21 novembre

L’Accademia d’Italia, voluta da Mussolini per fare della cultura un sostegno del regime, si trasferisce da Roma a Firenze. È nominato presidente il filosofo Giovanni Gentile; lo uccideranno i partigiani.

Giovanni Gentile è il nuovo presidente dell’Accademia d’Italia. La notizia della nomina è oggi sulla Nazione di Firenze, l’unico quotidiano della città; è un giornale storico; è nato nel luglio del 1859 alla vigilia e insieme all’unità d’Italia. La Nazione sa che l’Accademia sarà presto spostata da Roma a Firenze nel cinquecentesco palazzo Strozzi; non dice che la decisione è stata presa da Mussolini quattro giorni fa, quando si è incontrato con Gentile a Salò. Nell’elogio funebre di Gentile, nell’aprile dell’anno successivo1, il ministro dell’istruzione Carlo Alberto Biggini ricorderà: “Quando uscì dal colloquio col Duce, Gentile aveva le lacrime agli occhi e mi disse ‘O l’Italia si salva con lui oppure è perduta per qualche secolo’; e aggiunse ‘Ho accettato la nomina perché non farlo sarebbe stata suprema vigliaccheria e demolizione di tutta la mia vita’”.

L’Accademia d’Italia è nata con un decreto legge di Mussolini il 7 gennaio 1926, ma è stata inaugurata soltanto il 28 ottobre del 1929, più di tre anni dopo. L’articolo 2 dello statuto aveva sollevato qualche perplessità: lo scopo dell’accademia era “di promuovere e coordinare il movimento intellettuale italiano nel campo delle scienze, delle lettere e delle arti, di conservare puro il carattere nazionale, secondo il genio e le tradizioni della stirpe e di favorirne l’espansione e l’influsso oltre i confini dello Stato”. L’intento era chiaro: tenere sotto il controllo fascista tutta la cultura italiana o, meglio, fare della cultura italiana un sostegno del Regime.

Benedetto Croce disse subito di no; ma tanti si misero in fila per entrarci; e accanto ai personaggi scontati della cultura fascista sono diventati accademici d’Italia anche persone di diversa estrazione e di livello eccellente: i grecisti Ettore Romagnoli e Ettore Brignone, gli scultori Pietro Canonica e Francesco Messina, i compositori Pietro Mascagni, Ottorino Respighi, Francesco Cilea, Ildebrando Pizzetti, gli scrittori Luigi Pirandello, Ardengo Soffici, Riccardo Bacchelli, Massimo Bontempelli, Emilio Cecchi; anche il fisico Enrico Fermi, finché non espatriò nel 1939, dopo le leggi razziali. Nel 1939, con l’assorbimento dell’Accademia dei Lincei, sono nominati accademici anche Luigi Einaudi, Arturo Carlo Jemolo, Concetto Marchesi; così anche Giovanni Gentile.

In numero di sessanta, nominati a vita con decreto reale su proposta del Capo del governo, cioè di Mussolini, gli accademici godevano di un consistente assegno individuale: 36 mila lire annui (tremila lire mensili, corrispondenti, aritmeticamente, a 2430 euro di oggi) oltre ai gettoni di presenza; una bella e sicura indennità per vivere tranquilli.

Una foto di gruppo di alcuni Accademici d'Italia

A molti accademici piaceva anche l’uniforme da indossare nelle sedute pubbliche e nelle pubbliche cerimonie: un abito – lunga giacca con falde e pantaloni – di panno turchino, una fila di bottoni argentati; ricami d’argento su disegni di quercia al petto e sulla falde; cappello a feluca con piuma d’argento e coccarda tricolore: spada con elsa argentata e impugnatura d’avorio; mantello di panno con bavero di velluto. Il modello era quello degli “immortali” dell’Académie francese.

Primo presidente dell’Accademia è stato per breve tempo Tommaso Tittoni, un esponente della vecchia Destra liberale, già ministro degli esteri con Giolitti; poi, nel 1930, Guglielmo Marconi; poi, dopo l’improvvisa morte dell’inventore della radio nel 1937, Gabriele d’Annunzio, sebbene riluttante (aveva chiamato l’Accademia la “mangiatoia degli Acca”): poi, un anno dopo, Luigi Federzoni, tutt’altro che contento di lasciare la presidenza del Senato.

Benito Mussolini con Guglielmo Marconi nell'uniforme di presidente dell'Accademia

Benito Mussolini con Guglielmo Marconi nell’uniforme di presidente dell’Accademia

Con Federzoni l’Accademia si è manifestata come doveva essere nelle intenzioni di Mussolini: aderente – diceva una dichiarazione del Consiglio direttivo – “ai problemi relativi alla posizione storica della Nazione”; e così si è allineata a tutte le battaglie, culturali o pseudo culturali, del Regime: quella del “voi” contro il “lei”, contro i forestierismi, a favore della cosiddetta “architettura del littorio” impersonata dall’architetto Marcello Piacentini. E il 22 maggio del 1940, alla vigilia dell’entrata in guerra, ha approvato all’unanimità un messaggio che ha espresso al Duce la certezza delle nuove e più alte mete alle quali “Egli condurrà la Patria fascista” e ha posto al suo servizio “tutte le proprie energie di fede, di pensiero e di opere per unirsi allo sforzo compatto e appassionato di tutto il popolo italiano”.

Il 25 luglio Luigi Federzoni è uno dei membri del Gran Consiglio del fascismo che vota l’ordine del giorno Grandi contro Mussolini; subito dopo si dimette dall’Accademia, che ormai ha cessato tutte le sue attività; le riprenderà a gennaio dell’anno prossimo a Firenze, col nuovo presidente che da oggi è Giovanni Gentile. Nel discorso inaugurale, il 19 marzo, Gentile dirà che con Mussolini “era risorta l’Italia giovane, leale, generosa” e che “la voce del Duce non si era spenta, perché era quella la voce della patria immortale”.

Un mese più tardi, il 15 aprile, Giovanni Gentile sarà ammazzato da un gruppo di tre “gappisti” mentre rientra in auto nella villa Montalto, dove abita.2 L’Accademia verrà quindi trasferita nel Nord, prima a Bergamo e poi nella villa Carlotta a Tremezzo sul lago di Como; ma nel viaggio verso Bergamo l’autocarro che trasporta l’archivio verrà distrutto durante un bombardamento aereo sull’Appennino. L’ultimo presidente sarà il geografo Giotto Dainelli.

L’Accademia d’Italia “repubblichina” continuerà a vivere fino al 25 aprile del 1945. Il governo del Regno la sopprime il 28 settembre del 1944, passandone il patrimonio alla ricostituenda Accademia dei Lincei.


1 Per l’assassinio di Gentile, aprile 1944, si veda qui sotto in 21 novembre – Di più

2 Giovanni Gentile ebbe solenni onoranze funebri nella chiesa fiorentina di Santa Croce, dove venne sepolto nella cappella a sinistra dell’altare maggiore.

21 novembre – Di più

– Sull’assassinio di Giovanni Gentile, il 15 aprile del 1944, il dibattito giornalistico e storico è continuato per decenni e continua ancora. Uno dei tre “gappisti” (membri dei “gruppi di azione partigiana”) che lo aggredirono mentre rientrava in auto nella villa dove abitava sulla via del Salviatino era Bruno Fanciullacci, che fu arrestato e, portato nella così chiamata “Villa Triste” in via Bolognese, si gettò dalla finestra, dopo essere stato torturato, e morì di lì a poco.

Ma chi erano i mandanti dell’aggressione? Negli anni immediatamente successivi e negli anni dopo c’era chi sosteneva che i mandanti fossero alcuni esponenti del Fascismo repubblicano, che odiavano in Gentile i suoi tentativi di riconciliazione nazionale e i suoi frequenti interventi in favore di antifascisti arrestati. L’ipotesi contraria e più diffusa era che i mandanti fossero i dirigenti centrali del Partito comunista e addirittura il segretario nazionale Palmiro Togliatti. Stranamente ha avuto poca accoglienza la testimonianza di Teresa Mattei in un sua intervista a Antonio Carioti sul Corriere della sera del 6 agosto 2004. “Chicchi” Mattei, eletta nel 1946 all’Assemblea costituente per il Pci, da cui fu successivamente espulsa per “indegnità ideologica”, ha raccontato che l’idea di uccidere Gentile fu di quello che poi sarebbe diventato suo marito, Umberto Sanguinetti, figlio dell’industriale proprietario dell’Arrigoni di Trieste; e che fu lei stessa, col consenso del segretario fiorentino del Pci, Giuseppe Rossi, ad aiutare i gappisti a identificare Gentile e a indicarne abitazione e orari.

– Sulla vicenda l’autore di questo libro ha scritto, nel 2004, una lettera a Mario Pirani, che ne ha ripreso alcuni brani in un suo articolo sulla Repubblica del 27 dicembre. Ecco il testo integrale:

“Caro Mario, ho letto con pieno consenso la tua “linea di confine” sulla morte di Giovanni Gentile. Vivevo allora a Firenze e in quell’aprile del 1944 dirigevo un giornale clandestino liberale, “l’Opinione”. Dopo un primo approccio col partito d’azione (ne conservo ancora la tessera) la mia estrazione crociana mi aveva portato al Partito liberale, della cui sezione fiorentina fui uno dei rifondatori insieme a Eugenio Artom (poi senatore del Pli nel 1963) e a Aldobrando Medici Tornaquinci (poi sottosegretario per le Terre occupate nel terzo governo Bonomi); ne fui il primo segretario politico dopo la liberazione di Firenze.

“La notizia dell’attentato di via del Salviatino mi colpì dolorosamente. Mi ero laureato in filosofia nel 1940 (avevo poco più di venti anni) con una tesi su Benedetto Croce, ma i testi di Giovanni Gentile li avevo studiati con passione e sofferenza: con passione, per questo grande pensatore col quale avevano fine duemila anni di filosofia sistematica (dopo di lui la filosofia ha preso altre strade, e diverse); e con sofferenza, per la sua continuata adesione al fascismo (come poteva un uomo del suo talento stare con Mussolini e con la dittatura? addirittura con le leggi razziali e con la Repubblica Sociale?). Dolore, dunque, per la morte di Giovanni Gentile, ma non indignazione, come accadrebbe oggi se un Giovanni Gentile venisse ammazzato da qualche scellerato terrorista di questo o quel colore. Perché?

“Come tu hai scritto, alcuni storici di oggi, più o meno revisionisti, sono bravi nel ricostruire le vicende di quegli anni terribili, ma non si sforzano minimamente di capire il clima di allora, il contesto storico, politico, culturale e anche emotivo in cui vivevamo. C’era in corso una guerra di liberazione e una guerra civile; e ogni giorno c’erano morti, quasi tutti dalla nostra parte.

“Per alcuni di noi, come me, l’armistizio dell’8 settembre e la fine della guerra fascista non erano stati un trauma, ma il coronamento di antiche attese e speranze; la nostra scelta l’avevamo fatta da tempo. Ma per molti – studenti, laureati, docenti, che per pochezza di letture o mancanza di tradizioni familiari sapevano poco o niente di libertà e di democrazia – il rovesciamento delle alleanze pose interrogativi tormentosi: da che parte stare? davvero col nemico di ieri? davvero con coloro contro i quali per tre anni ci avevano detto di sparare?

“Vero è che dall’altra parte c’erano stati venti anni di dittatura, c’era stata la soppressione di diritti civili, c’erano state le leggi razziali, e ora c’erano le deportazioni degli ebrei, c’era la ferocia assassina delle Brigate nere, c’erano le torture di tante Ville Tristi; ma dalla stessa parte c’era anche Giovanni Gentile e la sua autorità e il suo prestigio di uomo di studi e di pensiero.

“Fu proprio per Giovanni Gentile che molti giovani si schierarono dalla parte sbagliata. Ecco perché Teresa Mattei (la cara Chicchi), nei giorni in cui suo fratello era torturato dai fascisti repubblichini tanto da portarlo al suicidio, non si oppose alla decisione del suo compagno Bruno Sanguinetti di ispirare un atto clamoroso di guerra e di sangue, e addirittura collaborò all’identificazione dell’obbiettivo. Ecco perché uno come me – contrario ad ogni tipo di violenza e anche alla guerra, sia pure con qualche se e con qualche ma, e quella nostra contro i tedeschi e i fascisti era una guerra con molti se e molti ma – provò dolore, ma non indignazione per la morte di Giovanni Gentile.

“Uccidere è un male, ma quella era una guerra, che non avevamo voluto noi. In una guerra i morti sono tutti eguali; i vivi, no. E da vivo Giovanni Gentile fu un grande pensatore, ma, per molti, anche un grande cattivo maestro”.


Ancora sulla morte di Giovanni Gentile. L’8 maggio 2009 l’Ansa ha trasmesso questa notizia:
(ANSA) – FIRENZE, 8 MAG – La corte d’appello di Firenze ha dichiarato estinto per prescrizione il reato di diffamazione di cui era accusato il senatore del Pdl Achille Totaro, che definì il partigiano Bruno Fanciullacci “un assassino vigliacco”, parlando dell’omicidio del filosofo Giovanni Gentile, nel 1944. Totaro è stato però condannato al risarcimento simbolico di un euro chiesto dalla famiglia del partigiano, che si era costituita parte civile. La corte ha poi ordinato a Totaro la pubblicazione della sentenza, a proprie spese, su due quotidiani, così come chiesto dalla parte civile. Totaro pronunciò quella frase nel 2000, quando era consigliere comunale di An a Firenze. In primo grado Totaro era stato assolto. “La corte d’appello – ha spiegato il suo difensore, Paolo Florio – ha riconosciuto l’esistenza del reato, dichiarandolo però estinto. Ricorreremo in Cassazione per ottenere un’assoluzione piena, come deve avvenire per questi fatti”. Con Totaro era imputato il consigliere comunale Stefano Alessandri, che aveva appoggiato sui giornali le dichiarazioni del collega di partito: anche per lui, assolto in primo grado, è stata dichiarata la prescrizione. Assoluzione confermata per gli altri quattro imputati, militanti o esponenti locali di An.