5 marzo

Alla Fiat  Mirafiori di Torino gli operai entrano in sciopero. E’ il primo sciopero sotto il regime fascista. Il movimento si estende alle altre fabbriche del Nord. Nasce dalle difficili condizioni di vita, ma via via assume aspetti politici. Si grida “pace e pane”.

 

 

Stamani alle 10 la sirena non ha suonato alla Fiat di Mirafiori. Come in ogni fabbrica, la sirena suona tutte le mattine, per controllo, un solo squillo,  in vista di possibili allarmi effettivi in giornata, se si avvicinano aerei angloamericani che intendano bombardare o no. E’ stata la polizia a non farla suonare; aveva saputo che lo squillo della sirena sarebbe stato il segnale per uno sciopero degli operai, il primo sciopero sotto il regime fascista, il primo dopo quasi vent’anni.

Alle 10, anche senza sirena, basta qualche orologio, gli operai hanno fermato le macchine e si sono mesi in corteo lungo i corridoi della fabbrica. Chiedono rivendicazioni salariali, ma dicono anche “Vogliano vivere in pace”.

La voce corre in città; in mattinata si fermano anche gli operai della Microtecnica e della Rasetti; nel pomeriggio anche alla Fiat Grandi Motori, alla Fiat Lingotto, alla Westinghouse,  alla Ferriere Piemontesi.  Gli scioperi sono vietati da tempo e in questi anni di guerra lo sciopero è considerato un reato di tradimento. La polizia interviene; arresta alcuni operai, ma il movimento si rafforza, ogni tanto si comincia a sentire, sommesso,  il canto di “Bandiera rossa”. Nei prossimi giorni si fermeranno altre fabbriche: la Fiat Aeronautica, la Fiat materiale ferroviario, la Michelin, le Concerie Florio, la Lancia, la Riv. Sono più di centomila gli operai che sfidano la repressione della polizia. Sono 154 gli operai arrestati e subito processati.

Lunedì prossimo, l’8, si fermeranno a Torino sette stabilimenti: il reparto tubi delle Ferriere Piemontesi, la Fiat Ricambi, la Tubi Metallici, i reparti meccanico, serbatoi, verniciatura e montaggio della Fiat Aeronautica , la Zenith,  la Guinzio e Rossi e  la Fispa. Il giorno successivo lo sciopero si estenderà alla Società Nazionale delle Officine Savigliano, Pimet, Ambra, Conceria Fiorio, Fast Rivoli e reparto laminatoi delle Ferriere Piemontesi, Frig, Cir (Concerie Italiane Riunite), Borgognan e Capamianto.

L’11 a Torino sciopereranno complessivamente dieci stabilimenti, nove dei quali per la prima volta: la Michelin, la Lancia, ancora gli stabilimenti Fiat del Lingotto e di Mirafiori, l’Elettronica Mellini, lo stabilimento Riv di Torino, la Fantero, la Savigliano e i due stabilimenti Schiapparelli e Setti. Il 12 si fermano la Fiat Mirafiori, la Riv, la Fornare, la Sigla, il lanificio Bona e la Fiat Lingotto. Il 13 continuano ad astenersi dal lavoro gli operai della Fiat Mirafiori della Fiat Lingotto, della Riv, insieme ai lavoratori della Fiat Materferro, della Aeronautica d’Italia e dello stabilimento Magnoni e Tedeschi. Il 15 si fermeranno  ancora la Fiat Lingotto e la Fiat Mirafiori, il Cotonificio Valle Susa, il Gruppo Finanziario Tessile, lo stabilimento Ambra, la fonderia Borselli-Piacentini, lo stabilimento lavorazioni industriali statali Sables, la Fergat, la Manifattura Paracchi ed il biscottificio Wamar, seguiti, il giorno dopo dallo stabilimento torinese della Snia Viscosa.

Il 24 il movimento passa alle fabbriche milanesi. Gli scioperi cominciano alla Falck di Sesto San Giovanni, seguita dalla Pirelli e da quasi tutte le  industrie di Milano. Poi il movimento si allargherà agli altri centri industriali del Piemonte e della Lombardia; e anche in Emilia e in Liguria.Dal 5 marzo al 7 aprile le questure segnaleranno 123 fra scioperi e astensioni dal lavoro.

Il 1° aprile Roberto Farinacci l’amico-nemico da sempre di Mussolini (ora è solo il direttore del “Regime fascista” di Cremona) gli scrive una lunga lettera. E’ un ritratto paradossalmente veritiero  della situazione che è esplosa nel mondo operaio.

La lettera comincia con “Caro Presidente”, non Duce o DUCE in lettere maiuscole come fanno tutti quelli che si indirizzano  a Mussolini.  Dice la lettera: “Ho vissuto, stando naturalmente nell’ombra, le manifestazioni degli operai del Milanese. Ne sono rimasto profondamente amareggiato, come fascista e come italiano. Non siamo stati capaci né di prevenire né di reprimere, ed abbiamo infranto il principio di autorità del nostro regime.

“Se ti dicono che il movimento ha assunto un aspetto esclusivamente economi­co, ti dicono una menzogna. Il contegno degli operai ad Abbiategrasso di fronte a Cianetti è eloquente, com’è eloquente la fioritura di manifestini stampati alla macchia che danno alle manifestazioni un carattere deliberatamente e preordinatamente antifascista. I pochi arresti non contano. Bisognava avere il coraggio di dare qualche esempio, che avrebbe fatto meditare le maestranze degli altri stabilimenti e di altre città. Non dobbiamo preoccuparci di quel che avrebbero detto Radio-Londra e Radio-Mosca; dobbiamo preoccuparci di mantenere la compattezza del fronte interno e il prestigio del Governo.

“In quanto alla burocrazia, tu mi darai atto che essa fa di tutto per crearsi dei guai. Da tre mesi gli stessi industriali affermavano la necessità di fare qualche cosa per gli operai, e tu stesso te ne sei reso conto. Ma le Confederazioni, le Direzioni Generali, le Commissioni e le sottocommissioni, hanno funzionato, come sempre, con passo da lumaca.

“Ora io, nello stesso interesse tuo e del fascismo che vogliamo difendere con tutte le nostre forze, mi permetto di suggerirti di dare qualche esempio in alto e in basso, ma assai più in alto, e di non assumere sempre tu la responsabilità degli errori altrui.

“Non mi sgridare se ancora una volta ti riaffermo che l’esperimento corporativo, attraverso innovatori, improvvisatori, dottrinari e demagoghi, non è riuscito secondo quello spirito che animò la nostra fede e i nostri propositi.

“Il Partito è assente e impotente. Non basta l’assistenza, non basta occuparsi di raccolte di grano e di granone, occorre entusiasmare, provvedere, vigilare. Sopra tutto rincuorare ed incitare i fa­scisti sempre fedeli, che ora hanno l’impressione di essere sopraffatti dagli avve­nimenti.

“Sono d’accordo che non occorrono troppe cerimonie; ma ogni tanto un’adunata di forze fasciste è indispensabile per dimostrare agli antifascisti, ai pavidi, che siamo tutti in piedi, pronti a uccidere e a farci uccidere.

“Ora avviene l’inverosimile. Dovunque nei tram, nei caffè, nei teatri, nei cinematografi, nei rifugi, nei treni, si critica, si inveisce contro il regime e si denigra non più questo o quel gerarca, ma addirittura il Duce. E la cosa gravissima è che nessuno più insorge. Anche le Questure rimangono assenti, come se l’opera loro fosse ormai inutile. Andiamo incontro a giorni che gli avvenimenti militari potrebbero far diventare più angosciosi.

“Difendiamo la nostra rivoluzione con tutte le forze. Basterebbe un mese per quasi capovolgere l’opinione pubblica, e far comprendere all’«Osservatore Romano» che preparare un movimento tipo partito popolare con i suoi articoli politico-sociali è tempo perso.

“E poi, caro Presidente, perché non convochi il Gran Consiglio? Lascia che ognuno sfoghi il suo stato d’animo, che ognuno ti dica il suo pensiero. E fa in modo che tutti ritornino rincuorati dalle tue parole”.