15 settembre

Benedetto Croce, che rischia di essere preso come ostaggio dai tedeschi, è messo in salvo dagli inglesi e trasferito, con tutta la famiglia, da Sorrento a Capri, che è la prima terra italiana liberata dagli italiani dopo che i tedeschi se ne sono andati con bandiera bianca e senza spari.

– Aggiornamento del 08.09.11 –

“Signor Croce, lei è una delle più autorevoli personalità italiane. I suoi sentimenti antifascisti sono noti a tutti e lei è un simbolo di libertà. I tedeschi progettano di catturarla e per evitare quella che sarebbe una disgrazia per il suo paese e per lei devo chiederle di venire con me a Capri, nella parte liberata dell’Italia”.1

A Benedetto Croce così si rivolge il tenente Adrian Gallegos delle Forze speciali britanniche. Sono le sette e mezzo della sera nella villa Tritone di Sorrento. Il filosofo è qui dal 5 dicembre dello scorso anno, “sfollato”, come si dice in questi tempi per chi ha lasciato le città dove è pericoloso vivere a causa dei bombardamenti aerei. Napoli è una di queste; qualcuno dirà che è stata la città più bombardata d’Italia. A Napoli Croce ha sempre abitato con tutta la famiglia nel palazzo Filomarino della Rocca2, proprio nel cuore di Spaccanapoli. A cento metri di distanza è il Monastero di Santa Chiara, dove il 4 agosto scorso sono cadute le bombe che l’hanno distrutto quasi completamente; è stata l’incursione più feroce dall’inizio della guerra.

Il tenente Gallegos, 36 anni, comanda una unità della Royal Navy, incorporata nel Soe, lo Special operation executive, che è un reparto dei Servizi segreti inglesi e ha il compito di infiltrare agenti al di là delle file nemiche. Figlio di un pittore spagnolo e di una inglese, parla correttamente l’italiano perché è cresciuto a Roma; poi, dopo la morte del padre, si è trasferito con la madre a Londra e si è fatto cittadino britannico.

Gallegos ha come superiore diretto nel Soe il maggiore Malcolm Munthe, 33 anni, figlio di Axel, il medico e scrittore svedese che ha fatto conoscere in tutto il mondo il suo amore per Capri e quindi ha fatto conoscere Capri, la “terra delle sirene”, ed è autore dell’opera autobiografica “Vita di San Michele”. San Michele è il nome dell’ex monastero restaurato e diventato una bellissima villa, oggi sede della fondazione a lui intitolata, museo, cappella e giardino aperto ai turisti. Anche Malcolm Munthe parla bene l’italiano: è cresciuto a Capri col padre.

Col tenente Gallegos e col maggiore Munthe c’è un terzo avventuroso personaggio. È il conte Massimo Salvadori Paleotti, meglio conosciuto come Max Salvadori, 35 anni, nato a Londra da genitori marchigiani, bilingue, doppio passaporto, ora capitano delle Forze speciali britanniche, amico di Carlo Rosselli e di Gaetano Salvemini, esponente di Giustizia e Libertà, fratello di Joyce, futura medaglia d’argento della Resistenza, sposata a Emilio Lussu, deputato aventiniano, fondatore del Partito sardo d’azione.

Munthe, Gallegos e Salvadori si sono imbarcati in Africa su una “Tank landing ship”, un grosso mezzo da sbarco carico di carri armati, jeep e artiglierie che è una delle 450 unità navali dell’operazione “Avalanche” per lo sbarco a Salerno3. I tre hanno un compito preciso e non propriamente militare: il salvataggio di Benedetto Croce, il filosofo, il pensatore, lo studioso che gli inglesi ritengono la persona giusta per guidare la rinascita dell’Italia dopo il fascismo. Sullo stesso mezzo da sbarco ci sono anche due giornalisti sessantenni, due fuorusciti, l’uno in Francia, l’altro negli Stati Uniti, che saranno entrambi ministri nel primo governo di civili dopo il fascismo, il governo Bonomi: Alberto Cianca, antico direttore del “Mondo” soppresso dal fascismo nel 1925, e Alberto Tarchiani, antico redattore capo del “Corriere della sera” di Luigi Albertini.

A villa Tritone, sulle alture di Sorrento, è però arrivato stasera, per prudenza, soltanto il tenente Gallegos, accompagnato dall’avvocato Giuseppe Brindisi (Peppino per gli amici), avvocato civilista, legale di fiducia di Croce, un suo devoto. In casa c’è il “senatore”, come è chiamato, c’è la moglie Adele e le quattro figlie, Elena, Alda, Livia e Silvia.

All’invito di Gallegos di lasciare Sorrento per trasferirsi a Capri l’anziano filosofo, 77 anni, è titubante: “Sono vecchio, ma non ho paura dei tedeschi. Lei sa per certo che stanno progettando di prendermi? Non voglio che la gente pensi che ho paura e sto scappando”.

Alla fine Benedetto Croce si convince. È già buio e sembra che tedeschi non ce ne siano in giro; sono tutti a Salerno contro la quinta armata americana che continua lo sbarco nella pianura del Sele. Con cautela, lentamente, Gallegos e Brindisi accompagnano Croce e tre delle quattro figlie – Elena, Silvia e Lidia – giù al porto, dove nell’oscurità li aspetta il motoscafo, un As13 antisommergibile della marina inglese, col quale sono arrivati due ore prima. E la moglie Adele? Adelina, come la chiama Croce, e la figlia Alda sono volute rimanere per preparare i bagagli. Gallegos ha assicurato tutti: qualcuno, fidato, verrà a prenderle domani sera.

Alle dieci e mezzo il motoscafo arriva a Capri nel porto di Marina Grande, lievemente illuminato da uno spicchio di luna. L’ammiraglio Anthony Morse, che ha il comando militare dell’isola in nome di Sua Maestà britannica, ha fatto trovare al gruppetto un’auto che trasporta tutti all’hotel Morgano. Domani a notte fonda arriveranno anche la signora Adele insieme alla figlia Alda. Invece di Gallegos, impegnato in un’altra operazione, sarà lo stesso maggiore Munthe a portarle a Capri, accompagnato dal solito avvocato Brindisi e, imprevisto, da Alberto Tarchiani.

Dopodomani, in mattinata, l’ammiraglio Morse farà visita in veste ufficiale a Benedetto Croce e si preoccuperà di una sistemazione migliore. Peppino Brindisi ha la soluzione: la villa l’Oliveto, residenza caprese degli Albertini dell’antico “Corriere della sera”. Gli Albertini non sono soltanto amici ma in certo modo parenti dei Croce, perché la primogenita di Benedetto Croce, Elena, ha sposato Raimondo Craveri, che degli Albertini è cugino.

Craveri, 31 anni, uno dei fondatori del Partito d’azione, è nascosto a Sorrento e arriverà tra giorni. Croce, Craveri, Cianca, Tarchiani, Max e Joyce Salvadori: all’Oliveto c’è un piccolo pezzo di intellettualità antifascista in un piccolo pezzo di Italia libera; libera da quattro giorni.

La liberazione di Capri ha aspetti insoliti e anche spassosi. I tedeschi hanno accettato l’invito di andarsene e se ne sono andati; l’isola è stata liberata non dagli americani e dagli inglesi ma da un reparto militare italiano; e il primo degli Alleati a mettere i piedi nell’isola è stato un giornalista. Conviene raccontare questa storia divertente, oltretutto senza spari e senza morti.

La sera dell’8, subito dopo l’annunzio dell’armistizio, tutto era silenzio e muta era la Piazzetta. Il coprifuoco teneva in casa la gente e chiusi i negozi. Un po’ più tardi c’è stato però un grande scampanio e verso le dieci la Piazzetta è stata occupata da un centinaio di bersaglieri. Il colonnello Guido Marsiglia, che ha il comando della difesa dell’isola, ha ascoltato bene il comunicato letto alla radio da Badoglio; ha riunito i suoi ufficiali nella sede del Comando in via della Camerelle e poi ha inviato i suoi bersaglieri, un centinaio, a presidiare, armati, tutti i punti strategici dell’isola.

Si trattava ora di affrontare garbatamente i tedeschi, che gestivano il radiofaro di Punta Arena. Erano 150 militari – 70 al faro, 80 acquartierati alle Certosa – al comando di un tenente, Kurt Schleier, 32 anni, un ingegnere di Treviri appassionato di lettere antiche e di archeologia. Il colonnello Marsiglia e il tenente Schleier si conoscevano bene e da tempo, ma l’incontro è stato duro, almeno all’inizio. Erano le dieci, dieci e mezzo di sera. Il tenente Schleier, però, sapeva tutto; i suoi alti Comandi lo avevano già informato di quello che doveva fare l’esercito tedesco dopo l’armistizio dell’Italia; e al suo fianco c’era un colonnello, arrivato da Napoli e comandante del reggimento di cui faceva parte la compagnia di genieri radiotelegrafisti dislocata a Capri.

I militari tedeschi erano tuttavia inferiori di numero a quelli italiani; Capri è un’isola e non era facile l’arrivo di rinforzi; le Forze tedesche sul continente erano troppo impegnate a Salerno. La mattina del 9 il colonnello tedesco ha accettato l’invito a non far saltare in aria il radiofaro (gli esplosivi erano già stati sistemati), ha alzato una bandiera bianca e ha chiesto di imbarcarsi con una cinquantina di uomini sul piroscafo “Principessa di Piemonte” in partenza per Napoli. Erano le otto. A mezzogiorno anche il tenente Schleier se n’è andato col resto delle truppe; se n’è andato in un motoscafo noleggiato, perché imbarcazioni militari non ce n’erano, né italiane né tedesche.

Così la mattina del 9, ma la nottata è stata una nottata agitata per i capresi; non per festeggiare l’armistizio ma per assistere al grande pauroso spettacolo dello sbarco alleato nel golfo di Salerno. C’erano 624 navi da guerra, fra cui quattro corazzate, sette portaerei, undici incrociatori, 393 mezzi da sbarco e 109 dragamine, per 170 mila soldati, e nell’aria centinaia di bombardieri. La luna era tramontata un po’ prima dell’una, ma il mare e il cielo erano illuminati dai lampi e dal chiarore continuo delle esplosioni. I capresi erano stati svegliati dal fracasso e dalle luci; erano saliti sui tetti delle case e guardavano terrorizzati una delle più imponenti azioni belliche della seconda guerra mondiale. Scoppi, boati, colonne di fumo, strisce di proiettili traccianti, aerei che cadevano in mare, navi che saltavano in aria. Nella chiesa di Sant’Antonio ad Anacapri l’arciprete ha aperto le porte e tanti hanno passato la notte tra rosari e litanie.

Lo spettacolo è continuato per tutta la mattina del 9 e anche nel pomeriggio. Punti d’osservazione, pieni di gente, erano il monte San Michele, il Solaro, la Punta del Tuono. Ma spettacolo è stato anche la partenza dei tedeschi, tutti in ordine, bene incolonnati e attenti, con i fucili imbracciati, pronti a sparare. I capresi non ce l’avevano molto con loro; non si erano comportati male, e li hanno perfino salutati con la mano. Ma il bar ristorante in via Vittorio Emanuele, che dalla fine dell’Ottocento si chiamava in tedesco “Zum Kater Hiddigeigei” in onore del gatto Hiddigeigei, protagonista dell’opera “Il trombettiere di Sackingen” di Victor von Scheffel (e la via si chiamava allora Hoenzollern), ha subito cambiato insegna; ora si chiama “Caffè della libertà”.

La giornata del 9 e quella del 10 sono pieni di episodi insoliti in questo scorcio di guerra. Forse perché Capri è sempre stata terra di incontri e non di scontri, di cultura e non di armi; forse anche perché è terra circondata dalle acque. Il primo episodio è stato, la mattina del 9, la partenza dei militari tedeschi, compresi colonnello e tenente; una partenza preannunziata da una bandiera bianca, salutata con benevolenza dai capresi. Niente sangue e lacrime.

Il secondo episodio è l’atteggiamento dei militari italiani. Dopo il comunicato di Badoglio, la sera dell’8, il colonnello Marsiglia, che aveva il comando dei reparti e la responsabilità di difendere l’isola dagli Alleati, non ha fatto come il suo capo, il generale Riccardo Pentimalli, comandante del XXIII corpo d’armata, che a Napoli ha consegnato la città ai tedeschi, ha ordinato ai soldati di consegnare le armi, si è messo in borghese e se ne è andato4. Il colonnello Marsiglia ha trattato con onore e dignità col comando tedesco, li ha convinti a partire senza distruggere niente e ora sta sull’isola con i suoi bersaglieri. A far che cosa? Non si sa. A Napoli non c’è più chi dovrebbe dare ordini, in un senso o nell’altro. A Roma il governo non esiste, il re e Badoglio sono scomparsi e nessuno, sul momento, ne conosce la sorte. Da che parte stare? Dalla parte dei tedeschi, no; dalla parte degli Alleati la voglia c’è, ma nessuno ha dato l’ordine.

La soluzione è nel terzo episodio, pomeriggio del 10. Alle cinque entrano nel porto di Marina Grande sette motosiluranti; ne è a capo il capitano di fregata Alessandro Michelagnoli, comandante della II Flottiglia mas5. Viene da Gaeta; per radio ha conosciuto gli ordini della Marina e del suo ministro De Courten: rimanere fedeli al giuramento fatto al re e raggiungere la Sicilia o un qualsiasi porto controllato dagli angloamericani, issando, accanto al tricolore, una bandiera nera, come è stato deciso, in base all’armistizio, dal governo Badoglio. Allora un governo c’è, anche se se non si sa dove sia; informale, ma c’è.

Il comandante delle motosiluranti Alessandro Michelagnoli è un capitano di fregata e il suo grado corrisponde a quello di tenente colonnello dell’esercito. Il comandante della guarnigione di Capri Guido Marsiglia è un colonnello, quindi superiore di grado. Ma Marsiglia è il capo di un reparto di un esercito che si è dissolto e non c’è più e Michelagnoli rappresenta invece la Marina militare che esiste e, sia direttamente sia formalmente attraverso il governo Badoglio, interloquisce con le autorità alleate. A Capri non ci sono più i tedeschi e non ci sono ancora gli Alleati; i marinai che sono arrivati hanno l’autorità di controllare l’isola insieme ai bersaglieri che c’erano. Capri è quindi libera terra italiana, la prima terra italiana in mano alle Forze armate italiane. È l’11 settembre.

Ma gli alleati quando arriveranno? Il 12 ne arriva uno; uno solo. È Peter Tompkins, 23 anni, un giornalista americano, già corrispondente della Nbc dall’Italia; ha passato l’infanzia tra Roma e la Toscana, parla benissimo l’italiano. Ora è un agente dell’Oss (“Office of strategic services”), cioè del Servizio segreto militare americano e, con l’aiuto di un ottimo apparecchio radiotrasmittente, ha il compito di accertare la presenza di soldati tedeschi nelle zone di avanzata e di informarne i Comandi interessati

Capri è importante; può diventare un prezioso osservatorio sul golfo di Napoli. Tompkins è a bordo di una motosilurante, un As13. Non sa niente di quello che è successo nell’isola e per prudenza non si avvicina al porto di Marina Grande; può darsi che ci siano dei tedeschi. Il motoscafo si accosta nei pressi della Grotta Azzurra. Una lancia lo porta a terra. Tompkins si inerpica con cautela e appena in alto si trova di fronte, nei cespugli, alla bocca di una mitragliatrice e alla faccia di un soldato. È la faccia, e l’uniforme, di un italiano, un sottufficiale.. “Sono americano” grida Tompkins. “Americano?” dice l’italiano; si alza in piedi, chiama i compagni, tira fuori un fiasco di vino, il buon vino bianco dei vigneti di Capri. Un brindisi generale festeggia il primo alleato arrivato nell’isola6.

Nel pomeriggio continua la festa per Tompkins. Avverte i compagni del motoscafo, che si àncora sicuro nel porto di Marina Grande; fanno il bagno in un mare che, col sole che tramonta – racconterà – si illumina di rosso; e poi tutti a fare uno spuntino allo Scoglio delle Sirene, sul versante sud, un quarto d’ora dalla Piazzetta, pagando in dollari (il proprietario del locale, sorpreso, rigira a lungo nelle mani i non conosciuti biglietti verdi) e scrivendo nel registro delle presenze “Buona fortuna. Che questa guerra possa finire presto”. C’è anche la data: 12 settembre 1943.

Di sera, alle 8, si avvicina a Marina Grande una motosilurante inglese. A bordo c’è il capitano Charles Andrews, comandante del cacciatorpediniere americano “Knight”, che è rimasto ancorato al largo di Maiori. Da terra un segnale luminoso chiede di farsi identificare. “Marina inglese” risponde la motosilurante. “Il porto è libero” gli replicano.

La motosilurante inglese si àncora accanto ai sette mas italiani. Sul porto c’è parecchia gente; in prima fila il comandante Michelagnoli, il colonnello Marsiglia e Giuseppe Brindisi, l’amico di Benedetto Croce, commissario prefettizio dal 5 settembre e sindaco “in pectore” dell’isola. Al comandante Andrews il capitano di fregata Michelagnoli spiega la situazione: Capri è in saldo possesso delle forze italiane navali e terrestri e la difesa dell’isola può considerarsi garantita. Insomma gli fa capire che gli Alleati non sono conquistatori; quasi ospiti, semmai.

La mattina di lunedì 13 Capri diventa una testa di ponte per la liberazione di Napoli. È un continuo arrivo di unità navali inglesi e americane e sulla banchina del porto una banda intona ogni tanto “It is a long way to Tipperary”. Arrivano anche gli uomini del Soe, al comando del maggiore Munthe e col tenente Gallegos, che si portano dietro Albero Cianca e Alberto Tarchiani. In serata entra in porto anche il cacciatorpediniere “Knight”; fra i suoi 276 uomini di equipaggio ci sono l’attore cinematografico Douglas Fairbanks, il giornalista Humbert Knickerbocker del “Chicago Tribune” e lo scrittore John Steinbeck; ma ci sono anche trentadue italiani fuorusciti e confinati, fra cui Tito Zaniboni, il deputato socialista che nel 1926 cercò di ammazzare Mussolini7.

Ieri martedì è arrivato finalmente a Capri il designato capo in testa, il contrammiraglio americano Anthony Morse, che sùbito ha preso ufficialmente il comando dell’isola. Ha stabilito il suo quartier generale nella villa Ciano al Castiglione, una villa ancora piena di ogni ben di Dio, soprattutto vini e liquori, e stamani ha pubblicato le sue ordinanze: il colonnello Marsiglia manterrà il comando delle truppe italiane, Giuseppe Brindisi dirigerà l’amministrazione civile (diventerà poi sindaco), ogni perturbamento dell’ordine pubblico sarà severamente represso, non ci sarà coprifuoco ma solo l’oscuramento delle luci dalle 20 alle 6 del mattino, la pesca diurna sarà permessa entro il raggio di un miglio dalla costa e, ultima norma, “i bagni sulle spiagge dell’isola sono consentiti dall’alba al tramonto”.

Dopo molte incertezze, il maggiore Munthe ha deciso ieri di andare al San Michele, dove ha passato molti periodi di un’infanzia non felice accanto a una madre adorata e a un padre stravagante e traditore. È salito ad Anacapri con uno dei pochissimi taxi disponibili. Il tassista si è voltato a guardarlo più di una volta e poi “Ma lei è il signorino di San Michele” ha detto; e ha tirato fuori dal portafoglio una foto di Malcolm bambino. In piazza, a Anacapri, è stata una festa; la gente si è affollata intorno al taxi: “il signorino, il signorino”.

Stamani il “signorino” cioè il maggiore Malcolm Munthe ha dato il via al tenente Gallegos per il salvataggio di Benedetto Croce e stasera alle dieci e mezzo è andato a Marina Grande a dargli il benvenuto. Dopodomani Munthe lascerà Capri. Non è in vacanza; tornerà vicino a Salerno, dove in un villino fra gli olivi il Soe ha installato il suo quartier generale8. Lì nascosti ci sono altri fuorusciti italiani arrivati al seguito delle truppe inglesi: Aldo Garosci, Dino Gentili, Leo Valiani.9

Nella villa all’Oliveto Benedetto Croce non fa che ricevere visite, di amici e di persone importanti che vogliono conoscerlo. È quasi un corteggiamento e gli americani fanno a gara con gli inglesi. Dopo la visita, dopodomani 17, dell’ammiraglio Morse, il 22 sbarcherà a Capri, proprio per incontrarsi con Croce, il generale William Donovan, capo dell’Oss, i Servizi segreti americani, e amico personale del presidente Roosevelt.

Il generale ha saputo da Tompkins che Croce ha un progetto: la costituzione di un esercito italiano che combatta al fianco degli Alleati per la liberazione dell’Italia. L’indomani, il 23, Donovan invierà un appunto al generale Mark Clark, comandante delle quinta armata americana, che ha già preso possesso della piana di Salerno e sta preparando l’avanzata verso Roma. Il piano di Croce è di creare una formazione di volontari italiani da assimilare alle Forze armate alleate, non partigiana ma forza combattente secondo le regole della convenzione di Ginevra sotto la bandiera italiana. Istruttori dell’Oss americano e del Soe inglese avrebbero il compito dell’addestramento secondo le moderne tecniche di combattimento e di guerriglia.

Come comandante della formazione Benedetto Croce ha fatto un nome: il generale Giuseppe Pavone. Molti non sanno niente di lui e alcuni ne sanno poco: comandante di battaglione e colonnello per merito di guerra nell’agosto del 1917, legionario fiumano, noto massone, comandante in Somalia della divisione Peloritana; ha 67 anni, una lunga barba brizzolata, è a risposo; un “fascistone” dice Max Salvadori “che si è messo a fare il dissidente quando lo hanno emarginato”; insomma un nome che fin da sùbito non riscuote molte simpatie; nessuna simpatia da parte di Tompkins.10.

Il generale Pavone, comunque, arriverà a Capri venerdì 24, proprio quando Raimondo Craveri (come pseudonimo di lotta è noto come Mondo, Mundo per gli inglesi; avvocato o mister o tenente) creerà sulla carta col suocero Croce, con Tarchiani (e anche con Pavone, di necessità) un Fronte nazionale di liberazione, aperto a tutte le forze interessate alla liberazione dell’Italia, sia quelle già esistenti, sia quelle che si costituiranno. Benedetto Croce si impegna a scrivere un manifesto agli italiani perché si arruolino volontari nel nuovo esercito. Il manifesto uscirà il 10 ottobre, dopo la liberazione di Napoli.

Si sa che il piano crociano di un gruppo militare di volontari italiani al fianco degli Alleati passa il 23 settembre dal generale Donovan al generale Clark. Non si sa se l’idea passa poi dal generale Clark a qualcuno più in alto. Si sa però che il 26 settembre sarà autorizzata la costituzione di una brigata italiana da inquadrare nelle Forze armate americane. Si chiamerà Primo Raggruppamento motorizzato, che diventerà nel marzo dell’anno prossimo il Corpo italiano di liberazione.


1 Buona parte delle informazioni di questa giornata è tratta da un interessantissimo libro di Marcella Leone de Andreis, una giornalista formatasi a “Panorama” alla scuola di Lamberto Sechi. Il libro, intitolato “Capri 1943 – C’era una volta la guerra”, è di piacevolissima lettura e soprattutto pieno di informazioni tutte accuratamente documentate con citazioni in nota.

2 Il palazzo Filomarino si trova al numero 12 della via che è stata poi intitolata a Benedetto Croce. Del filosofo è stata residenza fino alla sua morte, nel 1952. Ospita oggi l’Istituto Italiano per gli Studi Storici e la Fondazione Biblioteca Benedetto Croce (vedi anche le rispettive pagine su Wikipedia: Istituto Italiano per gli Studi Storici e Fondazione Biblioteca Benedetto Croce).

3 Si veda la giornata del 9 settembre.

4 Il generale Riccardo Pentimalli fu accusato di collaborazionismo e della mancata difesa di Napoli. Per l’accusa di collaborazionismo fu lo stesso Alto Commissario per la punizione dei delitti fascisti a proscioglierlo “perché il fatto non sussiste”, ma, processato per “abbandono di comando”, il 24 dicembre 1944 fu condannato dall’Alta Corte di Giustizia – con sentenza dichiarata inappellabile – a 20 anni di reclusione. Il 27 dicembre 1946 (l’anno della sconcertante “amnistia Togliatti”) la Corte Suprema di Cassazione, sezioni unite penali, stabilì che le sentenze dell’Alta Corte erano inappellabili solo se “giuste”, riconobbe che in precedenza v’era stata “l’inosservanza di quel minimo di elementi che garantiscono il regolare svolgimento di un processo”, annullò la sentenza dell’Alta Corte e ordinò la sua immediata scarcerazione del Pentimalli.

5 Alessandro Michelagnoli, medaglia d’argento al valor militare, sarà capo di stato maggiore della Marina negli anni Sessanta.

6 Lo racconta lo stesso Peter Tompkins nel libro “L’altra Resistenza – La liberazione raccontata da un protagonista dietro le linee”, edito da Rizzoli nel 1995. Tompkins ha dedicato il libro a Raimondo Craveri.

7 Tito Zaniboni aveva organizzato, d’intesa col generale Luigi Capello, un attentato a Mussolini. Il progetto era di sparargli con un fucile di precisione da una finestra dell’albergo Dragoni, che fronteggiava il balcone di palazzo Chigi da cui si sarebbe affacciato Mussolini. L’attentato, il 4 novembre 1925, fallì per il tradimento di un compagno. Zaniboni fu arrestato tre ore prima dell’attentato a condannato a venticinque anni di reclusione, poi commutati in confino a Ponza.

8 Il maggiore Munthe verrà gravemente ferito alla testa e al petto il 6 febbraio del 1944 in una operazione a Tor San Lorenzo, mentre tenta di entrare in Roma per collegarsi con i partigiani che operano nella città. Dopo vari ricoveri in ospedali a Napoli e ad Algeri sarà rimpatriato nel 1944. Il tenente Gallegos, naufragato durante un’operazione davanti a Gaeta, sarà fatto prigioniero dai tedeschi, detenuto a Roma a Regina Coeli, poi prigioniero in Germania; riuscirà a fuggire e a tornare in patria attraverso la Francia e la Spagna. Farà a tempo a rientrare in Italia e a partecipare alle ultime operazioni del Soe.

9 Aldo Garosci, 1907-2000, uno dei fondatori di “Giustizia e libertà”, arrestato nel 1932, fuggito in Francia, attivo nella guerra civile spagnola, esule di nuovo in Francia e poi negli Stati Uniti, rientrato in Italia e attivo nella Resistenza col Partito d’Azione, socialista, dopo la liberazione, col Psi e col Psdi, docente di storia all’università di Roma e di Torino. Dino Gentili, 1901-1984, di famiglia ebraica, uno dei fondatori di “Giustizia e libertà”, arrestato nel 1930, esule a Roma, rientrato in Italia e militante socialista, imprenditore a livello internazionale, amministratore delegato della Cogis (Compagnia generale interscambi). Leo Valiani, 1909-1999, di famiglia ebraica, confinato a Ponza, esule in Francia, rientrato in Italia, esponente del Partito d’azione, deputato all’Assemblea costituente per il Partito d’azione, nominato senatore a vita nel 1980 e aderente prima al Partito repubblicano e poi alla Sinistra democratica.

10 Il generale Pavone esce subito di circolazione; morirà dopo qualche mese.

15 settembre – Di più

– Il prezioso libro – “Capri 1943” – di Marcella Leone de Andreis ci parla anche delle avventure capresi di Curzio Malaparte, ampiamente smentendo i fantasiosi racconti autobiografici di questo straordinario personaggio, noto per le sue stravaganze politiche e per tre dei suoi libri, “Kaputt” (1944), “La pelle” (1949) e “Maledetti toscani” (1956).

Kurt Erich Suckert (Curzio Malaparte dal 1925) nasce a Prato nel 1898 da madre milanese e padre sassone, Erwin Suckert. Nel 1914 (è cominciata la prima guerra mondiale, ma l’Italia entrerà in guerra un anno dopo) si arruola sedicenne nella Legione garibaldina inquadrata nella Legione straniera francese. Nel 1916 è alpino nell’esercito italiano. Si iscrive al Partito fascista nel 1920. Marcia su Roma nel 1922. Sostiene Mussolini durante la crisi seguita al delitto Matteotti, 1924, e al discorso, gennaio 1925, che dà il via alla dittatura. Direttore della “Stampa” di Torino nel 1929. Confinato a Lipari nel 1933 per presunti discorsi antifascisti. Liberato per intervento di Galeazzo Ciano, di cui diventa grande amico. Nel 1936 si fa costruire a Capri, su disegno dell’architetto Adalberto Libera, una grande villa in una zona non edificabile e soggetta a vincoli di tutela del paesaggio. Nella seconda guerra mondiale è capitano degli alpini e inviato del “Corriere della sera” in Russia, in Grecia e in Croazia. Grande è il successo delle sue corrispondenza dalla Russia, finché il “Corriere” non si accorge che le ultime Malaparte le ha scritte dalla sua villa di Capri. Perdonato, torna al fronte ed è in Finlandia quando apprende che Mussolini.è stato arrestato.

Siamo arrivati al 1943. È appena rientrato in Italia e il 31 luglio Malaparte è fatto arrestare dal governo Badoglio con l’accusa di aver diffuso voci di colpi di mano tedeschi. Nel carcere di Regina Coeli rimane pochi giorni; il 7 agosto esce e si rifugia nella sua villa di Capri. Dopo la liberazione dell’isola e l’arrivo degli alleati frequenta assiduamente la villa dell’Oliveto, nonostante che Benedetto Croce non gli dimostri né simpatia né stima (“…è terribilmente noioso, fa sempre gli stessi discorsi, ripete quello che ha già scritto nelle sue corrispondenze di guerra…”), Nel novembre del 1944, quando uscirà “Kaputt”, Croce scriverà nel suo diario: “Lettura di un volumaccio di C. Malaparte per la curiosità di penetrare nella mente e nell’animo dell’autore, dove mi pare che non ci sia niente”.

I capresi approfittano intanto della nuova situazione e sfogano contro Malaparte rancori antichi: sia per le sue vecchie amicizie altolocate e troppo vantate, sia per aver chiamato Punta Malaparte quella che sulla carta è scritta Punta Massullo, sia per quella villa che deturpa il paesaggio e – si dice – tiene lontano l’annuale passaggio delle quaglie a danno dei cacciatori capresi. Il Comitato di liberazione, cioè il Comitato dei partiti antifascisti, tempesta da tempo l’Alto Commissariato per le sanzioni contro il fascismo, denunziando la presenza nell’isola di pericolosi fascisti; fra questi Curzio Malaparte, anzi Curzio Malaparte Suckert, “giornalista fascista, corrispondente di guerra, teste al processo Matteotti in favore di Amerigo Dumini”. Anche Axel Munthe parla male di lui (“È un cialtrone”) e lo dice ai Servizi segreti inglesi.

L’8 ottobre si presentano alla villa di Malaparte due agenti alleati per notificargli una diffida a lasciare l’isola. È un provvedimento di polizia che colpisce vari ex-gerarchi fascisti e Malaparte protesta vivacemente col commissario prefettizio Brindisi, vantando il suo passato di antifascista e di perseguitato dal fascismo. Di lì a poco, però, il 22 novembre, due sottufficiali della polizia americana arrivano a Punta Massullo con un mandato di arresto e Malaparte viene portato a Napoli e rinchiuso nel carcere di Poggioreale. Vi rimarrà pochi giorni. Intervengono alti personaggi, perfino l’ambasciatore americano William Phillips, e Malaparte, scarcerato, torna a Capri. Ogni venerdì dovrà tuttavia presentarsi a rapporto al Comando alleato.

Così per tutto il resto dell’anno, finché, nel febbraio del 1944, Malaparte si decide al gran passo. Si reca a Napoli e si presenta nella sede del Partito comunista in via San Potito; chiede l’iscrizione al Pci. Contrariamente alle sue abitudini, si è messo, data la sede, un vestito dimesso e malandato, ma con un bel foulard legato con finta negligenza intorno al collo. Non è tuttavia per questo che i compagni rimangono imbarazzati; non ignorano il passato di Malaparte e la questione rimane perciò in sospeso

Malaparte non è uomo da rassegnarsi. Nella libreria dell’editore Gaspare Casella, che gli pubblicherà nel 1946 il suo “Kaputt”, cerca di fare amicizia con Massimo Caprara, che con altri intellettuali di sinistra, fra cui Giorgio Napoletano, ha dato vita a una rivista, “Latitudine”- La rivista acquista però fama di trotzkismo e Malaparte preferisce allora fare amicizia con Eugenio Reale, alto dirigente del Pci, oltre che. medico colto.

Il fatto nuovo avviene nel 1944. Il 27 marzo sbarca a Salerno un uomo avvolto in un mito. È Palmiro Togliatti, vicesegretario del Komintern, l’organizzazione internazionale dei partiti comunisti, e personaggio molto vicino a Stalin. Il 9 aprile Togliatti accetta l’invito di Eugenio Reale e si trasferisce a Capri. Il compagno Reale lo porta a spasso per un bel sentiero sulla scogliera, ed è proprio il sentiero che conduce alla villa di Malaparte; che è lì, in attesa.

A Togliatti, accolto con calore nella villa, Malaparte comincia a raccontare le sue avventure di guerra, vere o meno vere, e il suo confino a Lipari e poi aneddoti su aneddoti sul soggiorno di Lenin a Capri e anche di una visita di Stalin, sebbene nessuno ne abbia mai parlato. Dice anche che, visto dall’alto, il tetto della sua villa ha la forma di una falce e di un martello. Dopodiché, a bruciapelo, chiede a Togliatti la tessera del Pci.

Togliatti non dice di sì, ma non vuole rispondere di no; perciò gira la richiesta a Reale; “Tu che ne pensi?”. Reale capisce e prende tempo. Per ora Malaparte sarà solo il corrispondente di guerra dell'”Unità”, organo del partito.

“Ho vinto” dice Malaparte al suo amico Caprara e si precipita al fronte, a Roma e poi a Firenze, giugno e luglio. Cinque corrispondenze con la firma di Gianni Strozzi. La sesta sarà buttata nel cestino; nella redazione dell”Unità” Mario Alicata e gli altri scoprono chi è Gianni Strozzi.

Finisce così, per ora, l’avventura comunista di Curzio Malaparte. Nessun problema. Malaparte riprende contatti col colonnello Henry Cumming, che a Capri guida i Servizi segreti alleati, poi nell’autunno del 1944 si fa richiamare alle armi dal ministero italiano della guerra e sùbito diventa ufficiale di collegamento con lo Psycological Warfare Branch, l’organismo del governo militare anglo-americano incaricato della gestione dei mezzi di comunicazione in Italia. È il potentissimo PWB, così potente che Malaparte si salva anche, nell’aprile del 1945, da un nuovo arresto per “crimini fascisti”.

Al comunismo torna dodici anni più tardi, nel 1957, dopo un viaggio nella Cina di Mao. Ne è così affascinato che alla Repubblica popolare cinese, sapendo di essere vicino alla morte, lascia in eredità la sua villa di Capri. Muore di cancro nello stesso anno e viene seppellito in una specie di mausoleo che si è fatto costruire sul Monte Spazzavento, una collina che domina Prato.


– La permanenza di Benedetto Croce a Capri e nella penisola sorrentina fu molto laboriosa, a parte le decine di italiani e soprattutto di stranieri che chiedevano di incontrarlo. Un primo problema fu di ridare una credibilità internazionale all’Italia postfascista e quindi la proposta (si veda sopra) della costituzione di un contingente militare italiano da affiancare in combattimento alle forze angloamericane. Il secondo era un problema delicato e largamente controverso: la sorte della monarchia.

Ai suoi visitatori che l’interrogavano su questo tema Croce amava ripetere un aneddoto. Lo ha raccontato anche all’autore di questo libro, andato a fargli visita a Firenze nel maggio del 1945 nella villa Montalto, dove era ospite dell’amico Tammaro De Marinis.

Nella battaglia di Adua nel 1896 durante la guerra d’Africa – raccontava Croce – il generale Ellena, che comandava le truppe a cavallo di un bel cavallo bianco, fu colpito da un proiettile nemico nel “di dietro”, perché il cavallo si era impennato e improvvisamente si era girato. Non era colpa sua, la colpa era del cavallo, ma poteva continuare a comandare un generale colpito nel “di dietro”? No; e così fu messo a riposo.

L’aneddoto non era proprio pertinente. Non si poteva dire infatti che le colpe del re Vittorio Emanuele di compromissione con Mussolini e col fascismo non fossero sue ma di qualcun altro; però l’aneddoto faceva capire il pensiero di Benedetto Croce: la prima cosa da fare per risolvere il problema della monarchia, in vista della fine della guerra e del ritorno dell’Italia alla democrazia, era l’abdicazione del re. Si trattava di stabilire in favore di chi. Del figlio Umberto? Anche il principe Umberto era sufficientemente compromesso, e la soluzione migliore, discussa da Croce con i suoi amici, era l’abdicazione del re in favore del nipote Vittorio Emanuele, allora seienne, e la nomina di un reggente, per il quale si faceva il nome di Enrico De Nicola, avvocato napoletano, stato presidente della Camera dei deputati dal 1920 al 1924 (sarà il “Capo provvisorio dello stato” – lui monarchico – dopo il referendum istituzionale del 1946 e l’avvento della repubblica).

Contrario all’una e all’altra delle proposte soluzioni era tuttavia il re, deciso a rimanere in carica a tutti i costi. Il 28 ottobre Benedetto Croce ebbe la visita di Pietro Acquarone, duca di nomina regia, senatore e Ministro della real casa. Era venuto apposta da Brindisi per perorare la causa del re e implorare il conforto di quello che veniva considerato anche all’estero la maggiore autorità culturale dell’Italia. Un “colloquio penoso” scriverà Croce nel suo diario; e la sua risposta ad Acquarone: “La persona del re ha perso ogni prestigio anche presso la classi popolari per effetto della sua dedizione al fascismo e non può dare nessuna coesione alle forze italiane nella guerra contro i tedeschi”; e alla richiesta di un aiuto con la parola e con la penna: “Tutti i maggiori sforzi, tutta la migliore volontà non varrebbero a ridar vita a chi ha voluto suicidarsi”.

Tre giorni dopo, il 31, Benedetto Croce si incontrò con Badoglio, capo del governo di quello che era chiamato il “Regno del sud”. Anche lui era venuto da Brindisi per discutere lo stesso tema, la sorte della monarchia; era a Napoli, in casa di Carlo Scorza, tornato in Italia dopo sedici anni di esilio e in quei giorni a letto per una leggera malattia. Croce conosceva bene Carlo Sforza (ambasciatore in parecchie capitali, l’ultima Parigi nel 1923, ministro degli esteri con Giovanni Giolitti nel 1920-21, senatore del Regno) e accettò l’invito. Valeva la pena di lasciare Sorrento per Napoli, sia per il tema, sia per la persona di Badoglio, tanto discussa, ma in quei tempi così vicina al re.

Badoglio non aveva bisogno di essere convinto, ma poteva un generale, anzi un maresciallo d’Italia, operare – disse – contro la volontà del suo re? Aveva perfino lottato a lungo per convincere Vittorio Emanuele a dichiarare guerra alla Germania. L’unica cosa forse possibile era, col tempo, non l’abdicazione del re ma una reggenza del principe di Napoli, Umberto.

Questa, otto mesi dopo, il 6 giugno del 1944, fu la soluzione del problema: il re non rinunziava alla sua dignità di sovrano ma ne affidava le prerogative al figlio Umberto come “luogotenente del regno”.

I guai però non erano finiti. Non bastavano le resistenze del re, i suoi cavilli, le sue pretese sul testo del comunicato ufficiale, la data della comunicazione (non prima della liberazione di Roma). Il 20 aprile il “Times” di Londra pubblicò un’intervista del suo corrispondente Chistopher Lumby al principe Umberto. Il futuro luogotenente dichiarava che la guerra contro gli Alleati era stata voluta dal re ma anche da tutto il popolo italiano, tanto è vero che nessuno protestò né chiese la convocazione del Parlamento.

L’incredibile intervista suscitò una bufera. Come? Durante la dittatura fascista c’era in Italia possibilità di dissenso? di proteste? di ricorso al Parlamento? un Parlamento che era stato sostituito dalla Camera dei fasci e delle corporazioni, di nomina mussoliniana? Benedetto Croce venne a sapere dell’intervista il 27 aprile e si indignò, anche perché il giorno prima aveva ricevuto la visita proprio del principe di Napoli (“Se l’avessi saputo – scriverà nel suo diario – gliene avrei parlato in termini forti”).

Si riunì anche il Consiglio dei ministri (secondo governo Badoglio e primo governo politico di unità nazionale) e i ministri del Partito d’azione (Sforza, Tarchiani e Omodeo) volevano buttare tutto all’aria. Fu Palmiro Togliatti, seppure arrivato in ritardo alla riunione, che calmò gli animi. C’era una priorità di problemi, disse; e riaprire la questione monarchica in quel momento avrebbe significato compromettere con gli Alleati tutti gli sforzi per garantire l’esistenza di un governo italiano.

Anche grazie a Togliatti il principe Umberto diventò così luogotenente del regno il 5 giugno del 1944, il giorno dopo la liberazione di Roma. Sarebbe diventato re il 9 maggio del 1946 (ecco perché sarà chiamato il “re di maggio”); Vittorio Emanuele III si era finalmente deciso ad abdicare. Meno di un mese dopo, il 2 giugno, era stato fissato il referendum istituzionale. Monarchia o repubblica? Fu repubblica.

– Si è parlato, più sopra, dell’aneddoto raccontato da Benedetto Croce all’autore di questo libro il 25 maggio del 1945 sul problema della monarchia dei Savoia. L’incontro avvenne nella villa Montalto in via del Salviatino a Firenze, sulle pendici dei colli che stanno tra Fiesole e Settignano. La villa, costruita alla fine dell’Ottocento da un principe prussiano e circondata da un grande parco, era ora di proprietà del bibliofilo napoletano Tammaro De Marinis (1878-1969), grande collezionista di libri antichi e di opere d’arte.

De Marinis era un antico amico di Benedetto Croce e fu lieto di ospitarlo durante il suo soggiorno a Firenze, dove per una lezione all’università era stato invitato dal rettore Piero Calamandrei. Da Napoli a Firenze in auto, racconta Croce, c’erano volute undici ore, soprattutto per le condizioni della via Cassia.

Oltre che di Croce, De Marinis era stato un grande amico anche di Giovanni Gentile e lo aveva ospitato nella sua villa nella primavera del 1944, quando Gentile, avendo aderito alla Repubblica Sociale, era stato nominato da Mussolini presidente dell’Accademia d’Italia, trasferita da Roma a Firenze. Proprio davanti al cancello d’ingresso della villa, il 15 aprile di quell’anno, Giovanni Gentile fu ammazzato da un gruppo di partigiani comunisti.


– L’assassinio di Giovanni Gentile il 15 aprile del 1944 suscitò un grande clamore e ha continuato fino ad oggi ad essere soggetto di dibattito politico. C’era in Italia, in quegli anni una guerra civile, ma fu giusto uccidere un uomo di studi e di pensiero? E chi aveva deciso la morte di quel grande filosofo?

Di questo tema si è occupato anche l’autore di questo libro con una lettera a Mario Pirani al quotidiano “La repubblica” il 27 dicembre 2006.

“Caro Mario,
ho letto oggi con pieno consenso la tua “linea di confine” sulla morte di Giovanni Gentile. Vivevo allora a Firenze e in quell’aprile del 1944 dirigevo un giornale clandestino liberale, “l’Opinione”. Dopo un primo approccio col partito d’azione (ne conservo ancora la tessera) la mia estrazione crociana mi aveva portato al Partito liberale, della cui sezione fiorentina fui uno dei rifondatori insieme a Eugenio Artom (poi senatore del Pli nel 1963) e a Aldobrando Medici Tornaquinci (poi sottosegretario per le Terre occupate nel terzo governo Bonomi); ne fui il primo segretario politico dopo la liberazione di Firenze.

La notizia dell’attentato di via del Salviatino mi colpì dolorosamente. Mi ero laureato in filosofia nel 1940 (avevo poco più di venti anni; oggi ne ho “soltanto” 85) con una tesi su Benedetto Croce, ma i testi di Giovanni Gentile li avevo studiati con passione e sofferenza: con passione, per questo grande pensatore col quale avevano fine duemila anni di filosofia sistematica (dopo di lui la filosofia ha preso altre strade, e diverse); e con sofferenza, per la sua continuata adesione al fascismo (come poteva un uomo del suo talento stare con Mussolini e con la dittatura? addirittura con le leggi razziali e con la Repubblica Sociale?).

Dolore, dunque, per la morte di Giovanni Gentile, ma non indignazione, come accadrebbe oggi se un Giovanni Gentile venisse ammazzato da qualche scellerato terrorista di questo o quel colore. Perché?

Come tu hai scritto, alcuni storici di oggi, più o meno revisionisti, sono bravi nel ricostruire le vicende di quegli anni terribili, ma non si sforzano minimamente di capire il clima di allora, il contesto storico, politico, culturale e anche emotivo in cui vivevamo. C’era in corso una guerra di liberazione e una guerra civile; e ogni giorno c’erano morti, quasi tutti dalla nostra parte.

Per alcuni di noi, come me, l’armistizio dell’8 settembre e la fine della guerra fascista non erano stati un trauma, ma il coronamento di antiche attese e speranze; la nostra scelta l’avevamo fatta da tempo. Ma per molti – studenti, laureati, docenti, che per pochezza di letture o mancanza di tradizioni familiari sapevano poco o niente di libertà e di democrazia – il rovesciamento delle alleanze pose interrogativi tormentosi: da che parte stare? davvero col nemico di ieri? davvero con coloro contro i quali per tre anni ci avevano detto di sparare?

Vero è che dall’altra parte c’erano stati venti anni di dittatura, c’era stata la soppressione di diritti civili, c’erano state le leggi razziali, e ora c’erano le deportazioni degli ebrei, c’era la ferocia assassina delle Brigate nere, c’erano le torture di tante Ville Tristi; ma dalla stessa parte c’era anche Giovanni Gentile e la sua autorità e il suo prestigio di uomo di studi e di pensiero.

Fu proprio per Giovanni Gentile che molti giovani si schierarono dalla parte sbagliata. Ecco perché Teresa Mattei (la cara Chicchi), nei giorni in cui suo fratello era torturato dai fascisti repubblichini tanto da portarlo al suicidio, non si oppose alla decisione del suo compagno Bruno Sanguinetti di ispirare un atto clamoroso di guerra e di sangue, e addirittura collaborò all’identificazione dell’obbiettivo. Ecco perché uno come me – contrario ad ogni tipo di violenza e anche alla guerra, sia pure con qualche se e con qualche ma, e quella nostra contro i tedeschi e i fascisti era una guerra con molti se e molti ma – provò dolore, ma non indignazione per la morte di Giovanni Gentile.

Uccidere è un male, ma quella era una guerra, che non avevamo voluto noi. In una guerra i morti sono tutti eguali; i vivi, no. E da vivo Giovanni Gentile fu un grande pensatore, ma, per molti, anche un grande cattivo maestro.”


– La notizia della morte di Giovanni Gentile fu conosciuta due giorni dopo, il 17, da Benedetto Croce. Così scrive nel suo diario: “Tale la fine di un uomo che per circa trent’anni ho avuto collaboratore, e verso il quale sono stato sempre amico sincero, affettuoso e leale. Ruppi la mia relazione con lui per il suo passaggio al fascismo, aggravato dalla contaminazione che egli fece della filosofia con questo; e perciò nella rivista la “Critica” non lasciai di combattere e ribattere molte delle cose che egli veniva asserendo in oltraggio della verità…Poi accadde quello che accadde; l’Italia fu spezzata in due; di lui seppi che aveva accettato di presiedere l’Accademia d’Italia e stava molto in vista nella repubblica fascistica tenendo discorsi a questa intonati. …Radio Londra che ha definito la morte ‘giustizia’ e ha aggiunto severi commenti sull’uomo ha fatto scoppiare in pianto Adelina, che ricordava lui, nei primi tempi del nostro matrimonio, bonario uomo ed amico”.


– Il 18 giugno 1944 fu costituito, dopo il secondo governo Badoglio, un governo finalmente presieduto da un uomo politico, Ivanoe Bonomi, settantenne, uno dei fondatori del partito socialista riformista negli anni Dieci e presidente del consiglio nel 1921-1922. Il 22 giugno i ministri dovevano giurare nelle mani del nuovo capo dello stato, che formalmente era il da poco nominato luogotenente del regno Umberto di Savoia. Benedetto Croce era uno dei ministri senza portafoglio. Così scrive nel suo diario: “Pur dichiarandomi pronto a firmare il giuramento, non sono voluto andare di persona. Dopo la risposta che fui costretto a fargli per la sua sciagurata intervista nel ‘Times’, dopo averlo a chiare note tacciato di menzogna e di ipocrisia e definito indegno il suo tentativo di riversare le colpe di suo padre e sue sul popolo italiano, sento che la stretta di mano che egli mi darebbe, le parole amabili che mi direbbe, sarebbero un avvilimento della sua persona a me stesso penoso come come ogni avvilimento della dignità umana da noi provocato”.

Gli altri ministri senza portafoglio erano Togliatti, De Gasperi, Saragat, Sforza, Ruini, Cianca, Carandini.