24 luglio

Ore di attesa. Il Gran Consiglio si riunirà alle 17. Giuseppe Bottai medita sui suoi venti anni di fascista e sulle sue delusioni, mentre Dino Grandi raccomanda sé e i suoi a Dio e mette in tasca due bombe a mano.

“Giornata attesa con drammatica commozione. A un bivio. Il nostro dovere ci ha messo a un bivio, tra Paese e Partito, tra Italia e Regime, tra Re e Capo”. Così Giuseppe Bottai comincia la pagina di oggi del suo diario1. Alle 17 comincerà a palazzo Venezia la riunione del Gran Consiglio del fascismo.

“Passo le ore meridiane e pomeridiane in attesa delle seduta, nella mia casa, edificata da un lavoro onesto, da una fede operosa. M’avviene di guardare tutto, queste mura, queste cose, questi libri, queste piante che sotto il cielo cupo e afoso ammiccano alle finestre, con senso d’amore già distaccato. Tutto appartiene a una tramontata lunga patita giornata.

“Mi sdraio sul letto; e seguo nell’ombra densa il mio pensiero, che vi scrive un suo disegno. Un pensiero già staccato da me, pel quale io non sono, la mia persona non è, che uno degli attori del dramma. Questo è, comunque, alla fine. Il ‘mio’ Fascismo, abbracciato dopo tre anni di guerra come sublimazione della causa italiana in un’esperienza capace d’arricchirla di nuovi valori, sociali soprattutto, il mio Fascismo, che negò costantemente la formula ‘antisorgimento’ e, perfino, l’altra, ‘antirivoluzione francese’, che spiriti pur acuti e illuminati ebbero il torto di lasciar trapassare da un piano essenzialmente dialettico, dove aveva un senso, all’esagitazione insensata e demagogica dei fanatici e degl’imbecilli, il mio Fascismo corporativo e libertario, autocritico e aperto al dibattito delle idee, doveva condurmi a questo dilemma. Se oggi lo aggirassi o volessi evitarlo sarei un vile. Tutto il mio operare in questi anni doveva condurmi a questo.

“E Mussolini? Come nell’incontro di venerdì 16 luglio, séguito a guardarlo diritto negli occhi. La mia diuturna opera critica, che ha compiuto nel giugno vent’anni, il mio da lui a più riprese deprecato ‘pessimismo’, i miei dissensi sempre consapevolmente dichiarati, e il discorso spietato di quel giorno, mi consentono di guardarlo così, elemento d’una situazione esterna in cui si tratta d’agire, non più personaggio della mia vita interiore. Non è più questione di ‘tradire’ o di ‘non tradire’, ma d’avere il coraggio di confessare il tradimento da lui compiuto, consumato giorno per giorno, dalla prima delusione a questo crollo morale. Non un’idea, un patto, un istituto, una legge, cui egli abbia tenuto fede. Tutto fu da lui guastato, distorto, corrotto, sulla scia d’un empirismo presuntuoso e pure accorto, fondato sul disprezzo degli uomini e dei loro ideali.

“Tra poche ore bisognerà riscattarsi da tutto ciò; e riscattare tutto ciò con un taglio netto. Sta a Mussolini prendere posizione o di qua o di là del taglio, o per un’estrema rigenerazione del Fascismo in una comunione aperta e sincera con la Nazione, o per una rimessa a questa delle sue sorti. Se egli vorrà mettersi di traverso, il taglio della decisione passerà su di lui con l’inesorabilità d’una conclusione fatale”.

 

Si può supporre che nella mattinata e nel primo pomeriggio di oggi l’attesa sia drammatica sia fra i capi del fascismo, sia al Quirinale, sia negli alti ambienti militari. Anche Dino Grandi, e lui forse più di ogni altro, vive trepidamente queste ore e non nasconde la sua emozione. A Montecitorio, nel suo ufficio di presidente della Camera, scrive una lettera al re e prega il suo amico Mario Zamboni di portarla al Quirinale dopo le 17, cioè dopo l’inizio della seduta del Gran Consiglio. La lettera accompagna l’ordine del giorno che metterà ai voti e dice: “Non solo come presidente dell’assemblea legislativa, ma altresì come soldato, oso supplicare Vostra Maestà, in queste ore così gravi e decisive per le sorti della nazione e della monarchia, di non abbandonare la patria. Il Re soltanto può ancora salvare la patria”2.

Grandi esce da Montecitorio e entra per qualche minuto nella piccola chiesa che è in piazza Colonna. Racconterà poi2: “Raccomandai al Signore mia moglie e i miei figli lontani e Lo pregai di illuminare me ed i miei compagni nell’azione che stavamo per compiere. Misi nella mie tasche due bombe a mano Breda che il giorno precedente mi ero fatto dare dal generale Agostini, comandante della milizia forestale. Mi prospettai freddamente, come eventualità pressoché certa, che non saremmo usciti vivi da Palazzo Venezia”3.


1 In Diario 1935-1944.

2 In 25 luglio 1943.

3 Ibidem.

24 luglio – Di più

– Dino Grandi, nato a Mordano (Bologna) nel 1895; deputato nel 1924, ministro degli esteri nel 1929, ambasciatore a Londra dl 1932 al 1939, ministro guardasigilli dal 1939 al 1943, nonché presidente della Camera dei fasci e delle corporazioni. Il 25 luglio 1943. La mozione di sfiducia al governo Mussolini porta il suo nome. Fuggito in Portogallo il 17 agosto, condannato a morte in contumacia dal tribunale della Repubblica sociale italiana. Nel dopoguerra lavorò con successo come avvocato d’affari e imprenditore in Brasile e in altri paesi del Sudamerica. Negli anni Sessanta rientrò in Italia. Morto a Bologna nel 1988.

– Sul Corriere della sera del 5 luglio 2003 Dino Messina ha pubblicato una intervista col figlio di Dino Grandi, Franco. Ecco un estratto:

“Gli occhi azzurri di Franco Grandi, primogenito dell’uomo politico che con la mozione del 25 luglio 1943 determinò la caduta di Mussolini, si illuminano quando parla del padre. E nei momenti più intensi della conversazione questo intelligente e gioviale imprenditore che da Dino ha ereditato il talento degli affari e l’ambizione sempre e comunque a “far bene”

“Come è stato il 25 luglio visto dalla famiglia Grandi?”.

“Ero ospite con mia sorella Simonetta in casa dell’ex direttore del Resto del Carlino Gianni Telesio. Noi figli non avevamo nessun sentore di quel che stava avvenendo, mio padre non ci diceva nulla… Se con noi si confidava poco, parlava con mia madre Antonietta, che gli scrisse una lettera bellissima: ‘Dino caro, sono sicura che comunque agirai lo fai per il bene della nostra patria’. Eravamo una famiglia molto unita e ricordo bene quelle parole perché per molti anni non sentii più pronunciare il termine ‘patria’”.

“Dopo il 25 luglio le cose non andarono come voleva suo padre, tanto che foste costretti a una fuga improvvisa”.

“Ricominciammo da tre valigie, tutto quello che ci fu consentito portare nel viaggio in aereo, un trimotore Savoia Marchetti, che ci portò dall’aeroporto romano del Littorio a Siviglia, tappa intermedia verso il Portogallo. Era la mattina del 17 agosto 1943, in piazza Esedra c’era una pattuglia di SS. I nazisti non si accorsero che su una delle macchine posteggiate in piazza stava salendo Dino Grandi con la sua famiglia; l’autista, Remo Petruccioli, fece finta di non riconoscerci. Sull’aereo, assieme ad altri passeggeri, c’era un generale inglese prigioniero della guerra d’Africa che era stato rilasciato: si chiamava Carlton De Wiart e anche lui non salutò mio padre, che pure aveva conosciuto benissimo durante gli anni in cui Dino Grandi era stato ambasciatore a Londra. Quando arrivò in Inghilterra, l’ufficiale commentò con alcuni giornalisti: very embarassing, molto imbarazzante”.

“Quando suo padre cominciò a raccontarle come erano andati i fatti?”

“Appena arrivammo in Portogallo e cominciò a stendere le pagine del diario che poi sarebbero state pubblicate nell’83 da De Felice. Le scriveva in parte direttamente lui, in parte le dettava a me e a mia sorella”.

“Lo storico Paolo Nello sostiene che Grandi arrivò alla decisione di chiedere la convocazione del Gran Consiglio e poi di stilare l’ordine del giorno in cui si restituiva a Vittorio Emanuele il comando delle forze armate e l’iniziativa politica dopo una lentissima maturazione, cominciata addirittura alla fine del 1940, sul fronte greco-albanese”.

“È assolutamente vero. In realtà il distacco da Mussolini, che nonostante tutto lui ha continuato a servire sino alla fine, cominciò a maturare già negli ultimi tempi di Londra. Tutti sanno che mio padre non condivideva la politica filotedesca assunta dall’Italia, ma sino all’epilogo del regime è sempre vissuto in un continuo bisticcio, tra l’ammirazione per il capo del fascismo, di cui indubbiamente subiva il fascino personale, e la costante paura che questi commettesse errori spaventosi. Con la nomina, il 15 maggio 1925, giorno in cui sono nato, a sottosegretario agli esteri, il fascismo fece un grande regalo a mio padre, che era nato per fare il diplomatico. Soltanto che lui lavorava per dare all’Italia un ruolo di potenza al di là della rivoluzione fascista”.

“Strano fascista Dino Grandi, che nella sua puntuale biografia Nello dipinge come il più mussoliniano dei gerarchi anche se il più scettico sull’ideologia del regime”.

“Nel 1939, quando tornammo in Italia dalla Gran Bretagna, ricordo una sua espressione di fronte a certi eccessi della propaganda: che buffonate. Dino Grandi, a differenza di altri esponenti del regime, considerava il fascismo come una risposta provvisoria ai problemi del primo dopoguerra. Considerava quel movimento non soltanto in chiave antibolscevica ma uno sbocco alle inquietudini della piccola borghesia e alle domande di modernizzazione del Paese. Prima di essere fascista, mio padre era stato liberale, repubblicano e mangiapreti. E le dirò che era tornato da Londra ‘democratico’, o almeno con una sincera ammirazione per la democrazia inglese”.

“Quali erano gli alleati di suo padre nella vicenda del 25 luglio?”.

“Si consultò a lungo con il vecchio Federzoni e con Bottai, il quale coinvolse Ciano. Grandi era contrario perché riteneva innaturale coinvolgere un famigliare”.

“Paolo Nello sottolinea anche il rapporto di Grandi con il re. Quali promesse fece Vittorio Emanuele a suo padre?”.

“Che a me risulti, nessuna, se non la richiesta di portare il voto del Gran Consiglio”. L’incarico a Badoglio non soddisfece Grandi. “Sì, lui pensava a un coinvolgimento del maresciallo Caviglia. Ma credeva anche che la situazione andasse governata in maniera totalmente diversa, con un repentino cambiamento di fronte e l’immediata dichiarazione di guerra alla Germania. Per sé non chiedeva nulla. Ma certo avrebbe potuto avere un ruolo nelle trattative con gli Alleati, non avrebbe commesso i pasticci che portarono all’8 settembre”.

“Qual era il giudizio che Grandi, conte di Mordano, collare dell’Annunziata, quindi “cugino” del re, dava di Vittorio Emanuele III dopo la fuga a Pescara?”.

“Non l’ho mai sentito dire: questo re è un porco, ci ha traditi tutti. Ma forse l’ha pensato”.

“Nella vulgata neofascista il 25 luglio 1943 è passato come il giorno del tradimento. Suo padre come viveva quest’accusa?”.

“Si è sempre rifiutato di parlare di tradimento. Certo, ha vissuto per tutta la vita con il rovello intimo per quanto era successo in quella lunga notte tra il 24 e il 25 luglio 1943. A quella decisione arrivò non per odio per Mussolini, che aveva sempre amato, né per rivalsa. Certo l’accusa di tradimento fu usata non soltanto dai saloini ma anche dagli antifascisti per sminuire il gesto dei 19 firmatari dell’ordine del giorno. Quella notte mio padre sapeva non solo di porre fine alla carriera politica ma di mettere a repentaglio la propria vita e quella dei famigliari. Accettò di correre questo rischio. Che poi lui non sia stato fucilato e noi siamo riusciti a rifarci una vita, lontano da tutto, questa è un’altra storia”.

Il testo integrale dell’intervista è disponible sul sito del Corriere della Sera