4 ottobre

Bruno Bottai, uno dei maggiori protagonisti del regime fascista e la personalità culturalmente più elevata, compie un impietoso esame di coscienza e si domanda perché ha creduto nel fascismo e in Mussolini.

Nascosto in un convento vicino a Castelgandolfo, Giuseppe Bottai continua a scrivere un diario cominciato nel novembre del 19351. Scrive a mano, fitto fitto, su quaderni scolastici rigati o a quadretti. I quaderni sono tutti numerati; quello di oggi è il numero 15. Il numero 13, dal 27 agosto al 20 settembre, è andato perduto, scritto – poche pagine – nel carcere romano di Regina Coeli, dove è stato fatto arrestare dal maresciallo Badoglio, e poi in casa dell’amico Giorgio Vecchietti2, sull’Aventino. Dopo metà settembre, il quaderno numero 14 e questo numero 15 Bottai li ha scritti da un nascondiglio all’altro, inseguito da un mandato di cattura della Repubblica Sociale di Mussolini3; e poi finalmente, in clandestinità, nel silenzio del convento di Palazzolo, sotto la protezione accorta del Vaticano.

Giuseppe Bottai è stato una delle personalità più importanti del fascismo; un protagonista, anzi, ma sempre è apparso come un fascista critico, tanto da attirare le simpatia anche di molti ambienti antifascisti o di fronda. Di lui quante contraddittorie definizioni: l'”unica mente intelligente” nella classe rozza e incolta della dirigenza fascista; però lo “zelante attuatore delle leggi razziali nelle scuole e nell’università; l’intellettuale del regime”, il “vate della cultura italiana del ventennio” e il “gerarca che sognava la libertà”, ma anche il “grande corruttore” che cercava di irretire la gioventù intellettuale del tempo; o forse ne ricercava l’appoggio e il conforto per un fascismo meno illiberale.

Roma, 24 novembre 1936. Giuseppe Bottai, allora governatore di Roma, sullo sfondo in alta uniforme. In primo piano Dino Alfieri, allora ministro per la stampa e la propaganda, e il generale Emilio De Bono. La foto è stata scattata alla Stazione di Roma durante l'attesa dell'arrivo del Reggente d'Ungheria Horty

Roma, 24 novembre 1936.
Giuseppe Bottai, allora governatore di Roma, sullo sfondo in alta uniforme.
In primo piano Dino Alfieri, allora ministro per la stampa e la propaganda,
e il generale Emilio De Bono.
La foto è stata scattata alla stazione di Roma in occasione dell’arrivo del Reggente d’Ungheria Horty.

Nato a Roma nel 1885, volontario a vent’anni nella prima guerra mondiale, fondatore dei fasci nel 1919, marcia su Roma nel 1922, deputato nel 1924, sottosegretario nel 1926 e poi ministro delle corporazioni dal 1929 al 1932 e coautore della cosiddetta “Carta del lavoro”, governatore di Roma dal 1935 al 1936, volontario nella guerra di Etiopia, ministro dell’educazione nazionale dal 1936 al 1943 e autore della “Carta della scuola” (scuola media unica con l’insegnamento del latino e scuola di avviamento professionale, scuola materna); fondatore nel 1923 della rivista “Critica fascista” e nel 1940 della rivista “Primato”, la più importante e forse l’unica rivista culturale degli anni fascisti4. Eliminato dal governo nel rimpasto del 6 aprile di quest’anno, coinvolto nell’ordine del giorno di Dino Grandi, nella riunione del Gran Consiglio del fascismo, la notte tra il 24 e il 25 aprile, è stato tra i 19 che hanno votato contro Mussolini.

Nel diario di oggi5 Bottai riporta alcuni brani di tre lettere, due ai figli, una alla moglie. La prima è alla figlia primogenita Viviana, che ha venti anni: “Il tuo segreto è nella frase che tra i singhiozzi mi dicesti quella terribile notte tra il 24 e il 25 di luglio: ‘Io sono nata, sotto quest’uomo!’ Tu hai l’età di quella rivoluzione, in cui ho creduto, per cui le dieci e dieci volte ho rischiato la mia vita, ch’è vostra. Nelle tue vene scorre il sangue tumultuoso di quegli anni: e in te io amo quella mia giovinezza, dedicata a un capo e a una causa. Amo quella mia fede in te e per te, ora ch’è mortificata sotto il peso d’una sventura che colpisce tutta la Patria; la amo ancora, di quell’amore cupo e disperato con cui, non più giovani, s’ama una bandiera ammainata, una fede tradita, una delusa virtù”.

La seconda lettera è al figlio Bruno, terzogenito6, tredici anni: “Tu t’affacci all’adolescenza, già maturo di mente, in una grave crisi. Non avere fretta d’orientarti. Ascolta; pensa sempre quello che dici; e quando non puoi dire quello che pensi, taci. Il silenzio non è una viltà in certe fasi della nostra formazione personale: è una virtù formatrice. Certo, tu hai già i germi d’opinioni su quanto accade. Lasciali maturare. Il mio passato non ti pesi: non dovrai essere né fascista né antifascista in ragione delle mie fortune e sfortune. Dovrai essere tu. Ogni via di fede t’è aperta dinnanzi: io saprò sostenerti in quella qualunque che sceglierai a suo tempo. Non dimenticare mai i principii di quella Fede a cui ogni altra è seconda7. Si crede, talora, di liberarsene; eppoi ci s’accorge che senza di essa non v’è libertà umana e terrestre”.

La terza è alla moglie Cornelia, detta Nelia, di lui più giovane di un anno, compagna di classe al liceo Dante, laureata in lettere, insegnante: “Faccio e rifaccio il mio bilancio. Ho creduto, ho lavorato. Ora tutto è cancellato, si volta pagina, si ricomincia daccapo. Eppure non ne sono sgomento, e credo nell’ignoto lavoro che mi attende per voi. Voi, unica condizione e misura del mio destino. A mano a mano, o m’illudo, vedo più chiaro. Non è sempre facile. Questa lontananza dalla lotta, a tratti, mi mortifica, mi umilia. Certi accenti, che giungono fino a me, di codesta lotta, scuotono fibre non morte della mia fede politica: e m’avviene d’invidiare chi li ascolta dalla libera via. Poi li risento, alla meditazione, falsi, come d’una fede che oscilli tra buonafede e malafede, ma non sia mai pura, diritta, pulita. Che tutto il ‘tradimento’ consumato ai danni dell’Italia sia in quei 45 giorni, fioritura improvvisa e malefica di 21 anni di benefica perfezione, io non riesco a persuadermene. Certo, gli ‘altri’, che ora risalgono dal sud, io non li amo; e credo valide le ragioni d’una guerra contro di loro. Ma è cotesta ideale validità che accresce la colpa dell’impreparazione, dell’incompetenza, dell’incapacità. Questo tentativo di cancellare 21 anni con 45 giorni è insano, quando si rivolge all’attivo ma non meno insano quando si rivolge al passivo. Badoglio è un epilogo, non un principio, una conseguenza, non una causa. Questa confusione morale, questo orrendo intrico di rancori, quest’abiezione camuffata da riscossa: questo è la nostra sconfitta. Che cosa si può fare contro tutto questo? Io, nulla. Non per viltà, non per rifiuto di responsabilità, ma proprio perché ritengo che in ognuno di noi, di quella generazione, sia ormai l’equivoco. I giovani hanno diritto di non fidarsi di noi. Sbaglieranno pure essi, ma saranno i loro sbagli, non i nostri. Bisogna ritirarsi, ritirarsi, con dignità: e che essi, i giovani, concedendoci le attenuanti del molto buono di fatto frammezzo all’errore fondamentale, ci accordino di vivere per noi, di noi. E se alla loro fatica gioveranno i nostri esilii, i nostri bandi, che questi vengano; e noi s’abbia da Dio la forza d’affrontarli con quella dignità che ci fece difetto nei confronti d’un Capo, che non conobbe limiti tra l’ottenere obbedienza e annullare nei suoi uomini l’uomo”.


1 Il Diario 1935-1944 è stato pubblicato in più edizioni, a cura di Giordano Bruno Guerri, dalla RCS libri.

2 Giorgio Vecchietti, che diresse con Giuseppe Bottai la rivista Primato (si veda la nota 4), è stato, dopo la guerra, capo della redazione romana di Epoca e poi dirigente della Rai con compiti giornalistici e culturali. Nato nel 1907, è morto nel 1977.

3 Condannato a morte in contumacia dalla Repubblica Sociale, nel 1944 Bottai si arruolerà sotto falso nome nella Legione Straniera e tornerà in Italia nel 1948; non parteciperà alla vita politica attiva, ma commenterà le vicende italiane nella rivista, da lui fondata, ABC. Morirà nel 1959.

4 Quindicinale – primo numero il 1o marzo 1940, ultimo numero il 15 luglio 1943 – Primato aveva come sottotitolo Lettere e arti d’Italia e voleva essere un luogo d’incontro delle espressioni culturali maturate durante l’esperienza fascista. La collaborazione fu aperta anche a intellettuali di cui si conoscevano le posizioni di contrarietà o di fronda al fascismo. Su Primato scrisse quindi il meglio della cultura italiana del tempo: i filosofi Nicola Abbagnano, Enzo Paci, Ugo Spirito; i critici letterari Walter Binni, Gianfranco Contini, Enrico Falqui, Francesco Flora, Mario Praz; gli storici Manlio Lupinacci, Luigi Salvatorelli, Nicola Valeri, Giorgio Spini; gli scrittori Corrado Alvaro, Riccardo Bacchelli, Alessandro Bonsanti, Vitaliano Brancati, Dino Buzzati, Emilio Cecchi, Giovanni Comisso, Giuseppe Dessì, Carlo Emilio Gadda, Leo Longanesi, Cesare Pavese, Vasco Pratolini; i poeti Vincwenzo Cardarelli, Alfonso Gatto, Mario Luzi, Eugenio Montale, Sandro Penna, Salvatore Quasimodo, Viittorio Sereni, Giuseppe Ungaretti; i giornalisti Enzo Biagi, Leo Longanesi, Paolo Monelli, Indro Montanelli: i pittori Filippo De Pisis, Renato Guttuso, Orfeo Tamburi.

5 Lo stile di queste lettere fa capire le ambizioni letterarie dello scrittore e le intenzioni del diario: scritto (in buona parte, sicuramente, in tempi successivi) per gli altri e per il futuro.

6 Bruno Bottai entrerà in diplomazia nel 1954; capo del Servizio stampa, ambasciatore presso la Santa Sede, direttore generale degli affari politici, ambasciatore a Londra, poi segretario generale del ministero degli esteri.

7 È in questi giorni che matura in Bottai una crisi religiosa che lo porterà alla fede.