21 luglio

I vertici del fascismo si interrogano: come uscire dalla guerra senza rinnegare Mussolini. Dino Grandi ritiene invece che l’unica soluzione è restituire tutti i poteri al re. Ma lo dovrà decidere il Gran Consiglio.

“Il Duce mi ha dato ordine di convocare il Gran Consiglio per sabato 24 alle ore 17. Sarete finalmente soddisfatti”. Nel suo ufficio di segretario del partito fascista in piazza Colonna è Carlo Scorza che lo dice a Dino Grandi, membro del Gran Consiglio dalla fondazione, luogotenente generale della Milizia fascista, membro della Direzione del partito, già sottosegretario agli interni e agli esteri, ministro degli esteri (1939-1932), ambasciatore a Londra (1932-1939) e oggi presidente della Camera. Il re lo ha nominato conte e insignito del Collare dell’Annunziata, la più alta onorificenza della monarchia.

Il Gran Consiglio del fascismo è il massimo organo consultivo e deliberativo del regime fascista. È stato costituito nel dicembre del 1922 ed è stato reso organo istituzionale nel dicembre del 1928, col compito esclusivo di proporre leggi costituzionali, di formare le liste dei candidati designati alla Camera e di definire o revocare le maggiori nomine nel partito. Ne fanno parte di diritto, oltre a Mussolini, il segretario del partito, tutti i capi storici del fascismo, i presidenti del Senato e della Camera, i ministri, il presidente del Tribunale speciale. È un organo formalmente importante, ma poco influente, in pratica, dato il carattere personale del regime mussoliniano. L’ultima volta è stato convocato quattro anni fa; mai in questi anni di guerra.

Dino Grandi, 1895-1988, ministro degli esteri 1929-1932, ambasciatore a Londra 1932-1939, ministro della giustizia e presidente della Camera dei fasci e delle corporazioni 1939-1943; uno dei grandi artefici della caduta di Mussolini

Dino Grandi, 1895-1988, ministro degli esteri 1929-1932, ambasciatore a Londra 1932-1939, ministro della giustizia e presidente della Camera dei fasci e delle corporazioni 1939-1943; uno dei grandi artefici della caduta di Mussolini.

Dino Grandi esce felice dall’ufficio di Scorza. “Era finalmente il gioco grosso” scriverà1, “quello invano cercato, sperato e atteso da tanto tempo, la partita che bisognava giocare appieno e sino in fondo, con tutti i suoi rischi, le sue difficoltà e i suoi pericoli, a tu per tu col Dittatore”.

Il dramma è cominciato il 9 di questo mese, dopo lo sbarco angloamericano in Sicilia. “Credetti, temetti e sperai” scriverà ancora Grandi2 “che la notizia dell’invasione della Sicilia avrebbe dato, specie nelle città del nord dell’Italia, la scintilla dell’insurrezione. Attesi. Nulla. Una cappa di piombo gravava sull’Italia. Visi gravi, attoniti, per le strade, bocche silenziose e occhi senza speranza. Ma nessuna voce, nessun tentativo, nessun segno, nessuna delle tante voci che dovevano levarsi a gridare rumorose dopo le 23.30 del successivo 25 luglio, fu udita allora. Eppure, ancora oggi, rivivendo nella memoria quelle giornate, penso che una voce coraggiosa che si fosse levata sarebbe stata sufficiente a suscitare il grande incendio. Nessun tentativo, nessun segno”.

Il 10 luglio, il giorno dopo lo sbarco in Sicilia, Mussolini ha ispezionato la divisione M, che le SS tedesche hanno armato e istruito per farne una forza mobile a difesa del governo e del suo duce.

Tre giorni più tardi, il 13, il segretario Scorza ha convocato nella sede del partito a palazzo Wedekind una riunione di emergenza dei prefetti e dei segretari federali dell’Italia meridionale; ci sono anche il capo della polizia Renzo Chierici e il sottosegretario agli esteri Giuseppe Bastianini (il ministro è Mussolini); arriva anche Giuseppe Bottai, che, destituito il 5 febbraio da ministro della cultura popolare, è oggi politicamente disoccupato.

Chierici e Bastianini – scrive Bottai nel suo diario3 – “sostengono che bisogna andare dal Capo, pregandolo di mettersi da una parte (sopra o accanto al governo non si sa bene) e lasciare che governi un governo responsabile, coi suoi tre ministri militari da nominare e gli altri da confermare o mutare”. Bottai tace (“Sono stordito dal colpo ricevuto” scrive); anche Scorza ha una faccia impassibile (“è solo un po’ pallido”).

Il giorno seguente – è il 14 – Bottai, dopo una notte “metà di sonno e di veglia”, si mette al suo tavolo e fa un quadro dei suoi pensieri. Vi sono due possibilità: o la situazione rimane in mano al fascismo e Mussolini si adegua alle funzioni di capo del governo secondo la Costituzione e convoca il Gran Consiglio, proponendo un proclama del re al paese; oppure la situazione passa, d’intesa con Mussolini, nelle competenze del re, cui spetterebbe di decidere sul tipo di governo, militare o civile o militare-civile; con civili fascisti o civili non fascisti e con gli uni e gli altri insieme.

Nel pomeriggio Bottai porta il suo appunto a Carlo Scorza e lo fa leggere a Bastianini. Sembrano d’accordo: “Tertium non datur; o tutti con Mussolini, sia pure costretto ad agire con noi, nell’estremo tentativo di dare un governo della difesa all’Italia; o tutti con Mussolini nel lasciare al re di tentare con lui quella difesa”. Insomma, con Mussolini nell’uno e nell’altro caso.

Il 15 è un giorno di incontri più o meno segreti, di scambi di idee e di nomi di quelli che dovrebbero essere nuovi ministri e nuovi capi militari. Il 16 una nuova riunione da Scorza; sono i soliti gerarchi e anche altri, tutti una quindicina. Insieme decidono di chiedere udienza a Mussolini. L’incontro a Palazzo Venezia avviene alle 17.30. Non c’è Dino Grandi, che è rimasto nella sua Bologna; è un incontro inutile, dice. Non c’è neppure Galeazzo Ciano, genero del Duce e ambasciatore presso la santa Sede; dice di essere malato (un forte mal di gola) e sta a casa, senza farsi vedere da nessuno.

“Entriamo nell’immensa stanza” scriverà Bottai nel suo diario, “tante volte percorsa, dalla soglia al famoso tavolo, dove da anni giacciono nell’identico disordine dieci e dieci piccoli oggetti inutili: gingillini, distintivi, medaglie, un’aquiletta di ceramica, una biglia di acciaio cromato tra le graffette reggicarte; e intorno, per uno spazio circolare che investe l’enorme finestra sulla piazza e il camino spropositato e gremito di termosifoni, lo stesso disordine fisso, immobile, metodico. Quello strano quadro raffigurante un gatto soriano dagli occhi verdi, appoggiato a uno degli alari del camino, e statuette di vittorie con le alucce stente da artigianato deteriore, e cumuli di libri, e mazzi di spighe con nastri tricolori… È un ‘mondo’ in cui l’uomo da vent’anni vive e in cui le sue mani hanno impresso una fisionomia che non può essere senza rapporti col suo mondo interiore; è un piccolo mondo ottocentesco, da rigattiere o da salotto borghese, da gente risalita, tutto intenzioni e allusioni retoriche. In fondo, mi vien fatto di pensare mentre Scorza termina il suo breve preambolo, si tratta di rimuovere un disordine simile a questo nelle idee, nelle istituzioni, un disordine che è diventato sistema e ha ormai – questo è il punto – la sua logica”4.

La testa di Mussolini, continua Bottai, “si volgeva verso di noi a uno a uno, con una leggera quasi impercettibile obliquità, come volesse, guardandoci di scancìo, difendersi a un tempo e penetrare intenzioni non meno traverse del suo sguardo. Come conosco quel sorriso forzato che ora gli torce le labbra e nasce da un ictus nervoso che, tentando invano di divenire franco riso di cortesia, rimane a mezza strada tra la smorfia della diffidenza e la dissimulata disinvoltura”.

Parlano Farinacci, che riferisce indignato quello che gli ha detto il generale Ambrosio, capo di Stato maggiore generale (“la guerra è perduta e fra 15 giorni bisogna chiudere bottega”); parla Bottai, parlano altri. Alla fine, dopo un attimo di silenzio, Mussolini non replica; si limita a dire che convocherà il Gran Consiglio, ma non dice quando; e più tardi (è Bottai che lo racconta) dirà di loro a qualcuno “Chi erano quei signori malvestiti? Che volevano? Che autorità avevano? L’autorità degli oratori, che dura quanto dura il discorso”.

Siamo ancora, comunque, al “tertium non datur” e di una soluzione che non escluda Mussolini si fa promotore il giorno dopo, il 17, il sottosegretario agli esteri Giuseppe Bastianini. È una iniziativa personale fino a un certo punto. Ne ha parlato con Mussolini (“Lasciate fare a me. Voi non sapere niente e io mi assumo di questo tutta la responsabilità e tutte le conseguenze”; e Mussolini non ha aperto bocca) e poi ha chiesto udienza in Vaticano. Al segretario di stato cardinale Maglione ha presentato un promemoria: 1) è il momento di esaminare la situazione generale dell’Italia nel quadro generale della guerra; 2) voci dicono che il Papa sarebbe disposto a prendere iniziative previo assenso italiano e tedesco; 3) un tentativo unilaterale dell’Italia di distacco dalla Germania trasformerebbe il territorio nazionale in un campo di battaglia; 4) la sola persona in grado di convincere Hitler a ritirare le truppe tedesche dall’Italia è il Duce; 5) l’Inghilterra e gli Stati Uniti non devono quindi porre come pregiudiziale l’allontanamento di Mussolini.

Ma davvero non esiste un “tertium“, una soluzione che escluda Mussolini? Nei tre giorni seguenti alcuni fatti importanti accrescono preoccupazioni, dubbi e incertezze, e gli incontri fra i vari personaggi della scena politica fascista si fanno più frequenti e tormentati: prima i manifestini col messaggio di Roosevelt e di Churchill lanciati dagli aerei nella notte fra il 17 e il 18 (“È venuto il momento per voi di decidere se gli italiani debbono morire per Mussolini e per Hitler o vivere per l’Italia e la civiltà”)5; il bombardamento di Roma, il 19, e l’incontro di Feltre fra Mussolini e Hitler; e ieri, per chi ha potuto conoscerli, gli echi di quell’incontro, deludente ed inutile6.

C’è qualcuno che, a differenza degli altri massimi esponenti del fascismo, crede in una soluzione diversa. È Dino Grandi; ha idee chiare: separarsi dalla Germania e scendere a combatterla prima che l’inevitabile vendetta tedesca prenda sostanza; contattare seriamente gli Alleati, costringendoli a rinunziare alla resa incondizionata; abbattere Mussolini e la dittatura, legati ormai alle sorti della Germania. Come farlo? Ricorrendo al re; tutto questo può ottenerlo soltanto lui. Ma non basta; occorre un intervento del Gran Consiglio del fascismo. È necessario che dal Gran Consiglio, al quale la legge attribuisce formalmente poteri superiori alla persona del dittatore che l’ha creato, parta l’iniziativa della rivoluzione costituzionale perché tutti i poteri passino nelle mani del re. Grandi ha già preparato un ordine del giorno in questo senso7.

Stamani Dino Grandi ha saputo da Scorza che Mussolini si è deciso finalmente a convocare il Gran Consiglio: fra tre giorni. Il problema è se il Gran Consiglio, che non è mai stato chiamato a votare, sia capace di assumere le proprie responsabilità e avere così il diritto di domandare al re di assumere le sue.

Uscito verso mezzogiorno dall’ufficio di Scorza, Grandi si reca a casa di Luigi Federzoni, già presidente del Senato e membro del Gran Consiglio. Insieme rileggono l’ordine del giorno ed esaminano le posizioni dei 29 membri. Sicuramente favorevoli loro due e altri quattro, Bottai, Bastianini, Albini (sottosegretario all’interno) e De Marsico (ministro della giustizia); sei, dunque. Sicuramente contrari Farinacci (da sempre oppositore di Mussolini, ma ora favorevole per estremismo filotedesco), Polverelli (ministro della cultura popolare), Galbiati (capo della Milizia fascista), Buffarini (già sottosegretario all’interno), Tringali-Casanuova (presidente del tribunale speciale per la difesa dello stato), Frattari (presidente della Confederazione degli agricoltori), Marinelli (già segretario amministrativo del partito); sono tredici. Incerti i sedici rimanenti, ossia la grande maggioranza; fra essi Galeazzo Ciano e il segretario del partito, Carlo Scorza.

In serata Grandi si reca da Scorza; gli dà una copia dell’ordine del giorno e cerca di convincerlo. Ha l’impressione che Scorza sia d’accordo8. Ma domani mattina Scorza consegnerà il testo dell’ordine del giorno a Mussolini. Mussolini leggerà il documento; lo definirà inammissibile e vile9.

Alle 17 riceverà Grandi a palazzo Venezia, in piedi, con lo sguardo freddo e con la faccia dura. Lo ascolterà e poi: “Hai finito? Ebbene sappi alcune cose che dovrai bene fissarti in mente: primo, la guerra è ben lungi dall’essere perduta; avvenimenti straordinari10 si verificheranno fra poco nel campo politico e militare, tali da capovolgere interamente le sorti della guerra; Germania e Russia si accorderanno; l’Inghilterra sarà distrutta. Secondo, io non cedo i poteri a nessuno; il fascismo è forte, la nazione è con me; io sono il capo; mi hanno obbedito e mi obbediranno. Per tutto il resto, arrivederci posdomani in Gran Consiglio. Puoi andare”11.

“Uscii triste da palazzo Venezia” scriverà Grandi; “non restava che andare diritto fino in fondo”.


1 Dino Grandi, 25 luglio 1943, già citato.

2 Ibidem.

3 Giuseppe Bottai, Diario 1935-1944, già citato.

4 Ibidem.

5 Si veda la giornata del 18 luglio.

6 Si veda la giornata del 20 luglio.

7 Sempre in Dino Grandi, 25 luglio 1943.

8 Ibidem.

9 Così in Mussolini, Storia di un anno, già citata.

10 Il riferimento è alle “armi segrete”, tedesche, su cui da qualche tempo corrono voci in ambienti militari e politici; e sembra che Hitler ne abbia parlato a Mussolini nel recentissimo incontro di Feltre. Queste “armi segrete” saranno sperimentate nel 1944 e lanciate su Londra a cominciare dal settembre. Sono missili a propellente liquido, che dopo il decollo proseguono per spinta inerziale alla velocità di oltre cinquemila chilometri orari. Verranno chiamate V2 e con i loro 975 chilogrammi di esplosivo provocheranno danni gravissimi alla capitale inglese. Il termine “armi segrete” verrà usato anche per nuovi e misteriosi studi tecnologici compiuti dagli scienziati di Hitler nel campo nucleare: un preludio a quelle armi atomiche di cui si verrà a sapere soltanto nell’agosto del 1945, dopo la capitolazione della Germania nazista, con le esplosioni delle bomba atomiche americane a Hiroshima e Nagasaki.

11 Sempre in Dino Grandi, 25 luglio 1943.