un’ora. Egli era estremamente depresso. Io gli dissi: ‘Si penta dei suoi peccati e si prepari ai giorni duri che le sono mandati da Dio come a una espiazione’”. Alla domanda se considerasse Mussolini pentito, il cardinale ha risposto: “Il suo stato d’animo non era quello di un penitente. Era troppo abbattuto e lontano da ogni aiuto religioso. Sarebbe stato possibile agire su di lui, ma ne mancava il tempo”.

Il 28 aprile verso mezzogiorno “Radio Milano libera”, intercettata dall’Ansa, fornisce particolari sull’arresto di Mussolini e il 29, alle 9 del mattino, dà la notizia che Mussolini è stato giustiziato. Il 30 un comunicato del Clnai dice che l’esecuzione della condanna a morte di Mussolini è “la conclusione necessaria di una fase storica” e la “premessa della rinascita e della ricostruzione” del paese.

Il 28 aprile il generale Clark  indirizza per radio ai partigiani del nord Italia un messaggio nel quale, dopo essersi congratulato per quanto essi hanno fatto e dopo averli invitati a continuare la lotta fino alla completa liberazione delle città delle province settentrionali, dice: “Un compito difficile e pieno di responsabilità grava sul Cln, perché, sotto la sua giurisdizione, finora teatro di combattimenti, regnino ora la legge e la giustizia”. Il 3 maggio il primo ministro inglese Winston Churchill invia un messaggio al presidente del consiglio italiano Ivanoe Bonomi: “In occasione della resa delle forze armate tedesche in Italia invio a Vostra Eccellenza, a nome del governo di Sua Maestà britannica, un messaggio di calorose congratulazioni per la liberazione finale del territorio italiano dal nostro comune nemico e particolarmente per la parte svolta dalle forze italiane regolari e dai patrioti dietro le linee. La consapevolezza di aver contribuito a questa vittoria e di avere materialmente accelerato la liberazione del proprio suolo sarà una fonte di forza per il popolo italiano nei giorni difficili che gli si prospettano” (inglesi e americani non usano mai la parola “partigiano”, che si ritiene nata in aree comuniste, ma “patriota”). 

1945 – La fine della guerra in Europa

Il 29 marzo gli alleati attraversano il Reno. Il 6 aprile i russi entrano a Vienna. Il 17 aprile l’armata americana del generale Patton entra in Cecoslovacchia. Il 21 aprile i russi entrano a Berlino. Il 26 russi e americani si incontrano sulle rive del fiume Elba. Il 29 la Germania chiede la resa. Il 30 si diffonde la notizia che Hitler è morto e il 1° maggio i tedeschi ne confermano il suicidio. Il 7 maggio gli alleati annunziano la resa incondizionata della Germania; l’annunzio ufficiale verrà dato il giorno seguente.

E’ l’8 maggio, prime ore del pomeriggio, redazione della “Nazione del popolo”. Il marconista attraversa di corsa la stanza e porge a un vecchio giornalista (Palandri) un foglietto di carta velina; il vecchio giornalista  alza gli occhiali sulla fronte, lo legge e grida “la guerra in Europa è finita”; altri due o tre giornalisti lo circondano: è la notizia  dell’annuncio che Churchill ha fatto alla radio inglese: i plenipotenziari tedeschi  hanno firmato la resa incondizionata di tutte le forze della Germania nazista. Il vecchio giornalista si rivolge a un  giovane redattore (Lepri) e gli dice: “Il giornale è quasi pronto e sta per uscire; manca solo l’articolo di fondo; scrivilo tu, e in cinque minuti”; il giovane redattore risponde  “Ma io non ho mai scritto un articolo di fondo”; “C’è sempre una prima volta” replica il vecchio giornalista. La prima pagina del giornale appena uscito dalle rotativa ha un grande titolo  a tutta pagina: “La guerra in Europa è finita”. L’articolo di fondo comincia così, con una citazione di Charles Peguy: “Da questa festa mondiale di sangue e di morte nascerà un giorno l’amore?”.  

La seconda guerra mondiale è stata una guerra spaventosa; una guerra nuova, per le innovazioni tecniche e strategiche (uso massiccio dell’aviazione e dei carri armati), per la sua carica ideologica (la libertà  e la democrazia contro la dittatura), per il coinvolgimento dell’intera popolazione nelle vicende belliche (i bombardamenti aerei delle città), per la brutalità, quella nazista, contro innocenti (il genocidio degli ebrei); è stata una guerra tragica: cinquanta milioni di morti e interi paesi distrutti. Per l’Italia è stata anche, dal settembre 1943, con la nascita della Repubblica Sociale, una guerra civile: italiani contro italiani.

1945 – La redazione della “Nazione del popolo”

Sotto la guida del redattore capo (Bilenchi), un comunista di idee moderate (anche se ogni tanto tira fuori dal cassetto la rivoltella che aveva durante la Resistenza), i redattori lavorano con impegno, ma senza molto da fare; le notizie trasmesse dalle agenzie sono poche; il giornale, come tutti i giornali, esce, per la generale mancanza di carta, in un solo foglio, cioè due pagine (solo nel 1947 i quotidiani potranno uscire usciranno a quattro pagine una volta alla settimana); e lo spazio (la prima pagina) è riempito soprattutto da articoli e commenti; la seconda pagina è la pagina di cronaca locale. 

La redazione del giornale rappresenta solo una parte del paese, quella per la quale la Resistenza è stata un’occasione per prendere coscienza del proprio passato e per avviare un processo di rinnovamento politico e civile; quell’Italia per cui il 25 aprile è stato il punto di partenza per un ripensamento della nostra storia e non – come per la maggior parte degli italiani – l’evento conclusivo attraverso il quale autoassolversi per l’adesione attiva o l’accettazione passiva dei venti anni di fascismo. Durante la Resistenza ci sono state tre Italie:

– l’Italia della rottura, protagonista della lotta resistenziale, che si è espressa con più facce, a volte sovrapposte: sia come guerra di liberazione (liberazione dall’autoritarismo e dalla dittatura, per il ritorno a un sistema democratico), sia come guerra civile (una guerra sanguinosa tra i fautori della democrazia e i “repubblichini” di Salò, italiani contro italiani), sia, in molti casi, a sinistra, come guerra di classe (in vista dell’instaurazione di un sistema di tipo sovietico);

– l’Italia della continuità, che ha trovato espressione nella Repubblica di Salò, per motivi di convenienza o di opportunismo (specie nei settori statali) e anche, non senza buona fede, in nome di un “onore” inteso come fedeltà al passato e alle alleanze;

– l’Italia della cosiddetta “zona grigia”, che non ha voluto compromettersi con nessuna delle parti in lotta e si è limitata ad aspettare (però desiderandolo) l’arrivo degli eserciti alleati.

Queste tre Italie hanno a loro volta una diversa configurazione secondo le tre zone in cui il paese ha vissuto gli anni dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945: le regioni del Sud, che, presto liberate dagli angloamericani, non hanno avuto la Resistenza e la lotta antitedesca e antifascista né la Repubblica sociale; il Centro, cioè il Lazio, L’Abruzzo, l’Umbria, le Marche e la Toscana, dove l’occupazione tedesca e la presenza della Rsi di Mussolini è durata meno di un anno, così come i bombardamenti aerei alleati, e maggiore è stato il coinvolgimento della popolazione con la Resistenza partigiana; tutta l’Italia settentrionale, dove più lunga (venti mesi) è stata l’oppressione nazifascista, più larga l’azione delle brigate nere repubblichine e quindi violenze e stragi, più ampia e prolungata – di conseguenza – la lotta partigiana, più frequenti i bombardamenti aerei alleati, più diffuse la paura e i rischi di uno schieramento da una parte o dall’altra.

Firenze, di cui la redazione del giornale è in certo modo un’espressione, è una città in cui la “zona grigia” ha avuto consistenze modeste; la popolazione si dimostrata ampiamente coinvolta con le forze della Resistenza e larghissima è stata la solidarietà fa le varie classi sociali, accomunate da eguali bisogni e da eguali pericoli.

In redazione sono frequenti i ricordi di eguali esperienze di vita e i racconti di avventurosi episodi. Qualcuno ha lavorato nei giornali clandestini, qualcuno ha fatto parte di gruppi di azione cittadina, qualcuno ha dovuto cambiare residenza, lontano dalla propria casa, per sfuggire alle ricerche della polizia fascista. E poi le trasmissioni di radio Londra e la commozione di ascoltare di notte, spente le luci e in silenzio, le quattro note con cui cominciavano le trasmissioni (fra gli altri commentatori, diventato famosissimo, il “colonnello Stevens) e che, con l’intonazione di una sonata di Beethoven, indicavano (tre punti e una linea) l’iniziale V di “victory”. E poi qualche significativo episodio dei sette giorni dell’”Emergenza”, senza luce, senza acqua, senza viveri (Lepri racconta che, tornato finalmente a casa sua dopo undici mesi di fughe, aveva istituito, nel palazzo dove abitava, in via Panzani, almeno per mangiare, una specie di “comune popolare”, dove tutti gli abitanti dei vari appartenenti gli davano quel po’ che avevano – chi mezzo chilo di farina, chi una boccetta d’olio, chi un cartoccio di fagioli secchi o di patate o di cipolle, chi qualche pezzo di carbone – e lui riuniva tutti a tavola (non più di una volta al giorno) e tutti mangiavano lo stesso povero piatto, cotto, negli ultimi giorni, accendendo nel fornello di cucina qualche pezzo di legno e anche qualche gamba di una vecchia sedia).      

I redattori politici del giornale: Ettore Bernabei (democristiano), già assistente universitario nella cattedra di storia della letteratura; sarà poi direttore del “Giornale del mattino”, poi direttore del “Popolo”, poi direttore generale della Rai, poi presidente di Italstat, poi presidente di Luxvide; Carlo Cassola (Partito d’azione), scrittore, autore del notissimo “La ragazza di Bube”; Manlio Cancogni (Partito d’azione), scrittore, autore – negli anni successivi – di parecchi romanzi premiati (Bagutta, selezione Campiello, Strega, Viareggio, Grinzane); Giovanni Pieraccini (socialista); sarà poi direttore dell’”Avanti!”, poi ministro della programmazione economica; Augusto Livi, poi direttore di “Paese sera”; Sergio Lepri (prima Partito liberale, poi Sinistra liberale, poi Concentrazione democratica repubblicana), già insegnante di storia e filosofia;  nel 1957 sarà portavoce di Amintore Fanfani segretario della Dc e presidente del consiglio, poi direttore per trenta anni dell’agenzia Ansa e docente nella facoltà di scienze politiche della Luiss; Angiolo Maria Zoli, democristiano, figlio di Adone (poi ministro e presidente del consiglio); Sergio Rossi, socialista. Redattore capo è Romano Bilenchi (comunista), scrittore di numerosi romanzi (il più noto “Anna e Bruno”) e di lunghi racconti (“La siccità”, “Il gelo”, “La miseria”).

Gli stipendi non sono cattivi, rispetto al generale livello: 4 mila lire all’inizio del 1945, che saliranno via via col crescere dell’inflazione; saranno trentamila a metà del 1947.

 Giugno, luglio. Al giornale giungono le notizie, sempre più atroci, le notizie  sullo sterminio degli ebrei nei lager nazisti; anche le notizie dei soldati italiani che tornano dai campi di prigionia in Germania.Una sera compare in redazione un uomo sui trent’anni, magro, emaciato, mal vestito, con la barba lunga; è reduce da un campo di lavoro in Germania. (E’ un redattore della vecchia “Nazione”). “Non ho avuto il coraggio di andare a casa, perché ho saputo che mi credono morto; per favore, ci vada qualcuno di voi, per avvertirli con garbo; non vorrei che a mia madre venisse un colpo”. I redattori parlano spesso delle loro esperienze in guerra o nella Resistenza, dei rischi e dei pericoli affrontati. Un redattore (Lepri) parla di un compagno di classe, ufficiale assassinato dai tedeschi a Cefalonia. Un altro (Cancogni) parla delle stragi naziste in Versilia, come a S.Anna di Stazzema. Un altro (Bernabei) delle lunghe marce sulle montagne del Montenegro.La moneta corrente è l’”amlira”, una banconota stampata negli Stati Uniti e introdotta in Italia nel 1943 dal governo militare alleato; da cui “amlira”: “a(llied) m(ilitary) lira”; avrà corso legale fino al giugno 1950. Per avere un’idea del valore della moneta e della progressiva terribile inflazione si sappia che il giornale veniva venduto a una lira nel 1944, a due lire dal gennaio 1945, a tre lire dall’aprile, a quattro dal dicembre; a cinque lire dal giugno 1946.La redazione di cronaca è composta da alcuni vecchi cronisti del quotidiano fiorentino “La Nazione”. Anche se all’inizio la pagina a disposizione è una sola, hanno molto da fare, perché le notizie di cronaca sono tante e riguardano strettamente gli interessi della cittadinanza: per esempio, l’abolizione del coprifuoco, l’arrivo di derrate alimentari, l’aumento della razione di latte (200 grammi) per i bambini di età inferiore ai tre anni, una distribuzione straordinaria di un chilo di sale per ogni possessore di carta annonaria, la vendita di penicillina in Prefettura e così via. Solo il 6 luglio del 1946 il giornale annunzierà l’attesa distribuzione, valida per tutto il mese, di 180 grammi di olio d’oliva pro-capite e di 60 grammi di formaggio grana.

1945 – Il governo Parri

Appena finita la guerra in Italia e dopo le dimissioni del governo Bonomi si parla di “vento del nord”, cioè di una spinta innovatrice che viene dall’Italia settentrionale, dove più forte è stata la lotta partigiana. Il 21 giugno nasce il governo Parri (Ferruccio Parri, Partito d’azione, uno dei maggiori capi partigiani, medaglia d’oro della Resistenza; nome di battaglia Maurizio); ne fanno parte Dc, Pli, Psiup, PdA, Pci, Dl (Democrazia del lavoro). Alcide De Gasperi è ministro degli esteri; vicepresidenti Brosio (Pli) e Nenni (Psiup).La fine della guerra trova un’Italia profondamente divisa. L’Italia del sud è uscita dalla guerra tra la fine del 1943 e l’inizio del 1944 e non ha quindi conosciuto la lotta partigiana (un solo episodio contro i tedeschi: la rivolta popolare che infiamma Napoli per quattro giorni alla fine di settembre). L’Italia centrale (Roma è stata liberata il 4-5 giugno del 1944; Firenze l’11 agosto) ha visto la Resistenza largamente diffusa nelle città e soprattutto nelle campagne e in montagna, con  largo coinvolgimento della popolazione civile e tragici episodi (fra i tanti il rastrellamento del ghetto ebraico di Roma il 16 ottobre 1943, l’attentato di via Rasella il 22 marzo 1944 e la strage delle Fosse Ardeatine, l’uccisione di Giovanni Gentile a Firenze il 15 aprile, le stragi naziste in Versilia, le fucilazioni dei giovani renitenti alla leva o che non rispondono al richiamo alle armi); ma, dopo dieci-undici mesi di paura e di sangue, ritrova  finalmente la pace. Nell’Italia del nord la Resistenza e la lotta partigiana cominciano subito dopo l’8 settembre e dopo la costituzione della Repubblica Sociale e continuano fino all’aprile del 1945; azioni e reazioni, guerriglia e antiguerriglia, brigate Garibaldi dei comunisti, brigate Matteotti dei socialisti, gruppi Giustizia e Libertà del Partito d’azione, gruppi cattolici, gruppi “autonomi” liberali e anche monarchici. Nelle regioni del nord i partigiani in armi sono stati calcolati in 200 mila e in circa 70 mila i morti; è lì che la guerra civile ha assunto gli aspetti più violenti e sanguinosi, è lì che più lunghi e pesanti sono stati i bombardamenti alleati e più ampio il coinvolgimento, attivo o passivo, della popolazione, da una parte e dall’altra. Il fenomeno del collaborazionismo (cioè la collaborazione e l’appoggio della popolazione civile con le forze tedesche, la partecipazione volontaria all’amministrazione sotto controllo tedesco, l’adesione ai programmi tedeschi di trasferimento di forze di lavoro nelle fabbriche della Germania) è stata ovviamente più sensibile al Nord (anche se numericamente di gran lunga inferiore all’analogo fenomeno francese).  Le differenti esperienze tra Nord e Sud (morte, sangue, paure, stenti, fame, freddo, odio) non possono non riflettersi nell’atteggiamento di ognuno verso la politica e verso alcune parti politiche. Più forti sono state nel centro e nel nord del paese le aspettative di vaste riforme e di un profondo rinnovamento civile e il “vento del nord”, che ha portato Ferruccio Parri alla guida del governo (un uomo onesto ma sicuramente impreparato ad affrontare i grandi problemi della convivenza civile, della ricostruzione del paese, della definizione istituzionale del nuovo stato), trova freni forti all’interno e all’esterno della compagine governativa.  La situazione economica del paese è disastrosa. Il reddito nazionale è tornato nel 1945 ai livelli del 1911, con una contrazione del 40 per cento rispetto al 1938, anno di riferimento del periodo prebellico. I danni della guerra ammontano complessiva,ente a un quinto della ricchezza nazionale. I consumi pro capite sono più che dimezzati e la razione alimentare si riduce di un terzo. Le famiglie attingono ai risparmi, dove ci sono. Le grandi imprese si trovano invece di fronte a un paradosso: nonostante le distruzioni prodotte dai bombardamenti, dispongono di maggiori impianti, ma di minore capacità produttiva. Durante la guerra sono stati ostruiti nuovi stabilimenti per produrre armi e materiale bellico, ma alla fine del conflitto la carenza di energia elettrica e di materie prime (carbone, petrolio, ferro, cotone) crea una strozzatura nel sistema produttivo che impedisce alle imprese di sfruttare pienamente le altre risorse esistenti. A un anno dalla fine della guerra la produzione risulterà ancora dimezzata rispetto al 1938 e soltanto nel 1949 le importazioni copriranno il fabbisogno di materie prime. L’inflazione ha cominciato a correre. Tra il 1939 e il 1945 i prezzi sono aumentati di oltre 18 volte. La fine dei controlli e l’emissione da parte del Governo militare alleato della nuova moneta, le “am-lire”, creano un eccesso di domanda rispetto alla disponibilità di beni e palesano un drammatico problema: la scarsità di risorse.   Il governo cerca di fronteggiare l’emergenza. Parri dice che bisogna “sbarcare il lunario”. Si mettono però in cantiere ambiziose riforme. Si discute di come attribuire ai “Consigli di gestione”, rappresentativi di tutto il personale, un reale potere di indirizzo delle imprese. Si progetta il cambio della moneta per assorbire la liquidità in eccesso e per censire la ricchezza nazionale allo scopo di introdurre un’imposta patrimoniale che sposti sulle fasce più ricche della popolazione una parte dell’onere della ricostruzione. La proposta, sostenuta soprattutto dai comunisti Scoccimarro e Pesenti, è principalmente avversata dai liberali Einaudi e Corbino, i quali temono un ulteriore indebolimento della lira e dunque una fuga dei capitali. In attesa del vcambio il governo cerca di reperire nuove risorse con una sottoscrizione di titoli pubblici: i cosiddetti prestiti per la liberazione e la ricostruzione.  Verso la fine di luglio arriva in redazione da Milano un visitatore d’eccezione: è Sandro Pertini, accompagnato da una  giovane compagna, Carla Voltolina; è un personaggio importante (uno dei capi della Resistenza nel Nord, rappresentante socialista nel Comitato di liberazione dell’Alta Italia); è presentato da uno dei direttori (Carlo Levi) e il caporedattore (Bilenchi) e tutti i redattori lo circondano  con rispetto. Pertini dà una notizia sconvolgente: gli Stati  Uniti stanno per usare un’arma di tipo  assolutamente nuovo e potentissima; è un’arma segreta e di essa si sa poco.

1945 – La guerra contro il Giappone e la bomba atomica

 Il 6 agosto una notizia da Washington: il presidente Truman annuncia alla radio che un aereo americano ha sganciato sulla città giapponese di Hiroscima il più grande tipo di bomba finora usata in guerra, la “bomba atomica”, più potente di ventimila tonnellate di alto esplosivo. Tre giorni dopo arriva la notizia di un’altra bomba atomica, sganciata sulla città di Nagasaki. Ancora non ci si rende conto dell’effettiva natura della nuova arma e ci si stupisce sentendo parlare di centinaia di migliaia di morti. Così giunge anche la notizia della capitolazione del Giappone.1945 – La seconda guerra mondiale è finita. Comincia la politicaIl 2 settembre sulla corazzata americana “Missouri”, ancorata nel porto di Tokyo, il Giappone firma la resa. La seconda guerra mondiale è finita. L’11 ha inizio a Londra la conferenza dei ministri degli esteri della cinque grandi potenze vincitrici (Usa, Urss, Gran Bretagna, Francia e Cina) per la definizione dei trattati di pace con le nazioni alleate con la Germania. A Firenze i cinque direttori della “Nazione del popolo” discutono il futuro del giornale e il futuro del paese. Continuano a rispettare la  norma che ogni articolo o commento pubblicato deve avere l’approvazione di tutti, ma le cose stanno cambiando. Se la guerra aveva trovato tutti uniti contro il fascismo e il nazismo, ora si devono affrontare i problemi politici e cominciano così a manifestarsi le diverse posizioni politiche e ideologiche sui temi del momento: il referendum monarchia-repubblica, le elezioni di un’assemblea costituente, lo scioglimento dei Comitati di liberazione, il trattato di pace e la questione di Trieste, rivendicata dalla Jugoslavia di Tito, col consenso, all’inizio, del Pci; in più sono state indette le elezioni amministrative per i comuni.

 Il senso di questa eccezionale intesa fra i partiti, almeno fino allo scioglimento dei Comitati di liberazione, è spiegato bene da una nota con la quale il Comitato toscano di liberazione nazionale, il Ctln, dette vita al giornale e che fu ricordata da  Vittore Branca in un articolo pubblicato in un numero speciale l’11 agosto 1945 a un anno dalla nascita: “Il fronte nazionale non rappresenta una semplice tattica di partiti per fini immediati, ma una nuova realtà politica unitaria e creativa”. Questo è lo spirito della collaborazione nell’ambito dei Comitati di liberazione, benché si possa supporre che da parte dei partiti di sinistra si pensi a una possibile continuazione dell’intesa unitaria sul piano del governo anche dopo i risultati delle previste consultazioni politiche generali, e quindi come un modo per mantenere il potere.In direzione si discute a tutto campo, dalla politica all’arte, dalla ricostruzione della città a quella del paese. E’ una società, scrive Giovanni Pieraccini, “ancora segnata dalla guerra, percorsa da violenze e da vendette, desiderosa di normalità e anche di guadagni e di piacere. una società disillusa ma piena di speranze”. Il dibattito è guidato dall’idea base che “il fascismo non è stato una malattia occasionale in un corpo sano, l’interruzione violenta e casuale di un processo storico ricco di sviluppi, che potrà riprendere, dopo l’intervallo, la sua evoluzione”; il fascismo ha allignato in un corpo sostanzialmente malato, il vecchio stato liberale; “riattaccarsi alle condizioni e alle idee politiche del passato significa quindi porre le basi di un nuovo e peggiore fascismo”.  Un articolo che suscita discussioni è quello presentato da Sergio Lepri: davvero la Francia deve essere considerata nazione vincitrice e sedere come tale alla conferenza della pace e addirittura aspirare a un posto permanente con diritto di veto alla costituenda organizzazione delle Nazioni Unite? Il governo di Vichy, costituitosi dopo la sconfitta (giugno 1940) e la tragedia di Dunkerque, ha in pratica portato la Francia ad allearsi con Hitler; e rispetto all’Italia molto maggiore è stato il numero dei collaborazionisti e molto minore il numero dei partigiani. Sulla tesi dell’articolo tutti i direttori si trovano d’accordo ma ritengono che per motivi di opportunità è meglio non parlarne; l’autore se ne rende conto e ritira il suo articolo.  

Il tema che più appassiona è “monarchia o repubblica?”. Al giornale tutti – direttori e redattori – sono per la repubblica, ma la repubblica è intesa non come un semplice fatto istituzionale, bensì come strumento di generale rinnovamento morale dopo la complicità di Casa Savoia nell’avventura fascista (e a Vittorio Emanuele non si perdona soprattutto la firma alle leggi razziali del 1938).

 Un redattore del giornale (Lepri), che da sempre si dichiara discepolo di Benedetto Croce, viene a sapere di un soggiorno a Firenze del grande pensatore, che per la generazione dei giovani di allora è stato, durante il fascismo, bandiera di libertà e di democrazia. Croce è ospite dell’amico Tommaso De Marinis nella sua bella villa in via del Salviatino (proprio là dove nell’aprile dell’anno prima è stato assassinato Giovanni Gentile) e Lepri, che è accompagnato da Giorgio Spadolini (cugino di Giovanni), vuol sapere se il suo maestro voterà repubblica o monarchia e glielo chiede. Don Benedetto risponde con un apologo: durante la guerra d’Africa del 1895-96 un generale comandava a cavallo le sue truppe durante una battaglia; a un certo momento il cavallo si impennò e si voltò di 180 gradi; in quello stesso momento il proiettile di un soldato abissino colpì in una natica il generale, che voltava le spalle al nemico. Al generale fu tolto il comando: la colpa era del cavallo; ma si può lasciare al comando un generale che è stato ferito in una natica?Lepri pensava che per il re Vittorio Emanuele e per la sua complicità col fascismo la colpa non era del cavallo, ma prese il racconto di Croce come un orientamento in favore della repubblica (Si saprà poi che don Benedetto ha invece votato per la monarchia). In Direzione e in redazione si discute anche del progetto di costituzione che, in previsione dei lavori dell’Assemblea costituente, il Ctln sta preparando (e che, presentato a Roma, non avrà successo). E’ un progetto coraggioso, considerati i tempi; disegna uno stato decentrato, quasi federale, fondato sulle autonomie a partire dal basso (comune e regione); elimina prefetti e province e propugna una netta separazione dei poteri e un’economia mista. Direttori e redattori discutono anche di decentralizzazione e della dialettica fra il potere centrale rappresentato da Roma e i poteri periferici (i socialisti, con Pietro Nenni, esagerano anche: “Tutto il potere ai Cln”). Carlo Furno, socialista, suggerisce di spostare la capitale in una piccola città dell’Italia centrale. Attilio Piccioni, democristiano, ammonisce: “Vivificare le energie locali”. Il futuro stato – scrivono Gian Paolo Meucci, magistrato, e Mario Martini, entrambi democristiani – deve organizzarsi sulle regioni amministrative; e il geografo Aldo Sestini cerca addirittura di prefigurarne i confini. Per creare il nuovo stato – concordano tutti – è necessario liberarsi completamente del vecchio. Una classe dirigente corrotta e malata di autoritarismo deve essere distrutta: uomini e strutture. Questa è la rivoluzione da fare. 

Il giornale è vivacissimo nelle prese di posizione e nel dibattito, ma è poverissimo di notizie. Un po’ di notizie di cronaca arrivano dai cronisti fiorentini e da qualche giornalista di provincia, già corrispondente della vecchia “Nazione”. Da Roma arrivano per telegrafo poche notizie, prima siglate NNU (“Notizie nazioni unite”), che è l’agenzia di stampa creata in Italia dal Governo militare alleato, poi, dal 15 gennaio 1945, siglate Ansa, che è l’agenzia italiana nata come società cooperativa dei quotidiani italiani (per il momento del Centrosud; con la fine della guerra si associeranno anche i quotidiani del Nord).

 La “Nazione del popolo” è un porto di mare; quasi ogni giorno e spesso di notte capita qualcuno, giuristi, politici, letterati, residenti a Firenze o di passaggio: Carlo Lodovico Ragghianti (presidente del Ctln), Piero Calamandrei (rettore dell’università), Adone Zoli (poi ministro e presidente del consiglio), Eugenio Artom (poi senatore), Vittorio Fossombroni (poi senatore), Ranuccio Bianchi Bandinelli (lo storico dell’arte), Alberto Predieri (il futuro costituzionalista), Cesare Luporini (docente di filosofia all’università), Eugenio Montale e Mario Luzi (i due grandi poeti), Eugenio Garin (docente di filosofia all’università), Pietro Pancrazi (il critico letterario), Umberto Saba (il poeta triestino) e tanti altri, noti e meno noti.  

1945 – A Firenze la Settimana sociale dei cattolici italiani

In ottobre si svolge a Firenze, nel chiostro di Santa Maria Novella, già roccaforte della resistenza culturale dei domenicani al fascismo, la XIX Settimana dei cattolici italiani. Sulla tribuna si succedono ministri del governo Parri come De Gasperi e Scelba, docenti universitari come Dossetti, Lazzati, La Pira, Fanfani, Moro. Il convegno esercita un notevole peso sugli sviluppi della Democrazia Cristiana in senso rinnovatore sul piano sociale e per la repubblica sul piano istituzionale.

  Per la “Nazione del popolo” segue il convegno Ettore Bernabei, che è in redazione da appena un mese; per la prima volta parla con molti di quei personaggi e di alcuni di essi si fa amico; è allora che nasce e si sviluppa il sodalizio La Pira, Fanfani, Bernabei.1945 – Il primo governo De GasperiFerruccio Parri è costretto a dimettersi dopo soli cinque mesi di governo; ostruzionismi e resistenze provenienti sia dall’interno sia dall’esterno della compagine governativa ne hanno minato l’azione. In novembre prima il Pli e poi la Dc ritirano i propri ministri e determinano la crisi. Il 10 dicembre nasce il primo governo De Gasperi, ancora espressione del Cln; De Gasperi mantiene gli esteri, Nenni è vicepresidente e ministro per la Costituente; Togliatti alla giustizia, il liberale Epicarmo Corbino al tesoro. 

La nomina di Corbino al tesoro è un chiaro segnale che non si vuole il cambio della moneta. L’11 gennaio del 1946 il governo prende atto che non esistono le condizioni, tecniche e ambientali, per portare a termine l’operazione con sicurezza (ufficialmente la rinunzia al cambio della moneta avverrà soltanto nel marzo del 1947)).

Nei primi mesi del 1946 la Confindustria e i sindacati concordano il blocco delle rivendicazioni salariali e l’introduzione della scala mobile a tutele del potere d’acquisto dei lavoratori. Gli imprenditori riprendono la direzione delle imprese e la riforma del “Consigli di gestione” comincia a svanire. Il governo mantiene il prezzo politico del pane e cerca nuovi aiuti internazionali. Il 12 aprile del 1946 Alcide De Gasperi lancia un appello all’italo-americano Fiorello la Guardia, già sindaco di New York e ora presidente dell’Unrra, affinché siano spediti in Italia maggiori derrate alimentari: L’appello è raccolto e alcune navi americane vengono dirottate verso porti italiani. L’Unrra (“United relief and reabilitation administraztion”) è stata costituita nel novembre del 1943 per fornire aiuti economici ai paesi liberatisi dall’occupazione tedesca. Controllata e economicamente finanziata dagli Stati Uniti, l’Unrra approva per il 1946 lo stanziamento di 450 milioni di dollari di aiuti all’Italia.

 In novembre una altro americano di origini italiane, Amedeo Giannini, presidente della Bank of America, è in Italia alla testa di una delegazione di uomini di affari americani. Negli incontri con i vertici politici, economici e finanziari italiani non nasconde la sua sfiducia verso la politica del governo Parri. 

L’Alto Commissariato per l’epurazione, nato nel dicembre del 1943 per la defascistizzazione dell’amministrazione pubblica è stato trasformato nel maggio del 1944 in Alto Commissariato per la punizione dei delitti e degli illeciti del fascismo; presidente è Carlo Sforza, già ministro degli esteri nell’ultimo governo Giolitti (1920-21), poi ambasciatore in Francia, poi, dopo l’avvento di Mussolini, esule negli Stati Uniti. Nel luglio il Commissariato è stato diviso in quattro sezioni: per la punizione dei delitti politici (Mario Berlinguer), azionista), per l’epurazione (Mauro Scoccimarro, comunista), per l’avocazione dei profitti di regime (Mario Cingolani, democristiano), per la liquidazione dei beni fascisti (Pier Felice Stangoni, demolaburista). Tensioni interne, pressioni dei gruppi di potere politici e industriali, la paura del comunismo portano il Commissariato a svolgere la sua opera in maniera confusa e contraddittoria. Trionfa quella che qualcuno chiamerà restaurazione col rientro nei vecchi posti di amministratori pubblici e di imprenditori. Nel febbraio del 1946 il Commissariato verrà soppresso. La ricerca dei cosiddetti profitti di regime ha in realtà pregiudicato l’attività economica, specie nel Nord; nel febbraio 1948 un decreto governativo stabilirà l’estinzione dei giudizi in corso e la revisione dei provvedimenti già adottati.

Per motivi più o meno giusti il processo di passaggio dal vecchio stato fascista a quello repubblicano è insomma caratterizzato da una forte continuità e specialmente le strutture amministrative rimangono in massima parte immobili, e tali rimarranno anche negli anni seguenti, quando la contrapposizione Est-Ovest e l’esistenza in Italia del più forte partito comunista condizioneranno e limiteranno lo sviluppo del processo democratico.

L’invito del Governo alleato ai partigiani di consegnare le armi viene scarsamente rispettato e nelle regioni del nord accadono gravi episodi di violenza contro gli ex capi fascisti; molti anche i casi di vendette e di piccola criminalità.Il mercato nero si diffonde dovunque e in molti casi riesce a rimediare alla scarsità di generi alimentari (con la tessera annonaria si comprano cento grammi di pane al giorno, mezzo chilo di carne alla settimana, un chilo di zucchero al mese). In parte il mercato nero proviene dai magazzini militari delle truppe alleate, specie per le coperte e le uniformi militari, che, di colore oliva scuro, vengono tinte di blu o di rosso vinato e diventano cappotti.Oltre che a favorire la ripresa delle attività economiche, l’attenzione del governo De Gasperi è volta al mantenimento dell’ordine pubblico. Le misure prese per normalizzare il paese, come la chiusura delle pratiche di epurazione e la concessione di un’ampia amnistia, deludono chi ha coltivato speranze di rinnovamento di uomini e di strutture. Personaggi compromessi col passato regime ritornano in auge e rioccupano posti di potere. In molti centri, specie nel Nord, si susseguono scioperi e manifestazioni di protesta, che prendono spunto dalle cattive condizioni economiche e dal notevole aumento del costo della vita.Il termine stabilito dalle autorità angloamericane per la consegna delle armi dei partigiani è scaduto nel giugno del 1945, ma le armi consegnate sono poche. Nell’Italia centrale e ancor più nell’Italia del Nord, specie in Emilia Romagna e in Lombardia, numerosi sono gli episodi di violenza contro personaggi fascisti o ritenuti tali. Le città sono ancora segnate dalla guerra, le case distrutte dai bombardamenti, le strade e le ferrovie interrotte, i telefoni non funzionavano; ci sono tanti morti che vengono pianti, tanti feriti che non hanno ancora rimarginato le loro ferite, tanti uomini e donne (specie fra la comunità ebraica) che sono scomparsi e di cui si ignora la sorte; ci sono tanti prigionieri di guerra che non sono ancora tornati (alcuni, dalla Russia, torneranno, già creduti morti, dopo tre o quattro anni). Sono questi gli strascichi dolorosi di una guerra civile che ha insanguinato il paese e ha visto italiani contro italiani. E’ questo che spiega, anche se non giustifica, i tanti episodi di ritorsione contro i rappresentanti di un passato di oppressione e di morte. E come in tutte le guerre civili (molto peggio è accaduto in Francia dopo la fine della guerra) ci sono anche le vendette personali; ci sono anche azioni di sapore insurrezionale in vista di quella palingenesi che molti, affidandosi al mito dell’Urss e di Stalin, credono debba essere il giusto premio di anni di patimenti. Qualcuno ha calcolato in ventimila i morti ammazzati fra gli aderenti alla Rsi, molti meno dei 50 mila fra i collaborazionisti in Francia (senza parlare delle centinaia di migliaia dopo la fine della guerra civile in Spagna).

Ancora non esistono comunicazioni efficienti e, per modestia di strutture e difficoltà di collegamenti, l’agenzia Ansa non è ancora in condizioni di assicurare ai giornali una informazione completa e sicura. Nella redazione della “Nazione del popolo” le notizie di episodi di violenza (non nell’Italia centrale e in particolare in Toscana) arrivano attraverso voci o ritagli di giornali locali (la ribellione di un gruppo di partigiani nell’Astigiano, il cosiddetto “triangolo della morte” in Emilia, l’uccisione di sacerdoti in Romagna).   1945 – La Consulta: per la Costituente e il referendum istituzionale   Il 25 settembre si riunisce per la prima volta la Consulta Nazionale, cioè l’organismo consultivo che deve esprimere pareri non vincolanti sull’attività legislativa del governo e controllarne l’operato. Decisa dal governo Bonomi in aprile, è composta da 430 membri, scelti fra le personalità politiche prefasciste e fra gli esponenti dei partiti antifascisti, delle organizzazioni sindacali, dei reduci e dei partigiani. Presidente è Carlo Sforza. Fra l’altro si deve decidere l’elezione di un’assemblea costituente incaricata di redigere la nuova carta costituzionale. C’è poi il problema istituzionale: monarchia o repubblica? In ottobre la Democrazia Cristiana, appoggiata dagli Stati Uniti, propone che la scelta sia demandata a un referendum popolare. 

1945 – Venezia Giulia divisa in due

Dopo i tentativi di Tito di annettersi con la forza non solo tutta l’Istria ma anche Trieste, la Venezia Giulia viene divisa in una zona A sotto controllo angloamericano e in una zona B sotto amministrazione jugoslava.

1946 – Un anno di difficoltà, di preoccupazioni e di speranze

Sintesi. Il 1946 è per l’Italia un anno convulso, pieno ancora di difficoltà, di preoccupazioni e di speranze, ma rappresenta anche, per Firenze, l’inizio di una stagione di prospettive politiche e culturali che avranno dimensioni mondiali. E’ un anno importante per il mondo, nel bene e nel male, ma la gente non se ne rende conto; è troppo presa dalle vicende nazionali e soprattutto dai problemi della giornata

La situazione alimentare è ancora gravissima. I generi di prima necessità sono sempre razionati, e così le sigarette. Si vive ricorrendo ancora al mercato nero, che in molti casi si presenta apertamente con banchetti per le strade. Anche l’acqua arriva in casa precariamente, e spesso si deve andare a rifornirsi, con bottiglie e pentole, alle fontanelle stradali. Manca la stoffa per gli abiti, specie maschili; e si attende l’annunziata distribuzione di stoffe da parte dell’Unrra, che è lo speciale organismo dell’Onu per il soccorso e la ricostruzione dei paesi devastati dalla guerra. Di riscaldamento in casa non si parla; un bene comune è la carbonella, che serve per i fornelli della cucina e per gli scaldini. Insomma si soffre la fame e il freddo; e qua e là scoppiano disordini e tumulti contro l’aumento del costo della vita.Nonostante il freddo e le privazioni il 1946 vede il tentativo di  rinnovare la tradizione delle feste di Carnevale: a Firenze qualche veglione danzante in “ambiente riscaldato”, 250 lire un “pranzo reclame”, vini inclusi. Al teatro Verdi, dove i giornalisti hanno a disposizione, gratuitamente, un palco di proscenio, c’è Nino Taranto; e al teatro della Pergola Edoardo e Titina De Filippo recitano in “Napoli milionaria”. Al cinema ha successo “La taverna dei sette peccati” con Marlene Dietrich, John Wayne e Mischa Auer.   In politica comunisti e socialisti discutono i loro rapporti; non si arriva alla fusione (come vorrebbe il Pci), ma a una conferma del patto di unità d’azione, concluso durante la guerra. Il Partito d’azione si scinde e si dissolve; una parte andrà con i socialisti e una parte si unirà alla Sinistra liberale (uscita dal Pli, che si schiera a destra e si dichiara per la monarchia) e si presenterà alle elezioni come Concentrazione democratica repubblicana, vicina al Partito repubblicano. Nel Psiup cominciano a manifestarsi due anime: quella socialdemocratica e quella massimalista filocomunista.

I nostalgici del fascismo, dopo la fine dei processi di epurazione e dopo l’amnistia decretata dal governo (ministro della giustizia Palmiro Togliatti) per i delitti politici, prima si affiancano al Movimento dell’Uomo qualunque (Uq) e poi daranno vita a un partito, il Movimento Sociale.In ottobre Dossetti e Fanfani vengono esclusi dagli incarichi direttivi di partito perché considerati troppo di sinistra in economia e in politica estera; rimangono tuttavia nella direzione. Segretario politico è Attilio Piccioni e ai primi di dicembre Dossetti e Lazzati presentano una mozione di sfiducia contro Piccioni per la inadeguata incisività dell’azione del governo De Gasperi. Comincia così a svilupparsi, nei confronti del centrismo degasperiano, la posizione riformista della corrente di “Nuove Cronache” guidata da Dossetti. Dall’11 al 14 marzo si tiene a Milano il “Primo convegno nazionale per il commercio estero”; intervengono politici, economisti, operatori del settore. Il convegno si chiude con l’approvazione di un ordine del giorno che sollecita il governo a ridurre la percentuale di valuta estera che gli esportatori soino tenuti a cedere allo stato. Le imprese esportatrici sono infatti costrette a consegnare all’Istituto nazionale per il commercio estero l’intera valuta straniera ricavata da operazioni estere. L’Italia ha bisogno di incrementare le importazioni, ma non dispone né della libertà di operare sui mercati internazionali né dei necessari mezzi di pagamento; per procurarsi oro e valute pregiate deve perciò accrescere le esportazioni. Nel marzo 1946 il governo autorizza le imprese esportatrici a cedere allo stato soltanto il 50 per cento della valuta estera guadagnata e contemporaneamente concede un premio di esportazione pari a 125 lire per dollaro. In pratica opera una svalutazione: prima della guerra un dollaro valeva 19 lire, nell’immediato dopoguerra cento lire, e 225 lire nella primavera del 1946. Il governo attua cioè una prima forma di liberalizzazione valutaria e commerciale e contestualmente supporta le impres esportatrici.   

1946 – Churchill: una “cortina di ferro” è scesa sull’Europa

Il 5 marzo l’ex primo ministro inglese Winston Churchill, uno degli artefici della vittoria alleata nella seconda guerra mondiale, denunzia il sistema che l’Unione Sovietica ha cominciato a creare nell’Europa orientale e nel mar Baltico con l’occupazione di liberi paesi e la graduale creazione di governi comunisti. Solo più tardi ci si accorgerà che quest’anno ha avuto inizio quella che sarà chiamata la “guerra fredda” fra un Occidente democratico e un Oriente comunista, cioè la divisione del mondo in due blocchi contrapposti; una divisione, oltretutto, che taglia trasversalmente, con la presenza dei partiti comunisti nazionali, tutti i paesi dell’Europa occidentale. Ne è coinvolta anche l’Italia, dove i comunisti sono, insieme agli alleati socialisti, più di un terzo dei cittadini.

Il monito di Churchill e il pericolo da lui lucidamente avvertito per primo non colpiscono sul momento l’opinione pubblica; troppo forte è il ricordo della guerra e troppo forte il desiderio di pace. Anche nella redazione del giornale, come negli altri giornali, non si dà sùbito molto peso alla notizia venuta da Fulton negli Stati Uniti. “Il tempo stringe” ha detto il grande artefice della vittoria sul nazismo; “Sono calate le ombre sulle scene ancora di recente illuminate dalla vittoria alleata”. Solo in un secondo tempo e lentamente ci si rende conto che sta sorgendo l’impero sovietico: la guerra civile in Cina, la conquista comunista del potere via via nei paesi dell’Europa orientale, le prime azioni contro la Chiesa (persecuzioni contro il clero, arresto dell’arcivescovo di Zagabria, condanna di monsignor Stepinac, primate di Jugoslavia). 1946 – Le prime elezioni amministrative 

In marzo e aprile si svolge in Italia una prima sessione delle prime elezioni amministrative. Per la prima volta votano anche le donne. Dopo gli anni dell’”unità popolare” voluta dalla comune lotta contro i nazisti e i fascisti, con le varie forze politiche egualmente rappresentate in ogni organismo, finalmente appare l’effettiva configurazione politica del paese: su 5722 comuni la Dc conquista la maggioranza in 2534 comuni, i comunisti e socialisti uniti in 2289.

La situazione del paese continua ad essere drammatica. Un rapporto dei Servizi di informazione Usa dice che per quanto riguarda l’ordine pubblico la prova del fuoco delle elezioni amministrative è stata superata in modo favorevole, ma in alcune zone si registra una recrudescenza di disordini e di violenze. Il problema più grave sembra essere quello del costo della vita. Chi prima della guerra guadagnava 1000 o 1500 lire ne guadagna oggi diecimila o quindicimila, ma il pane che gli costa due lire al chilo ora gli costa 140; anche la pasta, che costava due lire, ora costa 180; la carne è passata da 10-12 lire al chilo a 500.. L’olio è passato da 5 a 46’0, il burro da 18 a 800, lo zucchero da sei a 900, il vino da due a 60. Insomma i prezzi di tutti i generi alimentari hanno subito un aumento enormemente superiore all’aumento degli introiti individuali.

1946 – Verso la Costituente e il referendum istituzionale 

   Il 10 marzo il governo emana il decreto che fissa le elezioni per l’Assemblea costituente e per il referendum istituzionale. I simboli per la scheda del referendum saranno una corona per la monarchia e una testa di donna con fronde di quercia per la repubblica. La Dc si presenta come un partito di larga rappresentatività ed è perciò incerta sul problema istituzionale. Nel suo primo congresso, tenuto a Roma il 24 aprile, la scelta istituzionale vede il 60 per cento per la repubblica e solo 17 per la monarchia (il 23 per cento non si è espresso); i suoi iscritti sono quindi in prevalenza per la repubblica, ma la posizione ufficiale del partito, che giustamente pensa al suo bacino elettorale, sarà di lasciare agli elettori libertà di votare secondo coscienza. Al congresso Enrico Mattei, uno dei capi della lotta partigiana nel Nord Italia, svolge una relazione sull’opera delle formazioni democristiane nella Resistenza.  Il 9 maggio Vittorio Emanuele III abdica a favore del figlio Umberto e si ritira in esilio in Egitto. Il principe Umberto, che vuole presentarsi al referendum come un re meno compromesso con Mussolini e il fascismo e con la disfatta militare, verrà chiamato il “re di maggio”.   1946 – Referendum istituzionale. Vince la repubblicaIl referendum per la scelta fra monarchia e repubblica divide il paese; non è solo un problema istituzionale; per metà degli italiani l’abbandono dell’istituto monarchico appare un pericoloso salto nel buio, che lascerebbe al partito comunista lo spazio per chi sa quali avventure; per l’altra metà, invece, la repubblica, dopo la ventennale collusione di Casa Savoia col fascismo di Mussolini, rappresenta un mezzo di cambiamento e anche un  segno di generale rinnovamento morale. Il 2 giugno si vota. Il voto è obbligatorio per legge; per la prima volta in Italia votano le donne.Tra il 5 e il 6 nella redazione della “Nazione del popolo” si vivono le ore convulse dei primi risultati del referendum istituzionale e le prime incertezze sul suo esito. I redattori sono tutti a favore della repubblica, ma si discute se l’esito debba essere attribuito alla maggioranza dei voti validi o alla maggioranza degli elettori votanti. I primi dati vengono dal Nord e sono in maggioranza per la repubblica, ma i dati che arrivano dal Sud dànno un vantaggio alla monarchia. Corre anche voce, poi smentita, di un tentativo di suicidio del re Umberto. Il 5 giugno alle 17 l’Ansa trasmette i risultati provvisori del referendum, relativi a 34.112 sezioni su 35.320: i voti per la repubblica sono 12.182.855, quelli per la monarchia 10.362.709. La differenza è soltanto di 1.820.146 voti. La percentuale dei votanti è stata dell’89.1 per cento. Sono rimasti esclusi dal voto gli elettori della Venezia Giulia e dell’Alto-Adige, perché regioni ancora in contestazione in attesa del trattato di pace, e i prigionieri di guerra non ancora rimpatriati (circa 600 mila).   

Il 7 giugno un ricorso sui risultati del referendum viene presentato da un gruppo di giuristi padovani: secondo il decreto istitutivo del referendum la vittoria è assegnata alla “maggioranza degli elettori votanti”; poiché nei dati finora diffusi manca il riferimento alle schede nulle, se anche la repubblica risulta vincente sulla base della “maggioranza dei voti validi”, non si può ancora parlare di risultati definitivi.

La regina Maria José e i principini sono partiti il giorno prima da Napoli per Lisbona sull’incrociatore “Duca degli Abruzzi”, ma il re Umberto  rinvia la partenza in attesa dei risultati definitivi.

Nella redazione del giornale si seguono con trepidazione le notizie di dimostrazioni popolari in favore della repubblica nel Nord e nel Centro e di manifestazioni in sostegno della monarchia a Napoli e in tutto il Mezzogiorno. A Roma si scontrano monarchici e repubblicani. Corrono (o vengono fatte correre) anche voci di brogli elettorali.

La sera del 10 la Corte di cassazione, a cui compete la diffusione dei risultati elettorali, comunica l’esito del referendum: 12.672.767 voti per la repubblica e 10.608.905 per la monarchia. Lo scarto è di 1.983.905 voti. La Cassazione non fornisce però il numero dei voti non validi e non proclama la vittoria della repubblica.

 La cerimonia della proclamazione dei risultati del referendum si svolge nella cosiddetta Sala della lupa del palazzo di Montecitorio. Nella sala, che ha alle pareti arazzi fiorentini del Cinquecento rappresentanti Mosè salvato dalle acque, è disposto un grande tavolo a ferro di cavallo con al centro una poltrone per il primo presidente (Giuseppe Pagano); ai due lati le poltrone per i sei presidenti di sezione e i dodici consiglieri. Sempre ai due lati le poltrone per le altre cariche dello stato e per i membri del governo. Poi, al centro, le poltrone per gli invitati di riguardo, una doppia fila di tavoli per la stampa italiana ed estera e per i fotografi; poi altre quattro file di poltrone per   alti funzionari, ex deputati e costituenti; poi una piccola rappresentanza di pubblico, fra cui numerose signore. Alle 17.30 entra nella sala una rappresentanza di garibaldini in camicia rossa e con la bandiera della repubblica romana del 1849; poi, via via, si seggono nel lato di destra il presidente del consiglio De Gasperi e il vicepresidente Nenni, tutti i ministri e i sottosegretari, il presidente del Consiglio di stato Ruini, il conte Sforza. Sul lato di sinistra l’ex presidente del consiglio Parri, il maresciallo Messe (che è stato il comandante del Corpo italiano di spedizione in Russia – il Csir e poi Armir, 1941-1943 –  ma anche del Corpo italiano di liberazione che dal 1943 ha combattuto al fianco degli angloamericani fino alla fine della guerra) e molti dei neo eletti alla Costituente. Al centro due tavolini con due macchine calcolatrici per il computo dei voti.Alle 18, preceduta dal “primo” ufficiale giudiziario in toga rossa, entra nella sala la Corte, tutti in toga nera e tocco. Si accendono i riflettori e la sala si illumina. La ripresa è del cinegiornale, che si chiama “Giornale Nuova Luce”. Il presidente Pagano legge a bassa voce i risultati circoscrizione per circoscrizione (risultano ancora mancanti i dati di 118 sezioni), mentre i due ragionieri davanti alle macchine calcolatrici trascrivono i numeri per poi trarne le somme, che Pagano legge (sbagliando: dice, e subito si corregge, dodicimila invece di dodici milioni); comunica quindi che in altra seduta la Corte emetterà il giudizio definitivo su contestazioni e proteste e reclami e integrerà risultati con i dati delle sezioni ancora mancanti.Nonostante il risultato positivo, non c’è stata la proclamazione ufficiale della repubblica e nella sala c’è un’aria di gelo. De Gasperi, che aveva preparato un discorso, ripone in tasca le cartelle con nel volto un’espressione preoccupata. Si alza e si allontana con la copia del verbale che il presidente Pagano gli ha dato e che egli porterà a conoscenza del re, recandosi al Quirinale. Nella piazza di Montecitorio, davanti al palazzo, si è intanto radunata molta folla, che applaude i personaggi che escono via via dal portone e grida “Viva la repubblica”.   Sul referendum istituzionale l’Italia risulta divisa in due: la monarchia ha ottenuto la maggioranza in tutte le regioni centro-meridionali, cominciando dal Lazio (51,4 per cento; in Puglia 67,3 per cento), salvo le due province di Latina e Trapani. La repubblica ha vinto in tutte le regioni del Nord, salvo le province di Cuneo e di Padova. Le città più monarchiche: Lecce, Caserta, Napoli, Messina; le città più repubblicane: Ravenna, Trento, Forlì, Reggio Emilia, Ferrara. L’incontro di De Gasperi col re al Quirinale dopo la seduta della Corte di Cassazione a Montecitorio è molto teso; e si parla di uno scontro verbale violento fra De Gasperi e il ministro della Real Casa Falcone Lucifero.  Nella redazione del giornale si riflette la tensione del paese. Nella notte si guarda la prima pagina del giornale appena uscito dalle rotative: E’ nata la repubblica. Viva la repubblica”. La mattina dopo si leggono i titoli degli altri giornali: “La repubblica generata nella illegalità equivarrebbe a un colpo di stato” scrive a tutta pagina la monarchica “Italia nuova”; prudente anche l’”Unità”: La Corte di cassazione ha proclamato i risultati del referendum istituzionale ma Umberto si rifiuta di partire”; più scoperto l’”Avanti!”: “La repubblica è nata; bisogna difenderla”.  

La mattina dell’11 il Consiglio dei ministri si riunisce e, secondo quanto previsto dal decreto, “prende atto” dei risultati e affida al presidente De Gasperi le funzioni di Capo provvisorio dello stato. Nella notte il Consiglio dei ministri si riunisce ancora per esaminare una lettera in cui il re Umberto dichiara che accetterà i risultati del referendum soltanto quando verranno comunicati quelli definitivi con la maggioranza dei votanti e non soltanto dei voti validi. Fra governo e Corona si è così aperto un conflitto, ma il governo conferma la propria interpretazione e il re decide di lasciare l’Italia.

Umberto II parte nel pomeriggio del 13 dall’aeroporto di Ciampino, diretto a Cascais in Portogallo; lo fa senza avvertire il governo, salutato all’aeroporto di Ciampinmo da pochi fedelissimi. Prima di lasciare il Quirinale ha lanciato un proclama alla nazione in cui giudica un atto rivoluzionario quello compiuto dal governo, che “ha assunto arbitrariamente poteri che non gli spettavano”. Nella notte gli risponde con violenza la presidenza del consiglio: “Il re poteva attendere con serenità il giudizio sulle contestazioni e sui ricorsi da parte della Cassazione (la cui libertà il governo intende rispettare pienamente) senza temere soprusi”…”Ameremmo credere che quanto di fazioso e di mendace” è stato scritto “sia prodotto del clima passionale e avvelenato degli ultimi giorni. La responsabilità tuttavia è gravissima e un periodo che non fu senza dignità si conclude con una pagina indegna. Il governo e il buon senso degli italiani provvederanno a riparare a questo gesto, rinsaldando la loro concordia per l’avvenire democratico della patria”. Nello stesso consiglio dei ministri Alcide De Gasperi assume le funzioni (non i “poteri”) di capo provvisorio dello stato.

 In molte città, soprattutto nel monarchico Sud, si svolgono dimostrazioni e manifestazioni. L’episodio più grave è a Napoli, dove la polizia spara sulla folla: sette morti e una sessantina di feriti. 

Cinque giorni più tardi, la sera del 18, la Corte di cassazione rende noti finalmente i risultati definitivi del referendum: 12.727.923 voti per la repubblica, 10.719.284 per la monarchia; 54,3 per cento contro il 45,7. I voti non validi sono stati 1.509.735. La Corte chiarisce di ritenere che per “maggioranza di elettori votanti” si deve intendere “maggioranza di elettori che hanno espresso voti validi”. Comunque, sia pure per meno di mezzo milione di voti la scelta repubblicana risulta vincente anche in rapporto al numero complessivo dei votanti. E’ ufficialmente proclamata la repubblica.

1946 – Nelle elezioni per la Costituente maggioranza relativa alla Dc Il 2 giugno, insieme al referendum istituzionale si sono svolte anche le elezioni per l’Assemblea costituente. La Dc ottiene sul piano nazionale il 35,2 per cento e 207 seggi; al secondo posto i socialisti del Psiup col 20,7 per cento e 115 seggi; al terzo  il Pci col l8,9 per cento e 104 seggi; socialisti e comunisti insieme hanno la maggioranza relativa. I liberali, riuniti nella Unione democratica nazionale, ottengono il 6,8 e 41 seggi; i monarchici del Blocco nazionale della libertà ilil 2,8 e 16 seggi; il Fronte dell’Uomo qualunque il 5,3 e 30 seggi; il Partito repubblicano il 4,4 e 23 seggi.   In Toscana la Dc ottiene il 32,5 per cento dei voti (con punte del 48 in Lucchesia); è un capovolgimento della situazione prefascista, che in Toscana vedeva la prevalenza di posizioni laicistiche e anticlericali di influenza massonica. 

1946 – Elezioni amministrative a Firenze: vince il Pci

In Toscana un secondo e terzo turno di elezioni amministrative si svolge in autunno; a Firenze il 24 novembre; vince il Pci, seguito dalla Dc, molto al di sotto della media nazionale, e dal Psiup; sindaco è il comunista Mario Fabiani, che prevale sul democristiano Francioni. Alla presidenza dell’Ente comunale di assistenza la nuova amministrazione comunale nomina Giorgio La Pira.

Mario Fabiani sarà chiamato il “sindaco della ricostruzione”, mentre il suo predecessore, Gaetano Pieraccini è chiamato il “sindaco della liberazione”. Pieraccini, medico e studioso, quasi ottantenne, di appartenenza socialista, è stato infatti insediato dal Ctln il giorno stesso dell’insurrezione generale e della liberazione della città (vicesindaci Adone Zoli, dc, e lo stesso Fabiani), l’11 agosto del 1943. 

In giugno si svolge l’assemblea dei democristiani toscani. La Pira commenta così i risultati: “La mia consolazione è che siamo ad una rinascita del Cristianesimo e non dico solo del Cristianesimo ma della sua struttura interiore. E’ una cosa immensa, che avrà ripercussioni sociali: finisce un mondo, ne nasce un altro; e questo è il mondo del Cristianesimo, della civiltà cattolica integralmente ricostituita. E’ l’alba nuova che nasce e a noi resta e noi dobbiamo sentire l’entusiasmo religioso di questa opera politica. Noi abbiamo due compiti precisi. Il primo è di ordine interiore; il secondo  è di ordine concreto, politico, terreno: rifare democratica e cristiana la società. Perché a questo soltanto noi miriamo: rifare una civiltà cristiana”.

Nell’espressione “rifare una civiltà cristiana” Giorgio La Pira ha sintetizzato i motivi per i quali lui, Fanfani, Dossetti, Lazzati hanno accettato di impegnarsi in politica. Ma anche i vecchi del partito popolare sentono che la risposta degli italiani all’appello di civiltà lanciato dalla Dc segna una svolta non soltanto politica. Attilio Piccioni afferma, all’indomani del 2 giugno: “L’eredità politica e sociale della rivoluzione francese è andata miseramente in frantumi. La democrazia anticlericale ha fatto fallimento. E allora qual è la soluzione? La soluzione è congiungere il concetto autentico di democrazia con il concetto del Cristianesimo, della fraternità cristiana, della giustizia cristiana”.Sul settimanale della Dc senese “Popolo e libertà” don Mazzolari scrive sulla funzione mediatrice della Dc: “Con i socialisti e i comunisti il punto di convergenza è la giustizia sociale. Bisognerà portare socialisti e comunisti a riconoscere che il valore dell’uomo preesiste ed è più sacro di qualsiasi valore sociale e collettivo, cui va coordinato, mai sacrificato. Non è da saggi politici chiedere una Carta più cristiana di quanto lo sia il popolo a cui deve servire, come non si può domandare una Carta più socialista o comunista di quanto sia socialista o comunista il nostro popolo. Capiranno i partiti di sinistra e di destra la funzione mediatrice della Dc e saranno disposti a seguirla?”.

1946 – L’Assemblea costituente e la Commissione dei 75  Il 25 giugno l’Assemblea costituente (che viene comunemente chiamata la “Costituente”) inizia i suoi lavori a Montecitorio con le tribune del pubblico gremite di pubblico festoso. Dopo un discorso introduttivo di Vittorio Emanuele Orlando, decano dall’assemblea (1860-1952), viene eletto presidente il socialista Giuseppe Saragat (che si dimetterà il 6 febbraio 1947, dopo la scissione di Palazzo Barberini, e verrà sostituito da Umberto Terracini); vicepresidenti il comunista Umberto Terracini, il repubblicano Giovanni Conti e i democristiani Giuseppe Micheli e Fausto Pecorari. 

Quando si insedia come presidente della Costituente Giuseppe Saragat conclude il suo discorso con “Fate che il volto di questa repubblica sia un volto umano. La democrazia non è soltanto un rapporto fra maggioranza e minoranza, non è soltanto un armonico equilibrio di poteri sotto il presidio di quello sovrano della nazione, ma è soprattutto un problema di rapporti fra uomo e uomo. Dove questi rapporti sono umani, la democrazia esiste; dove sono inumani, essa non è che la maschera di una nuova tirannide”.

 Il 28 l’Assemblea elegge Capo provvisorio dello stato il giurista Enrico De Nicola (noto come monarchico; è stato presidente della Camera dal 1920 al 1924; ottiene l’80 per cento dei voti, perché i 40 consultori del Partito repubblicano votano per Cipriano Facchinetti); si dice che il primo candidato fosse il filosofo Benedetto Croce, che non ha trovato però consensi in Vaticano, che lo considera espressione di un’antica tradizione laica liberale.Il 19 luglio l’Assemblea costituente nomina una commissione di 75 membri (la “Commissione per la Costituzione”, detta “Commissione dei 75”) per la redazione della nuova carta costituzionale. In larga maggioranza sono docenti universitari. Presidente viene eletto Meuccio Ruini, già presidente del Consiglio di stato; vicepresidenti Umberto Tupini, Gustavo Ghidini e Umberto Terracini.Eletto deputato, Giorgio La Pira è uno dei 75 e partecipa attivamente ai lavori insieme a Dossetti, Fanfani, Moro, Lazzati. I parlamentari cattolici portano alla Costituente i principii riaffermati alla Settimana sociale di Firenze. 

La Commissione si divide in tre sottocommissioni: la prima (di 18 menbri) si occupa dei principi generale e dei “diritti e doveri dei cittadini”; la seconda (38 membri) dell’organizzazione costituzionale della stato; la terza  (18 membri)dei “lineamenti economici e sociali” (cioè dei principii che definiscono le finalità e gli strumenti dell’azione pubblica in economia).In seguito sarà istituita un’ulteriore commissione (di 18 membri) col compito di coordinare e amalgamare in un testo omogeneo le varie parti della Costituzione.

La prima sottocommissione affronta il tema dei “fini”. A Giorgio la Pira e a Lelio Basso sono affidate le relazioni generali sui “principii dei rapporti civili”. La relazione di La Pira sostiene che la Costituzione italiana dovrà andare oltre le tradizionali Costituzioni liberali, che avevano riconosciuto e tutelato i diritti civili e politici individuali. La personalità dell’uomo – dice La Pira – si esplica attraverso il lavoro e all’interno di comunità intermedie come la famiglia, l’impresa, l’ente locale. Senza i diritti sociali e comunitari, i diritti civili e politici non possono garantire pienamente la libertà e la dignità della persona umana: “Senza la tutele dei diritti sociali (diritto al lavoro, al riposo, all’assistenza ecc.) la libertà e l’indipendenza della persona non sono effettivamente garantite”; inoltre “è necessario tener conto delle comunità fondamentali, nelle quali l’uomo si integra e si espande, cioè dei diritti della comunità”. Il riconoscimento dei diritti sociali equivale essenzialmente alla garanzia del lavoro per il maggior numero di individui; il riconoscimento dei diritti comunitari include anche la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese.La relazione di La Pira suscita una vivace reazione. Il commissario Mastrojanni si dichiara contrario all’inclusione dei diritti comunitari nella Carta costituzionale, ritenendo sufficiente il riconoscimento del tradizionale diritto individuale di associazione. Togliatti dice che la relazione è viziata da un “eccesso di ideologia” e la relazione Basso appare preferibile perché meno problematica e più facilmente traducibile in un testo costituzionale. A questo punto interviene Rossetti, che ricorre aun argomento forte ed efficace: occorre introdurre nella Costituzione un principio cardine antifascista o afascista, che segni una cesura col passato regime: questo principio non può che essere quello che riconosce l’anteriorità della persona umana rispetto allo stato, che si realizza nelle comunità intermedie, cioè “nella famiglia e nelle associazioni sindacali”. Togliatti si persuade. In sottocommissione e poi in aula il duello dialettico continua, ma alla fine l’Assemblea approva i primi quattro articoli della Costituzione che attribuiscono alla Repubblica italiana il compito di tutelare, oltre ai fondamentali diritti civili e politici, anche i diritti sociali e comunitari e in particolare il diritto al lavoro.Il tema degli strumenti dell’azione pubblica è affrontato dalla terza sottocommissione. Fanfani, Taviani e Pesenti svolgono le relazioni quadro e contribuiscono a definire il testo dei 17 articoli sottoposti all’esame dell’Assemblea. Nel dibattito generale numerosi sono i tentativi di connotare in senso liberista o dirigista la costituzione economica. Il commissario comunista Montagnana presenta un emendamento che prevede l’esplicita adozione  di un piano economico per garantire il diritto al lavoro. La proposta è respinta. Luigi Einaudi presenta un emendamento che impegna lo Stato a rinunziare a tutti quei provvedimenti (brevetti, dazi, controllo degli investimenti) che favoriscono la formazione dei monopoli. La proposta è respinta. E’ respinta sia l’idea di uno Stato dirigista che pianifica l’economia, si l’idea di uno Stato liberista che rinunzia ad interferire sui meccanismo del mercato. Si delinea invece il profilo di uno Stato che interviene per tutelare i diritti sociali e comunitari.Una serie di articoli che  legittimano tre principali strumenti di azione pubblica sono approvati dall’Assemblea per garantire i fondamentali diritti della persona e delle comunità intermedie. Lo Stato può limitare il diritto di proprietà per renderla accessibile a tutti e per conciliare l’interesse privato con quello generale (art. 41-44); favorisce la cooperazione (art. 45) e la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese (art. 46) per ricomporre la fattura fra capitale e lavoro avvenuta agli albori del capitalismo; tutela la formazione del risparmio, garantendo la stabilità monetaria (art. 47) e finanziaria (art. 81) ed esercita un controllo sul credito (art. 47) per influire sulla distribuzione geografica e settoriale degli investimenti.La Costituzione affida allo Stato il compito di regolare e proteggere il mercato concorrenziale, predisponendo gli strumenti legislativi più efficaci per impedire la formazione di monopoli; lo fa in modo implicito, senza indicare uno schema di legislazione antitrust e rinviando genericamente a “programmi e controlli opportuni” (art. 41). Ciò che esplicitamente respinge è l’idea liberista che connette una politica economica attiva alla formazione di monopoli. La Costituzione prefigura invece uno Stato che protegge e orienta il mercato.I fini e gli strumenti connotano la costituzione economica italiana, differenziandola dalle tradizionali carte costituzionali di matrice liberale e socialista. Nelle prime sono tutelati prevalentemente i diritti civili e politici ed è tracciato il profilo di uno Stato minimo che non interferisce sul funzionamento del mercato; nelle seconde sono tutelati soprattutto i diritti sociali attraverso uno Stato che invade il mercato e la società.  Giuseppe Dossetti arriva un giorno a Firenze da Roma per offrire a Renato Branzi (segretario provinciale della Dc e molto vicino a Ettore Bernabei) la presidenza dell’Agip. L’Azienda generale petroli è stata costituita nel 1926 e il governo pensa di chiuderla. Branzi rifiuta l’offerta e indica Enrico Mattei, l’uomo che, invece di liquidare l’Agip, ne farà la base per la creazione dell’Eni (1953).

1946 – Muore la “Nazione del popolo”

Il 3 luglio si sciolgono tutti i Comitati di liberazione nazionale e nello stesso giorno la “Nazione del popolo” perde il sottotitolo di “organo del Comitato toscano di liberazione nazionale”. E’ il primo episodio di un profondo cambiamento nel panorama della stampa toscana. I tre partiti maggiori trovano un accordo: la testata della “Nazione del popolo” va alla Democrazia Cristiana; quella del “Nuovo Corriere” ai comunisti e ai socialisti. Il comunista Romano Bilenchi, redattore capo della “Nazione del popolo”, sarà dal 1948 il direttore del “Nuovo Corriere”. La “Nazione del popolo” cambierà la testata in “Il mattino dell’Italia centrale” (più tardi in “Il giornale del mattino”) e direttore sarà nominato un vecchio giornalista del “Corriere della sera”, Cristano Ridomi.L’accordo per attribuire la proprietà e le direzione politica del “Nuovo Corriere” ai socialcomunisti e della “Nazione del popolo” ai democristiani avviene fra gli esponenti dc fiorentini Renato Branzi (segretario provinciale) e Adone Zoli e il deputato comunista Orazio Barbieri. Per realizzare l’operazione i socialcomunisti e i democristiani devono indennizzare il Pli e il Partito d’azione, comproprietari della “Nazione del popolo”. Pci e Psi versano subito la loro quota, ma la Dc non ha una lira. Vittore Branca (il direttore del giornale per la Dc) si rivolse all’amico Giovan Battista Montini, sostituto della Segreteria di stato vaticana, pregandolo di ricevere lui e Renato Branzi, che con Montini ha vissuto comuni vicende alla Gioventù cattolica prima del fascismo. Montini sa che Branzi è un cattolico di fede profonda e di pratica militante e dopo averlo ascoltato gli dice: “Renato, tu pensi che in questo momento sia più urgente investire risorse nella ricostruzione delle chiese distrutte dalla guerra o nell’acquisto di un quotidiano?”. Branzi risponde: “Non ho dubbi. Più importante è avere in Toscana un quotidiano di ispirazione cristiana, autonomo dalla Chiesa e dalla Dc; un giornale non clericale, non conservatore, fautore della dottrina sociale impostata da Leone XIII nella sua ‘Rerum novarum’ e rielaborata nel codice di Camaldoli”. Montini apre allora un cassetto e dice: “Proprio ieri Il Santo Padre (Pio XII) mi ha dato questo assegno di otto milioni, lasciatogli da un visitatore, perché lo destini alla ricostruzione delle chiese distrutte dalla guerra in Toscana. Il Papa è molto angosciato per la presenza in Toscana di un comunismo ideologizzato come forse in nessuna altra parte d’Italia. Ti do questo assegno, condividendo la tua diagnosi e sapendo che ne farai buon uso. Spiegherò al Santo Padre il cambio di destinazione”.Il primo numero del “Nuovo Corriere” della nuova serie è uscito il 20 giugno del 1945 con la provvisoria direzione del sindaco Gaetano Pieraccini (redattore capo Giulio Caprin) e poi del sindaco eletto Mario Fabiani. La proprietà della testata è ripartita fra comunisti, socialisti e azionisti; ma socialisti e azionisti si disimpegnano per mancanza di fondi, anche se rimangono formalmente rappresentati nel consiglio di amministrazione della società editrice. Nella redazione della “Nazione del popolo” i redattori devono scegliere; ualcuno va al “Nuovo Corriere”, ma la maggior parte rimane nel giornale divenuto democristiano: non solo i cattolici, ma anche quelli di provenienza liberale e azionista. Tra i redattori dei due giornali i rapporti rimarranno tuttavia ottimi e ci saranno anche scambi di collaborazione. La competizione non sarà fra loro, ma con la vecchia “Nazione”, che nel 1947 sarà finalmente autorizzata a riprendere le pubblicazioni e ritroverà il suo mercato di lettori nelle fasce moderate dell’elettorato.Col cattolico  Raffaello Palandri, che diventa redattore capo grazie alla sua antica esperienza professionale, rimangono alla “Nazione del popolo”, poi “Mattino dell’Italia centrale”, Ettore Bernabei, democristiano; Angiolo Maria Zoli, dc, figlio di Adone, che nel 1957 sarà presidente del consiglio; Manlio Cancogni e Carlo Cassola, già Partito d’azione; Sergio Lepri, già Pli e Sinistra liberale.  Con la ripartizione della stampa quotidiana fiorentina il “Mattino dell’Italia centrale” va al terzo piano del palazzo della vecchia “Nazione” in via Ricasoli; il “Nuovo Corriere” al secondo piano; il primo piano rimane per “la Nazione”, che aspetta di essere autorizzata a riprendere le pubblicazioni.Il proprietario della “Nazione” è Egidio Favi, un uomo alto e grosso, sopra i sessanta, che si appoggia a un bastone;  ovviamente non sopporta volentieri che altri quotidiani alberghino nel suo palazzo e cerca di vendicarsi in qualche modo; prima, con l’ascensore che non viene fatto funzionare; poi con l’ascensore che funzione ma con un apparecchio a moneta (e i redattori, per dispetto, salgono a piedi). Ma un giorno – chi sa come, chi sa perché – un petardo esplode nell’ascensore; e qualche giorno l’ascensore riprende a funzionare gratuitamente.

In maggio una forte ondata speculativa colpisce la Borsa con eccezionali rialzi dei titoli industriali; la causa probabile è in una serie di provvedimenti governativi che hanno portato alla rivalutazione degli impianti industriali. E’ la prima volta che la Borsa e la possibilità di rapidi guadagni infiammano parecchi cittadini (il cosiddetto “parco buoi”). La ventata prende anche qualche redattore del giornale con accalorate discussioni in redazione, che mostrano una totale ignoranza dei meccanismi borsistici.  Un redattore (Cancogni) entra di corsa in redazione: “Compriamo azioni della birra Peroni!”. “Perché?”. “Siamo entrati nell’estate e la birra si consuma di più”.Nella redazione del giornale si sviluppa un clima di grande amicizia e le vicende personali si intrecciano col lavoro di ogni giorno. Quando la prima edizione (la “nazionale”) va in macchina c’è sempre una pausa di mezz’ora o un’ora; qualcuno (il vecchio giornalista Palandri) propone di andare a mangiare un piatto di tortellini al buffet della stazione, aperto anche a quell’ora (sembra una specie di rito, che risale agli anni di prima della guerra; alla stazione c’è sempre un giro di prostitute). I più giovani preferiscono rimanere in redazione; si parla di politica, di ricordi (la guerra, la Resistenza) e anche di fidanzamenti e di matrimoni. In ottobre Ettore Bernabei si sposa con Elisa Gallucci; qualcun altro fa progetti per l’anno venturo. In quei giorni si parla anche delle voci che circolano sulla separazione  di Palmiro Togliatti da Rita Montagnana e della sua nuova compagna, Nilde Iotti; e anche delle polemiche all’interno del Partito comunista su questa borghese vicenda sentimentale. Interessante è che i vertici del partito mostrano di avere concetti molto rigidi sui principii della famiglia e dei rapporti coniugali.   1946 – De Gasperi a Parigi per il trattato di pace 

Con Enrico De Nicola nominato Capo provvisorio dello stato (“provvisorio” in attesa della nuova Costituzione) Alcide De Gasperi forma il 15 luglio il suo secondo governo (Dc, Pci, Psiup e Pri). De Gasperi agli interni, Pietro Nenni agli esteri, Gonella alla pubblica istruzione, Togliatti alla giustizia.In luglio si apre a Parigi la conferenza della pace e durerà fino a ottobre. Il 10 agosto De Gasperi parla all’assemblea plenaria della conferenza: “Sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me. E’ soprattutto la mia qualifica di ex-nemico che mi fa considerare come imputato. Ma io sento la responsabilità e il diritto di parlare anche come democratico antifascista, come rappresentante della nuova repubblica che, armonizzando in sé le aspirazioni umanitarie di Giuseppe Mazzini, le concezioni universalistiche del Cristianesimo e le speranze internazionalistiche dei lavoratori, è tutta rivolta verso quella pace duratura e costruttiva che voi cercate e verso quella cooperazione fra i popoli che avete il compito di stabilire”. Quando De Gasperi è sceso dalla tribuna solo il Segretario di stato americano, James Byrnes, si è alzato dal suo banco e gli ha stretto calorosamente la mano.

Il 5 settembre, prima che la conferenza di Parigi termini i suoi lavori e rediga il trattato di pace con l’Italia De Gasperi riesce a trovare un accordo col ministro austriaco degli esteri Karl Gruber perché l’Alto Adige rimanga all’Italia con un’alta autonomia amministrativa, culturale ed economica.In giugno il governo De Gasperi (ministro della giustizia Palmiro Togliatti) ha deciso un’amnistia per i reati politici compiuti dal fascismo. L’intenzione è di favorire una pacificazione del paese, ma l’amnistia, applicata con grande generosità, porta alla scarcerazione di molti esponenti del passato regime, anche colpevoli di gravi reati. In numerosi casi i fascisti riprendono le loro vecchie posizioni di potere e qualcuno parla di restaurazione. Si ha conferma che la nascente contrapposizione Est-Ovest sul piano mondiale e la contrapposizione fra la maggioranza democratica e l’opposizione socialcomunista all’interno condizionano ogni aspetto della vita politica e sociale.Il 26 dicembre il Movimento sociale italiano è fondato a Roma per iniziativa di Giorgio Almirante, Arturo Nichelini, Pino Romualdo ed altri esponenti del passato regime fascista.

1947 –  Si ricomincia a parlare di guerra in un mondo che vuole la pace

   Sintesi. La contrapposizione fra blocco sovietico e blocco occidentale si va via radicalizzando. I governi europei di unità nazionale, che continuavano a raccogliere le forze politiche protagoniste della lotta antinazista, si sfaldano, e il partito comunista – come in Italia col terzo governo di Alcide De Gasperi – viene mandato all’opposizione. In Italia i socialisti del Psiup, che hanno rinnovato il patto di unità d’azione con i comunisti, si riuniscono a congresso in gennaio e si scindono. Il Partito d’azione decide di sciogliersi e di confluire nel Psi; una forte minoranza si è già orientata verso la Sinistra liberale, uscita nel gennaio 1946 dal Pli; alle elezioni di giugno i due tronconi si sono presentati insieme nella Concentrazione democratico-republicana (alla Costituente ha portato solo due parlamentari, che sono però Ferruccio Parri e Ugo La Malfa); nel corso dell’anno confluiranno nel Partito repubblicano.Nell’Europa orientale i regimi costituitisi dopo la fine della guerra si trasformano progressivamente in repubbliche modellate secondo il sistema sovietico. In America il presidente Truman sostiene che gli Stati Uniti debbono intervenire dovunque, anche militarmente, a sostegno dei paesi democratici; e per la stabilizzazione economica e politica dell’Europa il segretario di stato George Marshall vara un grande piano di aiuti: grano, viveri, medicinali.

Situazione sempre precaria in Italia per la vita di tutti i giorni, ma in lento miglioramento. Razione settimanale delle sigarette: cinque “Macedonia” e trentacinque di altro tipo; in aumento matrimoni e nascite; entra in commercio la lavatrice elettrica; i quotidiani possono uscire a quattro pagine una volta la settimana (prezzo 12 lire).

1947 – Firenze si risveglia

Dopo anni di letargo, Firenze si risveglia come vivace centro di cultura. Una rivista, che non per niente si chiama “Il Ponte”, nata già l’anno prima, riunisce intellettuali di estrazione liberaldemocratica e intellettuali di radici cattoliche. Anche un’altra rivista, nata contemporaneamente, “La Rassegna”, vede un analogo ventaglio di collaboratori.

Fra i collaboratori del “Ponte”: Piero Calamandrei, Luigi Salvatorelli, Francesco Carnelutti, Eugenio Montale, Vittore Branca, Pietro Pancrazi, Carlo Levi, Mario Bracci, Gaetano Salvemini, Arrigo Levasti e un nome nuovo: Giorgio La Pira. Fra i collaboratori della “Rassegna” Mario Luzi, Carlo Betocchi, Carlo Bo e anche qui Giorgio La Pira e un altro nome nuovo: Amintore Fanfani.Nel campo propriamente cattolico ha ripreso le pubblicazioni la domenicana “Vita sociale”, che già dal suo nome conferma l’esigenza di “socialità” del mondo cattolico, cioè la lettura delle vicende della guerra e del dopoguerra alla luce della dottrina sociale della Chiesa. Così la francescana “Città di vita”, così il “Focolare” di don Giulio Facibeni, così il settimanale “La Badia” di Giorgio La Pira, un giovane docente universitario di diritto romano intorno al quale si riunisce da tempo un folto gruppo di intellettuali, giovani e meno giovani.Alla “Badia” collaborano, oltre a La Pira, Enrico Bartoletti, Giorgio Bassani, Carlo Betocchi, Nicola Lisi, Mario Luzi, Giovanni Papini, Alessandro Parronchi.Sulla sponda opposta, per iniziativa di Romano Bilenchi, nasce “Società”. E’ una rivista formalmente legata al Pci, di fronte al quale rivela tuttavia un evidente spirito di indipendenza e un’autonomia di giudizio e di critica, tanto che nell’autunno del 1946 gli organi dirigenti del partito esigono un cambiamento della direzione e della sua linea politico-culturale. Direttore è Ranuccio Bianchi Bandinelli; collaboratori Delio Cantimori, Cesare Luporini, Emilio Sereni.

1947 – Nasce il “Mattino dell’Italia centrale”

Alla “Nazione del popolo”, ormai diventata col 1° gennaio “Il Mattino dell’Italia centrale”, il direttore Cristano Ridomi dà ai redattori lezioni di buon giornalismo, ma è estraneo all’atmosfera che ha caratterizzato il giornale e ignora i fermenti che agitano l’ambiente politico e culturale di Firenze.

Nelle ultime settimane della “Nazione del popolo” il giornale ha pubblicato una specie di referendum per chiedere ai lettori quale testata preferiscono; fra le varie proposte risulta preferita quella di “Mattino”; ma il “Mattino” è una testata ancora di proprietà di qualche editore e quindi viene deciso di ripiegare su “Mattino dell’Italia centrale”; graficamente, però, “Il Mattino” è scritto in grande e “dell’Italia centrale” è un sottotitolo in piccoli caratteri. I giovani redattori della “Nazione del popolo” ed ora del “Mattino dell’Italia centrale” hanno dovuto imparare da sé come si fa informazione e come si scrive sui giornali. I vecchi colleghi provenienti dalla “Nazione” hanno dato loro insegnamenti pratici e tecnici (Palandri), ma non le basi culturali di un giornalismo moderno. Cristano Ridomi è il primo che insegna come si fa un titolo e come si scrive  una recensione; e che il giornalista deve soprattutto attrarre l’attenzione del lettore e interpretare i suoi gusti, specie su fatti di cronaca vera e attinenti alla vita quotidiana. Ci vuole anche un po’ di fantasia e di vivacità; ecco il titolo (che fece scalpore) di un articolo di fondo di Ridomi: “Un partito dagli occhi azzurri” (contro la pretesa, allora molto diffusa, di volere partiti fatti su misura delle proprie convinzioni e delle proprie aspirazioni).

Come tutti i quotidiani italiani il giornale aumenta le sue pagine (da due a quattro e  il giovedì e la domenica a sei; in seguito la pagine saranno otto). Crescono i redattori: arrivano Hombert Bianchi, professore di lettere al liceo (diventerà nel 1956 direttore del giornale; poi, nel 1961, sarà il portavoce di Amintore Fanfani presidente del consiglio); Sandro Norci, professore di storia e filosofia al liceo (nel 1965 passerà alla redazione centrale dell’Ansa a Roma e diventerà capo del servizio culturale); Paolo Cavallina, scrittore, poi conduttore alla Rai di programmi di successo; Leonardo Pinzauti, esperto musicale, poi direttore del giornale, poi critico musicale alla “Nazione”: Silvano Giannelli, critico d’arte; Franco Frulli, poi capo ufficio stampa di molti ministri dc; Ugo Guidi (diventerà capo dell’ufficio stampa della Rai), Uberto Fedi (diventerà assistente di Ettore Bernabei direttore generale della Rai); Giampaolo Cresci (diventerà capo dell’ufficio stampa della Rai e poi direttore del “Tempo”); Renato Venturini, poi giornalista alla Rai e capo dell’Ufficio documentazione; Luciano Ricci, poi giornalista alla Rai; Riccardo Ehrman, poliglotta, poi inviato speciale dell’agenzia americana Associated Press (nel 1953 a Teheran fu l’unico giornalista che riuscì a salire a bordo dell’aereo che portava a Roma lo scià e Soraya dopo il colpo di stato di Mossadeq), poi corrispondente dell’Ansa da Berlino (il 9 novembre 1990 fu la sua domanda, in conferenza stampa, al responsabile delle informazione del governo della Rdt a dare avvio all’apertura del muro di Berlino; per cui fu portato in trionfo dai berlinesi che attraversavano il confine); più tardi sarebbero arrivati Vittorio Citterich, poi vaticanista del telegiornale Rai; Fulvio Damiani, poi giornalista alla Rai e cronista politico al telegiornale Rai.Fra i redattori Carlo Cassola, che redige insieme a Sergio Lepri l’informazione dall’estero e la terza pagina, sta vivendo un momento di grande perplessità e incertezza: continuare a fare il giornalista o dedicarsi pienamente a quella che sente essere la sua vocazione, quella di narratore? Chiede consiglio al collega Sergio Lepri, che, pur sapendo di perdere così un amico col quale lavora in maniera tanto affiatata, lo incita a riprendere la sua vera strada. Cassola lascia il giornale e si ritira a Volterra, dove aveva cominciato a guadagnarsi la vita insegnando al liceo e confortandosi con lo scrivere racconti pubblicati da riviste giovanili. Nel 1952 pubblicherà il suo primo romanzo, “Fausto e Anna”, nel 1953 un racconto che gli procurerà subito notorietà, “Il taglio del bosco”, nel 1960 il romanzo che lo renderà famoso, “La ragazza di Bube”.

Un redattore del giornale (Lepri) legge un giorno  sulla rivista americana “Time” un articolo che parla di una invenzione in parte ancora misteriosa: un apparecchio chiamato “elaboratore elettronico” costruito nella università americana di Pennsylvania e capace di fare migliaia di calcoli in pochissimi secondi. Un redattore che conosce molto bene l’inglese (Riccardo Erhman) lo traduce e ne fa un sunto e il giornale lo pubblica. Il “Mattino” è, almeno in Italia, il primo giornale che parla di un’invenzione che in prosieguo di tempo (con l’invenzione del transistor e dei circuiti integrati) cambierà non solo i sistemi di comunicazione ma meccanismi operativi e costumi dell’intera società: la rivoluzione del computer.  

1947 – De Gasperi negli Stati Uniti

Il 3 gennaio De Gasperi parte per gli Stati Uniti, accompagnato dal direttore generale della banca d’Italia Donato Menichella e dal capo dell’Ufficio cambi Guido Carli. La situazione economica italiana è disperata. A Washington De Gasperi si incontra col Segretario di stato Byrnes (l’unico che gli aveva stretto la mano dopo il suo intervento alla conferenza della pace di Parigi) e poi, alla Casa Bianca, col presidente Truman. Il giorno seguente il Segretario al tesoro consegna a De Gasperi un assegno di 50 milioni di dollari e qualche giorno dopo la Export-Imporet Bank concede all’Italia un credito di 100 milioni di dollari.Al ritorno a Roma, De Gasperi, prendendo spunto dalla scissione del Psiup, presenta le dimissioni del governo e il 2 febbraio ne forma uno nuovo, il suo terzo; è ancora di struttura ciellenistica, con Pci e Psi, per non rompere con le sinistre nella fase conclusiva della stesura della Carta costituzionale (c’è ancora da votare l’articolo 7). 

1947 – I socialisti si dividono

Il 9 gennaio si è aperto a Roma il XXV congresso nazionale del Psiup, ma contemporaneamente un gruppo di alti esponenti del partito si riunisce a palazzo Barberini e fonda un nuovo partito, il Partito socialista dei lavoratori (Psli; per cui i socialdemocratici verranno scherzosamente chiamati “piselli”; finché non cambieranno la dizione in Psdi, Partito socialista democratico); la base del nuovo partito è l’autonomia dei socialisti dal Partito comunista. Il Psiup riassume la vecchia denominazione di Psi e nomina segretario Lelio Basso. Sandro Pertini, che si era operato per evitare la scissione, rimane nel partito, ma lascia tutte le cariche interne, fra cui la direzione dell’”Avanti!”. Pietro Nenni si dimette da ministro degli esteri. Saragat si dimette da presidente dell’Assemblea costituente.

1947 – Dieci minuti di silenzio per il trattato di pace

Il 10 febbraio dieci minuti di silenzio in tutto il paese hanno salutato tristemente la firma a Parigi del trattato di pace imposto all’Italia dalle potenze vincitrici. Anche perché stretta da altri problemi molto pratici la gente non ne è rimasta troppo amareggiata. Oltretutto il trattato non contiene clausole tremende: l’Italia perde le sue colonie, anticipando così il generale processo di decolonizzazione, e perde l’Etiopia e l’Albania, cioè paesi aggrediti e invasi dal fascismo. Motivo di dolore è semmai, specie fra le vecchie generazioni, la perdita dell’Istria e soprattutto delle sue città costiere, che conservano ancora l’arte, la cultura e la lingua dell’antica repubblica di Venezia; è dolore soprattutto il distacco di Trieste, che, per non restituirla all’Italia e non darla alla Jugoslavia di Tito, viene trasformata in Territorio libero.  

In previsione della conferenza della pace il giornale ha incaricato un giovane redattore (Lepri) di fare un’inchiesta su tutte le regioni  di confine rivendicate da altri paesi (Ventimiglia,  Briga e Tenda, Valle d’Aosta, Alto Adige, Trieste e l’Istria). Al suo ritorno racconta le sue peripezie di inviato speciale: in corriera, scortata dalla polizia, da Firenze a Genova (sul passo del Bracco c’erano stati attacchi di banditi); in auto privata da Savona a Cuneo (e incontro con due banditi sull’Appennino); da Cuneo a Tenda sul rimorchio e le traversine della ferrovia, perché la strada è interrotta; da Torino a Trento  sul carro di un treno merci;  al ritorno, in treno da Bologna a Firenze,  sette ore in piedi. Questo, in questi anni, è il giornalismo.L’inviato racconta ai colleghi anche le sue impressioni sulla situazione ai confini, gli errori compiuti dal fascismo e le possibilità di non perdere quelle terre. Dice anche che in partenza (questo era il sentimento dei giovani dopo il nazionalismo fascista) era del parere da cittadini di lingua tedesca, fosse giusto restituirlo agli austriaci, ma che, sul posto, ha trovato valide le ragioni che prima di partire gli ha illustrato il professor Carlo Battisti, docente di glottologia all’università ed esperto di lingua e cultura ladina (lo ritroveremo più avanti come protagonista del film “Umberto D” di De Sica); cioè che i veri altoatesini sono i cittadini di etnia ladina e non gli austriaci, che, in tempi relativamente recenti, sono scesi dal Nord Tirolo perché nelle valli del sud c’era più sole e migliori condizioni per l’agricoltura e hanno così tedeschizzato le popolazioni ladine.  1947 – Nasce un’espressione terribile: “guerra fredda”

Il 12 marzo il presidente Truman dichiara che gli Stati Uniti devono intervenire a sostegno dei regimi democratici impegnati nella difesa delle loro libertà contro l’azione di minoranze interne e le pressioni provenienti dall’esterno (Urss).Nasce così la cosiddetta “dottrina Truman”. Il politologo americano Walter Lippman conia la definizione di “guerra fredda” per indicare la situazione di conflitto strisciante e permanente fra i due blocchi, occidentale e sovietico.Il 3 aprile il governo italiano è costretto a decretare l’aumento del prezzo del pane. In varie città del paese si svolgono manifestazioni di protesta per le difficili condizioni di vita; interventi della polizia e qualche morto. Il 28 aprile De Gasperi in un discorso alla radio lancia un appello al paese per una ripresa di fiducia nell’economia nazionale e denunzia i comunisti di doppiezza fra l’attività di governo e le dimostrazioni di piazza. Il 28, al Consiglio dei ministri, De Gasperi sostiene che Dc, Psi e Pci non sono in grado da soli di governare il paese di fronte alla drammaticità della situazione e che è necessaria la collaborazione di quello che definisce il “quarto partito”, cioè le classi medie e il mondo economico. Il 13 maggio De Gasperi presenta le dimissioni del governo (in marzo la Costituente ha approvato l’articolo 7 della Costituzione).  Il 15 marzo l’Assemblea costituente approva gli accordi di Bretton Woods, con i quali nel 1944 – nella località americana nel New Hapshire, ancora durante la guerra – i 44 paesi alleati contro la Germania avevano definito il nuovo ordine economico e finanziario internazionale (stabilizzazione monetaria, risanamento del sistema internazionale dei pagamenti, ricostruzione postbellica, aiuti ai paesi arretrati). Alla conclusione della conferenza erano stati istituiti il Fondo monetario internazionale (in inglese Ifm, “International monetary fund”) e la Banca Mondiale (più esattamente “Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo”, da cui Birs). Il dibattito vede da un lato i liberali Einaudi e Corbino che interpretano gli accordi come un sostanziale ritorno all’oro e dall’altra il comunista Pesenti che li considera come una tregua nella perenne competizione fra i paesi capitalistici; le forze di centro danno un’interpretazione intermedie e il ministro Campilli, democristiano, sostiene che gli accordi segnano l’inizio di una politica di concertazione tra governi nazionali e organismi internazionali e la correzione degli squilibri esterni e il mantenimento degli equilibri interni dovrà essere il frutto di una consapevole collaborazione internazionale.  Il 20 marzo riprende le pubblicazioni la vecchia testata fiorentina “La Nazione”. Palmiro Togliatti ministro della giustizia ha fatto un accordo con Egidio Favi, editore del quotidiano sotto il fascismo, e in base al decreto di amnistia gli ha cancellato le imputazioni di profitti di regime, restituendogli la proprietà dello stabilimento tipografico di via Ricasoli. La “Nazione, che dopo il 25 aprile 1945 non era stata autorizzata a uscire, può così tornare in edicola; in compenso Favi si è impegnato a stampare gratuitamente per cinque anni il comunista “Nuovo Corriere”.  Redattori della “Nazione” sono – fra quelli che faranno poi carriera in altri giornali –  Augusto Livi, Giorgio Signorini, Alceste Nomellini (figlio del pittore Plinio), Gianfranco Piazzesi; fra i collaboratori Enzo Forcella, Alberto Jacoviello, Massimo Mida, Aldo Capitini, Vasco Pratolini.  

L’articolo 7 della Costituzione che regola i rapporti fra Stato e Chiesa viene approvato dall’Assemblea costituente il 25 marzo del 1947 dopo un dibattito durato un mese fra le tesi laicistiche e quelle cattoliche. Prima di procedere alla votazione parlano De Gasperi e dopo di lui il segretario del Pci Palmiro Togliatti, che a sorpresa annunzia il voto favorevole del suo partito, giustificandolo con la necessità di evitare gravi lacerazioni nel paese. Hanno votato a favore democristiani, comunisti, qualunquisti, una parte di liberali, Orlando e Nitti.

 Nel corso del dibattito in aula, sviluppatosi nell’arco di un intero mese, sono intervenuti a sostegno delle tesi laiche (contrarie soprattutto all’inserimento nella Costituzione del Concordato del 1929, i cosiddetti trattati lateranensi) Piero Calamandrei, Concetto Marchesi, Benedetto Croce, Pietro Nenni; a sostegno di quelle cattoliche Giuseppe Rossetti. Giorgio La Pira, Stefano Jacini. Un giorno, tornando da Roma a Firenze, La Pira racconta a Bernabei e ad altri frequentatori del salotto di don Bensi (Raffaele Bensi, parroco  della chiesa di San Giovannino di Dio, era il confessore di La Pira e amava aprire la sua abitazione a tutti i giovani, anche non credenti o non praticanti, ed erano tantissimi) che ha avuto nell’abitazione  di Monsignor Montini, sostituto della Segreteria di stato vaticana, lunghe discussioni con Moro, Dossetti e Fanfani su una formulazione dell’articolo 7 della Costituzione che sancisca la convalida del Concordato del 1929 fra la Santa Sede e lo Stato italiano. L’accordo fu raggiunto segretamente dopo indirette consultazioni (mediatore fu monsignor Giuseppe De Luca) col segretario del Pci Palmiro Togliatti. Il 1° maggio Salvatore Giuliano attacca a Portella della Ginestra, una manifestazione di lavoratori. Otto morti e una trentina di feriti. E’ una vicenda che rimarrà oscura: chi c’è dietro il bandito Giuliano?Il 14 maggio l’ambasciatore italiano a Washington, Alberto Tarchiani, è ricevuto dal presidente Truman, che garantisce l’appoggio degli Stati Uniti a un governo De Gasperi senza il Pci.   

1947 – Il quarto Governo De Gasperi, il primo senza il Pci

Il 31 maggio Alcide De Gasperi costituisce il suo quarto ministero, un monocolore democristiano; vicepresidente e ministro delle finanze e tesoro è Luigi Einaudi); agli interni Mario Scelba; agli esteri l’indipendente Carlo Sforza. Ministro del lavoro e della previdenza sociale è Amintore Fanfani.

Amintore Fanfani, nato a Pieve Santo Stefano (Arezzo) nel 1908, laureato in economia e commercio alla Cattolica di Milano e poi docente di storia economica, fece parte nell’immediato dopoguerra, con Giuseppe Dossetti e Giorgio La Pira, del gruppo di “Cronache sociali”; aveva aderito alla Democrazie Cristiana, fondata a Milano, in un convegno clandestino mell’ottobre del 1942, da Alcide De Gasperi, Stefano Jacini, Achille Grandi, Piero Malvestiti e Giovanni Gronchi. Il 3° maggio esce il primo numero di “Cronache sociali” con l’intento. con forte connotazione religiosa, di mediare fra azione politica e azione culturale. Ai primi di giugno si svolge a Firenze il primo congresso nazionale della Cgil, dove si accentuano le divisioni fra la corrente democristiana e quella di sinistra; il punto di maggiore attrito è sulla opportunità che i sindacati promuovano scioperi di natura politica.

Il 5 giugno il Segretario di stato americano George Marshall illustra il suo piano di aiuti per la stabilizzazione politica ed economica dei paesi dell’Europa occidentale. L’iniziativa – che viene chiamata Erp (“European Recovery Program”), ma sarà comunemente chiamata “Piano Marshall” – sarà respinta, per costrizione di Mosca, dai paesi dell’Europa orientale. Il piano di aiuti a Francia, Italia e Austria costerà al governo americano 597 milioni di dollari. Il 22 settembre, a Parigi, sedici paesi firmano una risoluzione che fissa quattro obiettivi comuni: aumento della produzione, mantenimento della stabilità monetaria, progressivo abbattimento delle barriere doganali intereuropee, graduale riduzione del fabbisogno di dollari. Fino al 1952 l’Italia riceve aiuti pari al 40 per cento dei danni di guerra. Gli aiuti consistono in assegnazione gratuita di merci (“grants”) e aperture di credito a lungo termine. Per i “grants” (prodotti agricoli, carbone e petrolio) il governo stila e trasmette alle autorità americane la lista delle merci da importare; le imprese italiane si procurano i dollari presso l’Ufficio italiano cambi (al nuovo cambio di 575 lire per un dollaro) e acquistano direttamente presso le ditte americane le merci che desiderano; successivamente le autorità americane restituiscono all’Ufficio italiano cambi i dollari spesi. L’Ufficio italiano cambi si ritrova quindi con le lire versate dalle imprese italiane più i dollari rimborsati dal governo americano; dispone cioè di un valore doppio di dollari. L’Ufficio è tenuto a trasferire al Tesoro il corrispettivo in lire dei dollari rimborsati. E’ questo il famoso “fondo lire” che il governo italiano decide di utilizzare, almeno fino al 1949, soprattutto per ricostituire le riserve di valuta pregiata  Nel 1946 l’Italia compie dunque la grande scelta di aprirsi alle relazioni economiche internazionali; opera una parziale liberalizzazione valutaria e sceglie di stare nel rinascente mercato internazionale. De Gasperi e la Dc considerano queste scelte come l’inizio di un processo di cooperazione internazionale e di integrazione europea nel quale la politica continua a svolgere una funzione di orientamento e di governo dell’economia.  

Tra il maggio del 1946 e il settembre del 1947 l’inflazione è aumentata del oltre il 100 per cento. I prezzi sono raddoppiati perché è esploso il potenziale inflativo accumulato durante la guerra, quando il sistema economico era stato inondato di liquidità e soltanto i controlli amministrativi (ammassi, razionamenti, blocco di prezzi e salari) avevano represso la crescita dei prezzi. Nel dopoguerra, spezzata la camicia di forza, si scatena la forza distruttrice dell’inflazione, che opera una iniqua redistribuzione della ricchezza e, distruggendo  il risparmio, mina le basi della ripresa produttiva. La moneta in eccesso serve a finanziare soprattutto il disavanzo pubblico.

 Nell’estate il governo decide una stretta creditizia. Il governatore della Banca d’Italia e neo ministro del tesoro, Luigi Einaudi, dispone che a partire dal 30 settembre la banche trattengano sotto forma di riserve obbligatorie una percentuale di depositi non inferiore al 25 per cento. Il 6 settembre il tasso ufficiale di sconto viene portato dal 4 al 5.5 per cento. In pratica, si erogano meno prestiti e a tassi più elevati. Contemporaneamente il governo cerca di tappare la falla del debito pubblico da cui defluisce il debito; abolisce il prezzo politico del pane, che pesa in misura rilevante sul debito pubblico, e fa approvare dal Parlamento l’imposta straordinaria che tanto aveva fatto discutere i ministri dei governi di solidarietà nazionale. Non è l’imposta sul capitale immaginata dai riformatori; le aliquote sono basse e le rateizzazioni lunghe; ma lo scopo è ridurre il debito pubblico.La manovra riesce, ma non è indolore: la liquidità in eccesso viene assorbita e le imprese, prevedendo un ribasso dei prezzi, immettono nel mercato le scorte accumulate. L’inflazione cala rapidamente, ma la restrizione del credito provoca la crisi delle imprese più inefficienti o maggiormente esposte col sistema bancario. Però l’economia frena e riparte.  Gli uomini della tradizione liberale hanno occupato i dicasteri-chiave e hanno assunto le  redini della politica economica nazionale. E’ stata la “svolta” tanto attesa e temuta. Ml dibattito parlamentare seguito all’approvazione della manovra monetaria le sinistre accusano Einaudi di avere operato un controllo del credito puramente quantitativo. Anche esponenti della sinistra cattolica, come Rossetti su “Cronache sociali”, denunziano la mancanza di criteri selettivi: il governo avrebbe dovuto indirizzare il credito verso particolari settori e aree geografiche. Ma in Parlamento Einaudi replica che il controllo qualitativo lo fanno quotidianamente le banche, quando decidono di finanziare soltanto gli imprenditori migliori; la selezione la fa il mercato.La stabilizzazione monetaria del 1947 è il prezzo che l’Italia paga per tutelare il risparmio e per entrare a far parte di quelle istituzioni europee e internazionali che tanto premevano a De Gasperi e alla Democrazia Cristiana; ma segna anche il temporaneo trionfo di una strategia liberista che rinunzia a interferire sulla distribuzione geografica e settoriale degli investimenti, affidandosi completamente al mercato. A novembre si svolge a Napoli il secondo congresso della Dc. E’ approvata una linea politica che pone il partito al centro dello schieramento politico, prendendo le distanze sia dalle forze di destra che da quelle di sinistra e tentando di stringere alleanze con le altre forze moderate. Si auspica un allargamento del governo.

In dicembre De Gasperi attua un rimpasto e entrano nel governo socialdemocratici e  repubblicani. Giuseppe Saragat e Randolfo Pacciardi sono nominati vicepresidenti del consiglio. 

Nel corso del 1947 si conclude la tormentata vicenda dell’Iri, la holding pubblica che controlla il sistema bancario e i settori strategici dell’economia italiana, in primo luogo la siderurgia. Le forze politiche avevano cominciato a discutere del destino dell’Iri fino dall’immediato dopoguerra e la riflessione era poi proseguita all’interno della Commissione economica, che era l’organo di consulenza tecnica dell’Assemblea costituente, insediatosi il 29 ottobre 1945 e presieduto dall’economista liberale Giovanni Demaria. Nel dibattito, interno ed esterno alla Commissione, emergono tre principali linee culturali. Per i liberali l’Iri era un residuo autarchico che doveva essere dimesso e privatizzato non appena si fossero ricostituiti i capitali privati necessari per rilevare le imprese pubbliche. Le sinistre, al contrario, erano favorevoli a una completa nazionalizzazione delle aziende irizzate; non accettavano la formula ibrida di imprese controllate dallo Stato ma operanti all’interno di mercati oligopolistici in concorrenza con imprese private.

Nel corso della prima Conferenza nazionale dei Centri economici per la ricostruzione, svoltasi nel maggio 1947, le sinistre propongono la nazionalizzazione dell’Iri, abolendo anche l’azionariato di stato, “forma ibrida che permette spesso il predominio degli interessi privati sui pubblici”. La formula ibrida piace invece alla Democrazia cristiana ed in particolare ad economisti come Vanoni e Saraceno, che sottolineano i vantaggio di un’azione pubblica all’interno del mercato in diretta concorrenza con imprese private.La Commissione economica cerca di definire un dizionario comune, distinguendo diversi modelli di impresa pubblica (azionariato di stato, statizzazione, socializzazione, municipalizzazione) ma non riesce ad eliminare una certa confusione semantica. Alla fine auspica il salvataggio dell’Iri e la statizzazione dei settori di pubblica utilità e dei grandi gruppi di rilevanza nazionale (Fiat, Snia-Viscosa, Montecatini). Viene così salvato il principale strumento di intervento pubblico nell’economia italiana. Sopravvive un sistema di imprese a partecipazione statale destinato ad allargarsi, e con esso si rafforza l’idea di una presenza pubblica dentro il mercato, che, attraverso la gestione di banche e imprese, può operare anche un controllo qualitativo del credito, finanziando gli investimenti in determinati settori e aree geografiche.

Il 27 settembre è stato costituito in Polonia il Cominform (abbreviazione per “Ufficio di informazione dei partiti comunisti”); in realtà è l’organo di propaganda delle direttive ideologiche e politiche dell’Urss e di coordinamento dei partiti comunisti nel quadro della guerra fredda. Ne fanno parte i partiti comunisti dell’Europa orientale e anche di Francia e Italia.  1947 – L’Italia ha una nuova Costituzione 

Il 22 dicembre l’Assemblea costituente approva il testo della Costituzione repubblicana con 453 voti favorevoli e 62 contrari. Il 27 sarà firmata dal Capo provvisorio dello stato Enrico De Nicola, dal presidente dell’Assemblea costituente Umberto Terracini e dal presidente del consiglio Alcide De Gasperi; entrerà in vigore il 1° gennaio 1948: un originale modello di “economia sociale di mercato”.

L’articolo 1 della Costituzione comincia così: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. E’ il testo proposto da Fanfani e da La Pira.

 Per assistere alla seduta della Costituente che deve approvare la nuova Carta costituzionale italiana il pubblico ha fatto coda pazientemente per ore e ore davanti al palazzo di Montecitorio. Non appena aperte le porte – scrive il cronista dell’Ansa – le tribune si sono affollate in un attimo; gremite, e con grande anticipo, anche quelle riservate alla stampa e stipati fino all’inverosimile sono i posti riservati al Corpo diplomatico e alle famiglie dei deputati. In un angolo fiammeggiano le camicie rosse di un folto gruppo di garibaldini delle Argonne. Nell’aula non c’è uno scanno vuoto, salvo qualche posto all’estrema destra. Il presidente dell’Assemblea, Terracini, entra nell’aula alle 17, ma solo alle 17.15 la seduta è aperta. A nome della Commissione che ha presieduto, Meuccio Ruini ringrazia l’assemblea e il suo presidente; dice che la carta è un’opera democratica e collettiva, perché esprime dalle correnti diverse una fede comune dell’avvenire della repubblica. Poi consegna al presidente Terracini il testo definitivo della Costituzione. Tutti i deputati applaudono lungamente e i garibaldini intonano l’Inno di Mameli. Comincia la votazione a scrutinio segreto, che termina alle 18.20. Presenti e votanti 515; hanno votato “sì” 420; hanno votato “no” 62. Il presidente proclama solennemente “L’Assemblea approva la Costituzione della repubblica italiana”.Tutti i deputati in piedi acclamano a lungo. Si grida ”Viva la repubblica” e  l’Inno di Mameli risuona in tutta l’aula.Il campanone del palazzo di Montecitorio comincia a suonare a distesa e si illumina la facciata del palazzo. Con la nuova Carta costituzionale prende vita la Repubblica. Il 28 dicembre muore in Egitto l’ex re d’Italia Vittorio Emanuele III.