17 settembre – bis

In oltre cento campi di concentramento in Italia sono stati internati più di centomila sloveni e croati – vecchi, donne, bambini – come rappresaglia per la lotta partigiana scatenata contro le truppe italiane che nel 1941 hanno invaso la Slovenia e la Croazia.

Negli ultimi giorni molti prefetti hanno ricevuto un’ordinanza firmata dal Capo della polizia Carmine Senise con la data 10 settembre. Strano. Dopo la fuga del re e del governo nella notte fra l’8 e il 9 è rimasto a Roma qualcuno delle alte cariche dello stato? C’è rimasto proprio Carmine Senise e ci rimarrà fino a quando la settimana prossima, il 23, non sarà arrestato, nel suo ufficio al Viminale, da un reparto di SS al comando del capitano Erich Priebke; sarà deportato in Germania e recluso nel campo di concentramento di Dachau; verrà liberato solo negli ultimi giorni di guerra, il 2 maggio del 19451. L’ordinanza di Senise ai prefetti dice di aprire tutti i campi di concentramento e di lasciare liberi tutti gli slavi detenuti: quelli che ci sono ancora, perché tanti sono già scappati e tanti, in alcuni campi, sono stati presi dai tedeschi e trasportati nei lager in Germania2.

Di questi campi di concentramento gli italiani non sanno niente. La stampa non poteva parlare di queste cose. Di campi ce ne sono 113 in Italia, 15 in Jugoslavia e sette in Albania. Vi sono internati soprattutto sloveni e croati, ma anche ebrei, sudditi civili di paese nemici, italiani definiti “pericolosi”3. Per gli slavi i campi più importanti sono nell’isola di Arbe (Rab in croato) nel Quarnaro, a sud di Fiume, con più di diecimila civili; e in Italia a Gonàrs (più di seimila) e a Visco (più di tremila), entrambi vicino a Palmanova, a sud di Udine; a Renicci, vicino ad Anghiari in Toscana, con quasi quattromila; a Chiesanuova, che è un sobborgo di Padova, con più di tremila; a Monigo, che è un sobborgo di Treviso, con più di tremila. E poi a Fertilia, vicino ad Alghero in Sardegna; a Cighino e Poggio Terza Armata in provincia di Gorizia; a Pisticci in provincia di Matera; a Tossicia, Nereto e Tortoreto in provincia di Teramo; a Cairo Montenotte in Liguria; a Città Sant’Angelo in provincia di Pescara; a Fabriano in provincia di Ancona.

In tutto gli sloveni e i croati detenuti sono più di centomila; 109.437 o 149.488 secondo indagini fatte dagli jugoslavi dopo la fine della guerra. In molti campi sono quasi tutti donne, bambini e vecchi. Gli uomini adulti no, perché sono partigiani in montagna. Che cosa hanno fatto? Lo spiega la circolare n.3c del Comando della 2a armata operante in Croazia: “Si procederà a internare le famiglie da cui siano o diventino mancanti, senza chiaro o giustificato motivo, maschi validi di età compresa fra i 16 e i 60 anni”. In alcuni campi, come a Chiesanuova e a Monigo, ci sono anche professori e studenti, medici e giudici,

Come siamo arrivati a questo punto? La storia è lunga e comincia nel 1941. Il 25 marzo il governo jugoslavo ha sottoscritto il cosiddetto Patto Tripartito, cioè l’alleanza con Germania, Italia e Giappone, ma due giorni dopo un colpo di stato supportato – sembra – dagli inglesi ha deposto il reggente Paolo Karageorgevic che era al posto del cugino re Alessandro, assassinato nel 1934 a Marsiglia da un indipendista macedone all’inizio di una visita di stato in Francia, e ha messo sul trono il principe ereditario Pietro, ormai diventato maggiorenne. Era un ribaltamento delle alleanze e la Germania ne ha preso motivo per invadere la Jugoslavia, d’intesa con l’Italia di Mussolini.

Il 17 aprile, dopo un lungo e violento bombardamento tedesco di Belgrado, il governo jugoslavo è capitolato, il diciottenne re Pietro è fuggito a Londra e la Germania ha occupato la Jugoslavia, seguita dall’Italia. Terminate le operazioni militari, il paese è stato formalmente spartito fra Germania e Italia. I tedeschi si sono presi tutta la Serbia e parte della Croazia e l’Italia si è annessa la provincia slovena di Lubiana, oltre ad allargare in Dalmazia la provincia già italiana di Zara con l’incorporazione delle città di Sebenico e di Spalato e anche la provincia croata di Cattaro. Quello che rimaneva della Croazia è stato costituito in regno; la corona è stata assegnata all’italiano Aimone di Savoia-Aosta4 col nome di Tomislav II e il potere è andato a Ante Pavelic, fondatore del movimento degli ustascia, nazionalista di estrema destra, filofascista e filonazista.

La politica seguita nei nuovi territori sloveni e croati e anche in Dalmazia e in Montenegro dalle autorità italiane non ha fatto altro che proseguire la politica già iniziata nei primi anni Venti dopo l’annessione all’Italia, alla fine della prima guerra mondiale, di quella che venne chiamata Venezia Giulia5 e violentemente aggravata dal fascismo soprattutto dopo il 1925: la snazionalizzazione delle etnie slovena e croata con la proibizione sempre più estesa di parlare la loro lingua (prima negli uffici statali, poi anche nei locali pubblici e nei negozi), l’italianizzazione dei toponimi e poi anche dei cognomi familiari, la soppressione (con confisca dei beni) delle organizzazioni economiche, culturali e ricreative6, la chiusura delle scuole slave (nel 1918 ne esistevano più di 500) e la rimozione di tutti i docenti non italiani; anche l’intimidazione del clero locale, la repressione del loro insegnamento in quelle lingue e addirittura l’allontanamento di alti ecclesiastici non allineati.

Alla politica di italianizzazione forzata e alla eliminazione delle identità slovena e croata si è unita anche la repressione poliziesca contro le opposizioni organizzate operanti negli anni Venti e Trenta, sottoposte spesso a processi di cui italiani non hanno saputo niente, perché la stampa fascista li ignorava. L’ultimo processo si è svolto a Trieste proprio nel dicembre del 1941, quando la Jugoslavia era stata già occupata dalle forze armate italiane e tedesche, e si è concluso con nove condanne a morte per gli imputati più importanti e con una somma di 666 anni di reclusione per gli altri imputati.

Dopo l’aprile del 1941 l’impostazione politica non è cambiata nelle terre annesse, anche dove non esisteva nessuna presenza italiana o italofona. Italianizzare e addirittura fascistizzare le nuove province significava snazionalizzarle col progetto finale di colonizzarle. Non era soltanto la rimozione del passato slavo con l’abolizione di ogni scritta in sloveno e croato. C’era la soppressione di ogni attività associativa culturale e l’imposizione dell’italiano come lingua ufficiale dell’amministrazione, dei tribunali e degli atti ecclesiastici; c’era anche la non concessione dei diritti di cittadinanza, l’espulsione di ufficiali pubblici, la cancellazione di avvocati, notai, medici e farmacisti dagli albi professionali, il licenziamento degli insegnanti e la loro sostituzione con insegnanti italiani. Una pulizia etnica e una purificazione razziale che preludeva a una migrazione interna di italiani in quelle terre. Tutto questo spiega la reazione politico-culturale che nel 1941-1943 ha portato alla partecipazione massiccia di tutti gli slavi al movimento partigiano, nonostante che la società locale fosse frammentata da contraddizioni etniche, sociali, politiche, ideologiche e religiose.

Le popolazioni che nel 1919, dopo la fine della prima guerra mondiale, erano state riunite in quello che fu chiamato ufficialmente Regno dei Serbi, Croati e Sloveni sotto la dinastia serba dei Karageorgevic, erano almeno sei: sloveni (cattolici), croati (cattolici), serbi (cristiano-ortodossi), bosniaci (musulmani), montenegrini (cristiano ortodossi e musulmani), macedoni (cristiano ortodossi e musulmani), oltre a minoranze albanese nel Kosovo e greca in Macedonia e a gruppi numerosi di rom. La disgregazione del regno provocata dall’invasione tedesca e italiana del 1941 ha aggravato uno stato di anarchia in cui ai tradizionali dissensi fra un’etnia e l’altra si è aggiunta l’esplosione del movimento filofascista e filonazista di Ante Pavelic in Croazia, la nascita del movimento filo monarchico dei cetnici in Serbia e l’ombra di simpatia e di protezione che viene a oriente dall’Unione Sovietica.

La confusione è generale. Croati cattolici, sostenuti dagli ustascia, contro i serbi; serbi cetnici e monarchici contro i serbi filosovietici e comunisti; sloveni contro croati; dalmati e montenegrini contro serbi e croati. Una conflittualità che si manifesta con la violenza e con la brutalità, tipiche delle storiche guerre civili fra le varie etnie, trova sfogo nella lotta all’invasore italiano; e con la stessa violenza e la stessa brutalità.

All’occupazione militare tedesca e italiana, a cui si sono aggiunte le rivendicazioni di ungheresi, romeni e bulgari, che chiedono la correzione dei confini, ha cominciato a opporsi via via più potente la forza organizzativa del movimento partigiano guidato dal croato Josip Broz detto Tito. Al suo fianco ci sono lo sloveno Edvard Kardelj, il serbo Mosa Pijade e il montenegrino Milovan Gilas e il movimento avanza istanze di rinnovamento sociale e prospettive di superamento dei particolarismi etnici. E’ un movimento capace di attirare anche settori non comunisti della società ed ha quindi facile gioco per trasformare guerre etniche e guerre civili non in una guerra di classe ma in una guerra di liberazione.

Questa è la realtà cui si è trovata di fronte l’azione militare italiana della 2a Armata guidata, con sede a Sussak, il sobborgo croato di Fiume, dal generale Mario Roatta che in gennaio ha sostituito il generale Vittorio Ambrosio. Non era una guerra regolare, esercito contro esercito, ma una guerriglia partigiana, dove dall’altra parte non c’erano reparti regolari, ma bande armate di uomini e di donne, senza uniformi e senza visibili distintivi, senza rispetto delle tradizionali norme e codici militari di comportamento, senza possibilità di distinguere tra guerriglieri e civili; solo violenza e ferocia. Già dopo la prime offensive, nell’ottobre del 1941 e nei primi mesi del 1942, lo Stato maggiore dell’Armata ha ritenuto di redigere il 1° marzo 1942 un lunghissimo documento, firmato Roatta, da distribuire estesamente fino ai comandanti di battaglione. Il senso del documento – la famosa Circolare N.3C, un volume di duecento pagine – è in una frase: “Il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato dalla formula ‘dente per dente’, ma da quella ‘testa per dente’”.

Pochi giorni dopo, il generale Mario Robotti7, comandante dell’XI Corpo d’armata decide di impartire ordini più precisi: “A partire da oggi nell’intera provincia di Lubiana, saranno immediatamente passati per le armi: coloro che faranno comunque atti di ostilità alle autorità e truppe italiane; coloro che verranno trovati in possesso di armi, munizioni ed esplosivi; coloro che verranno trovati in possesso di passaporti, carte di identità e lasciapassare falsificati; i maschi validi che si troveranno in qualsiasi atteggiamento – senza giustificato motivo – nelle zone di combattimento. A partire da oggi nell’intera provincia di Lubiana, saranno rasi al suolo: gli edifizii da cui partiranno offese alle autorità e alle truppe italiane; gli edifizii in cui verranno trovate armi, munizioni, esplosivi e materiali bellici”.

Non basta: “A partire da oggi nell’intera provincia di Lubiana sono soppressi tutti i treni viaggiatori locali; è vietato a chiunque viaggiare sui treni in transito, tranne a chi è in possesso di passaporto per le altre provincie del regno e per l’estero; sono soppresse tutte autocorriere; è vietato il movimento con qualsiasi mezzo di locomozione, fra centro abitato e centro abitato; è vietata la sosta ed il movimento, tranne che nei centri abitati, nello spazio di un chilometro dai due lati delle linee ferroviarie (Sarà aperto senz’altro il fuoco sui contravventori); sono soppresse tutte le comunicazioni telefoniche e postali, urbane ed interurbane”.

Roatta e Robotti si sono incontrati con Mussolini a Gorizia il 31 luglio del 1942. “Sono convinto” ha detto Mussolini “che al terrore dei partigiani si debba rispondere con il ferro e con il fuoco”. Le disposizioni della Circolare 3c vengono così applicate anche in Croazia dal generale Umberto Spigo, comandante del XVIII Corpo d’armata, e in Montenegro dal generale Alessandro Pirzio Biroli, nominato governatore militare di quel regno. L’azione di repressione è tanto grave che il consigliere nazionale del Partito fascista e segretario federale del partito a Trieste, Emilio Grazioli, che ha la qualifica di Alto Commissario civile della Slovenia, ritiene di denunciare in una relazione al ministero degli interni “il sistema in atto dell’autorità militare di colpire popolazioni rurali inermi con l’incendio di paesi, con l’arresto in massa delle popolazioni valide e con l’asportazione di tutti i beni mobili, senza avere nell’assoluta maggioranza dei casi nessun elemento positivo a carico delle popolazioni stesse”.

Imboscate, aggressioni, fucilazioni; esecuzioni sommarie, incendi di villaggi: da una parte e dall’altra non c’è pietà; c’è solo odio. Le autorità militari italiane ritengono allora che, così come nella campagna del generale Graziani per la riconquista coloniale della Libia negli anni Venti, la soluzione possa essere l’apertura di campi di concentramento dove internare la popolazione ostile della Slovenia e della Croazia; non tanto gli uomini adulti, che sono partigiani in montagna, ma le donne, i vecchi, i bambini.

I campi di Arbe, nell’omonima isola del Quarnaro, e di Gonàrs, vicino a Udine, sono stati assunti a simbolo per le dimensioni e la durezza della condizioni di vita. Sono ambienti malsani dove sovraffollamento, denutrizione, severità di controlli e di punizioni disciplinari, mancanza di igiene e di assistenza sanitaria, il freddo e la fame hanno reso difficile la sopravvivenza. Ad Arbe, quando, dopo l’armistizio, i cancelli sono stati aperti i morti accertati sono stati contati in quasi 1500; in buona parte bambini8.


1Carmine Senise fu nominato Capo della polizia da Mussolini il 22 novembre del 1940 e da Mussolini destituito il 14 aprile di quest’anno 1943 per non avere represso o impedito gli scioperi nelle fabbriche del Nord. E’ stato restituito alle funzioni di Capo della polizia da Pietro Badoglio il 26 luglio; fu una delle prime decisioni del nuovo governo.

2Durante il governo Badoglio gli “allogeni” sloveni, croati, dalmati e giuliani furono esclusi dai provvedimenti di liberazione, nonostante l’intervento di alcune autorità religiose cattoliche di quelle terre.

3Gli oppositori politici, ritenuti pericolosi “per la sicurezza pubblica o per l’ordine nazionale”, erano sottoposti al “confino di polizia”: isolati in paesi isolati specie nel Sud (come Carlo Levi nei paesi di Grassano e poi di Aliano in provincia di Matera) oppure, più frequentemente in gruppo, in “colonie di confino” in isole (Lipari, Lampedusa, Pantelleria, Favignana, Tremiti). I gruppi più importanti erano a Ponza (Pietro Nenni, Umberto Terracini, Lelio Basso, Giuseppe Romita, Giorgio Amendola, Leo Valiani) e a Ventotene (Altiero Spinelli, Eugenio Colorni, Ernesto Rossi, Sandro Pertini, Mauro Scoccimarro).

4Aimone era nato a a Torino il 9 marzo 1900 da Emanuele Filiberto, secondo duca d’Aosta, e da Elena di Borbone-Orléans; suoi nonni erano il re di Spagna Amedeo I e la principessa Maria Vittoria dal Pozzo, mentre suo bisnonno era il re d’Italia Vittorio Emanuele II. Aimone divenne duca d’Aosta il 3 marzo 1942 dopo la morte del fratello Amedeo in un campo di prigionia inglese a Nairobi, in Kenya. Nel settembre 1943, ammiraglio della Regia Marina, seguì Vittorio Emanuele III a Brindisi.

5Il nome di Venezia Giulia fu suggerito nel 1863 dal glottologo goriziano Graziadio Ascoli in alternativa a Litorale Austriaco, come la regione era chiamata dall’Austria. E’ interessante che il termine “Litorale” (“Adriatisches Küstenland”) ritorna, per proposta dell’austriaco Hitler, con l’annessione alla Germania nazista di Trieste, Gorizia, Fiume e Pola il 16 settembre del 1943. L’irredentismo, movimento nato nell’Ottocento per rivendicare l’appartenenza all’Italia di Trento e Trieste, fu il mito che portò alla guerra del 1915-1918 contro l’Austria e nel 1921, dopo le decisioni dal trattato di pace, alla creazione di una regione, la Venezia Giulia, che qualcuno disse una regione inventata, visto il gran numero di sloveni e di croati abitanti in quelle terre. Per queste forti minoranze linguistiche la Costituzione italiana entrata in vigore nel 1948 dette alla Venezia Giulia il privilegio di regione a statuto speciale.

6Alcune statistiche parlano di più di cento edifici dati alle fiamme negli anni Venti, a cominciare dall’episodio più grave: l’incendio a Trieste, il 13 luglio del 1920, del “Narodni dom” (in sloveno, “Casa del popolo”), sede delle maggiori organizzazioni slovene, un edificio nel quale si trovavano anche un teatro, una cassa di risparmio, un caffè e un albergo (l’Hotel Balkan).

7Il generale Mario Robotti è diventato famoso per una nota inviata ai Comandi dipendenti: “Cosa dicono le norme della 3 C e quelle successive ? Conclusione: SI AMMAZZA TROPPO POCO !”. Sua è anche un’ordinanza che così termina: “Fucilare senza pietà gli uomini validi che nelle retrovie fossero sorpresi in atteggiamento sospetto lungo le strade ed a tergo delle nostre colonne.

8Moltissime informazioni di questa giornata sono state trovate nel bel libro “Si ammazza troppo poco” di Gianni Oliva, Mondadori, 2006. L’argomento è stato trattato in maniera completa da Alessandra Kersevan nel libro “Lager italiani. Pulizia etnica e campi di concentramento fascisti per civili jugoslavi 1941-1943”, edito da “Nutrimenti” nel 2008.


17 settembre – bis – Di più

– Il campo di Arbe in Wikipedia: “Nell’estate 1942, per far fronte alla necessità di provvedere all’internamento dei numerosi rastrellati nel corso delle operazioni estive in Slovenia, le autorità militari italiane della Seconda Armata costruirono in gran fretta ad Arbe[ (più esattamente nella località di Campora) un campo di concentramento per i civili slavi delle zone occupate della Slovenia, in cui furono internati anche alcuni civili della vicina Venezia Giulia. Inizialmente era prevista la costruzione di quattro settori distinti, ma all’arrivo dei primi internati erano pronte solamente le baracche di servizio ed erano disponibili soltanto un migliaio di tende militari da sei posti.

“Il primo gruppo di internati giunse ad Arbe il 28 giugno 1942 ed era composto da 198 sloveni provenienti da Lubiana, mentre un secondo gruppo di 243 arrivò il 31 agosto. Complessivamente furono portati ad Arbe 27 gruppi di internati, di cui il più cospicuo fu di 1194 persone giunte il 6 agosto. Dei quattro campi inizialmente immaginati ne furono realizzati solo tre. Nel 1° e nel 3° furono inseriti i “repressivi” (soprattutto sloveni), mentre nel 2° furono inseriti i “protettivi” (soprattutto ebrei).

“Con l’arrivo della stagione autunnale la situazione nei campi divenne più difficile, soprattutto in quelli in cui erano reclusi i “repressivi”, dove le piogge provocarono più volte il riversamento del liquame delle latrine del campo e la notte del 29 ottobre 1942 una violenta tempesta distrusse quattrocento tende e provocò l’annegamento di alcuni bambini. Si iniziarono quindi a costruire le prime baracche di legno, ma per la lentezza dei lavori molti internati trascorsero comunque l’inverno al freddo dentro le tende.

“Complessivamente ad Arbe furono internati circa 10 mila civili, tra cui vecchi, donne e bambini di famiglie sospettate di collaborare con il movimento partigiano, ma anche residenti in aree sgombrate per esigenze belliche.

“A causa della precarietà in cui versava il campo ancora dall’estate del 1942 l’inverno fu molto duro per gli internati che avevano come unico riparo delle tende e spesso erano privi di vestiario adeguato; a questo si aggiunsero episodi di brutalità da parte del comandante del campo, il colonnello dei carabinieri Vincenzo Cuiuli, che, nonostante ciò contravvenisse le norme italiane, faceva incatenare a dei pali gli internati in punizione. L’alimentazione insufficiente rese gli internati particolarmente deperiti e soggetti a malattie varie come le infezioni intestinali, che provocarono un tasso di mortalità molto alto.

“Nel novembre del 1942 il vescovo di Lubiana Gregorij Rožmanil si era già recato presso papa Pio XII, chiedendogli un intervento per evitare che il campo di Arbe diventasse un ‘campo di morte’. Pertanto il Vaticano intervenne presso le autorità italiane affinché si provvedesse alla liberazione della maggior parte delle donne e dei bambini. A partire da gennaio 1943 le condizioni migliorarono sensibilmente con la costruzione di baracche in muratura e al miglioramento delle razioni alimentari.

“Il vescovo Josip Srebrnič, della diocesi di Veglia, il 5 agosto 1943 riferì a papa Pio XII, che ‘secondo i testimoni, che avevano partecipato alle sepolture, il numero dei morti avrebbe superato le 3500 unità’ (tra cui circa 100 bambini di età inferiore ai 10 anni). Le fonti slovene stimano che al suo interno avrebbero perso la vita circa 1400 internati slavi tra cui anche donne e bambini”.


– Il campo di Gonàrs in Wikipedia: “Il campo era stato costruito nell’autunno del 1941 in previsione dell’arrivo di prigionieri di guerra russi, ma non fu mai utilizzato per questo scopo. Nella primavera del 1942 invece fu destinato all’internamento dei civili all’interno della Provincia di Lubiana, rastrellati dall’esercito italiano in applicazione della Circolare 3C del generale Roatta, comandante della II Armata, nella quale si stabilivano le misure repressive da attuare nei territori occupati e annessi dall’Italia.

“Nella notte tra il 22 e il 23 febbraio del 1942 la città di Lubiana fu circondata interamente da filo spinato, tutti i maschi adulti furono arrestati, sottoposti a controlli e la gran parte di essi destinati all’internamento. In breve anche le altre città della provincia subirono la stessa sorte. Gli arrestati furono portati nel campo di concentramento di Gonars, dove nell’estate del 1942 erano presenti già più di 6000 internati, ben oltre le possibilità ricettive del campo, che era allestito per meno di 3000 persone. A causa del sovraffollamento, delle precarie condizioni igieniche e della cattiva alimentazione, ben presto si diffusero varie malattie, come la dissenteria, che cominciarono a mietere le prime vittime.

“In questo primo periodo nel campo si trovarono concentrati intellettuali, insegnanti, studenti, operai e artigiani; quindi tutti coloro che erano considerati potenziali oppositori e tra essi c’erano anche molti artisti che alla detenzione nel campo hanno dedicato molte delle loro opere. Sotto pseudonimo erano internati anche esponenti del Fronte di Liberazione sloveno, che sarebbero poi diventati dirigenti della Resistenza jugoslava.

“Nonostante l’impegno umano di alcuni degli ufficiali e soldati del contingente di guardia, come il medico Mario Cordaro, nel campo di Gonars oltre 500 persone morirono di fame e di malattie. Almeno 70 erano bambini di meno di un anno, nati e morti in campo di concentramento.

“Come tutti gli altri campi italiani per internati jugoslavi, il campo di Gonars funzionò fino al settembre del 1943, quando, con la capitolazione dell’esercito italiano, il contingente di guardia fuggì e gli internati furono lasciati liberi di andarsene. Nei mesi successivi il campo fu occupato dalle truppe tedesche e destinato a tutti i prigionieri rastrellati nel Friuli come campo di transito. Alla fine della guerra, la popolazione di Gonars smantellò il campo utilizzando i materiali per altre costruzioni, come l’asilo infantile, e così oggi delle strutture del campo non rimane più nulla.

“A memoria di questo campo di concentramento, per iniziativa delle autorità jugoslave nel 1973 lo scultore Miodrag Živković realizzò un sacrario nel cimitero cittadino, dove in due cripte furono trasferiti i resti di 453 cittadini sloveni e croati internati e morti nel campo”.

– Nel febbraio del 1943 fu istituito a Trieste un organismo incaricato di inviare nei campi di concentramento i partigiani sloveni e croati le cui bande avevano cominciato a operare anche nelle zone carsiche delle provincie di Trieste, Udine e Gorizia. Si chiamava Ispettorato speciale di pubblica sicurezza per la Venezia Giulia ed era guidato dall’ispettore di polizia Giuseppe Gueli, proprio il Gueli scelto dal governo Badoglio alla fine di agosto come capo del reparto di detenzione di Benito Mussolini a Campo Imperatore sul Gran Sasso (si veda la giornata del 12 settembre). Dopo la liberazione di Mussolini l’ispettore Gueli riprese il suo posto all’Ispettorato triestino fino all’8 settembre.

– Su Ante Pavelic il “Corriere della sera” del 23 luglio 1997 ha pubblicato questo articolo di Simone Gianfranco: “Il nome ustascia (in croato, “insorti”) evoca una delle interviste più orribili della seconda guerra mondiale; quando il loro capo, Ante Pavelic, mostrò a Curzio Malaparte un cesto con ‘venti chili di occhi umani’. Gli ustascia erano i membri di un’organizzazione armata segreta fondata nel 1928 a Zagabria da Pavelic per staccare la Grande Croazia, comprendente pure Slavonia e Bosnia – Erzegovina, dal “Regno dei serbi, croati e sloveni”, che il reggente Alessandro Karageorgevic stava trasformando in uno stato totalitario, la Jugoslavia.

“Nato nel 1889 da una famiglia contadina dell’Erzegovina, Pavelic era un avvocato che dopo la guerra aveva preso la guida dell’ala estremista del Partito croato del diritto ed era stato eletto alla Costituente e poi al Parlamento. Dopo l’assassinio del leader croato Radic, Pavelic, divenuto il ‘poglavnik’ (capo dei capi), ottenne armi e denaro da Mussolini, che temeva un’alleanza tra Francia e Jugoslavia. Inoltre gli ustascia furono addestrati da terroristi macedoni a Borgotaro. Altri finanziamenti arrivarono dall’Ungheria e poi dal Terzo Reich. Nel 1934 a Marsiglia un sicario di Pavelic uccise a colpi di walther re Alessandro e il ministro degli esteri francese Louis Barthou. L’attentatore fu linciato. Quattro suoi complici vennero arrestati e condannati all’ergastolo.

“Pavelic, che aveva preparato un attentato di riserva a Losanna, fuggì a Torino, dove venne chiuso in una comoda cella per 18 mesi. Mussolini rifiutò l’estradizione e poi gli consentì di vivere tranquillo, ma sorvegliato, in una villa. Nel 1938 però Pavelic e gli ustascia rifugiati in Italia furono mandati al confino perché Mussolini aveva firmato un patto d’amicizia con la Jugoslavia, guidata dal filofascista Stojadinovic. Il 1° aprile 1941, pochi giorni prima dell’invasione italo – tedesca della Jugoslavia e della Grecia, Radio Firenze, ribattezzata radio Velebit, lanciò un appello di Pavelic ai nazionalisti croati perché si radunassero a Pistoia e partecipassero alla liberazione del loro paese. Due settimane dopo, 500 croati guidati dal poglavnik arrivarono a Zagabria. Pavelic divenne capo del governo croato e offrì la corona al principe Aimone di Savoia – Aosta, che però si guardò bene dal raggiungere la Croazia. Quando l’esercito popolare di Tito stava marciando su Zagabria, Pavelic spedì all’estero 48 casse piene d’oro e gioielli. Mentre su decine di migliaia di ustascia si abbatteva la vendetta dei titini, il poglavnik raggiunse Salisburgo e, nell’agosto 1946, Roma, da dove nel 1948 arrivò in Argentina. Qui, come altri criminali nazisti e fascisti, fu protetto da Peron, per cui nel 1955, quando questi fu deposto, rischiò di venire estradato in Jugoslavia. Se la cavò anche allora e nel 1957 sopravvisse a un attentato in cui fu colpito da due pistolettate. Morì a Madrid nel 1989, quando nessuno poteva immaginare che la Croazia 22 anni dopo sarebbe diventata indipendente.

– Questa è la pagina 304 di “Kaputt” di Curzio Malaparte, edito da “Aria d’Italia” nel 1948, dove è l’episodio raccontato nell’articolo, qui sopra, del “Corriere della sera”: «A un certo punto il maggiore P* entrò per annunciare il Ministro d’Italia, Raffaele Casertano. “Fatelo entrare” disse Ante Pavelic, “il Ministro d’Italia non deve far anticamera”. Casertano entrò, e rimanemmo a discorrere a lungo, con grande semplicità e cordialità, dei problemi della situazione. Le bande dei partigiani si spingevano la notte fin nei sobborghi di Zagabria, ma i fedeli ustascia di Pavelic avrebbero ben presto avuto ragione di quella noiosa guerriglia. ” Il popolo croato “diceva Ante Pavelic “vuol essere governato con bontà e giustizia. Ed io sono qui per garantire la bontà e la giustizia”.

«Mentre si parlava, io osservavo un paniere di vimini posto sulla scrivania, alla sinistra del poglavnik. Il coperchio era sollevato, si vedeva che il paniere era colmo di frutti di mare, così mi parvero, e avrei detto di ostriche, ma tolte dal guscio, come quelle che si vedono talvolta esposte, in grandi vassoi, nelle vetrine di Fortnum and Mason, in Piccadilly a Londra. Casertano mi guardò, stringendo l’occhio ” Ti piacerebbe, eh, una bella zuppa di ostriche?”. “Sono ostriche della Dalmazia?” domandai al poglavnik.
Ante Pavelic sollevò il coperchio del paniere e mostrando quei frutti di mare, quella massa viscida e gelatinosa di ostriche, disse sorridendo, con quel suo sorriso buono e stanco: ” E un regalo dei miei fedeli ustascia: sono venti chili di occhi umani”».

– Il 20 ottobre 1943 si è costituito a Londra, nell’ambito delle Nazioni Unite, l’United Nations War Crimes Commission (Unwcc), incaricata di raccogliere dai vari paesi l’elenco documentato dei personaggi militari e civili considerati criminali di guerra e da sottoporre a processo.

Nel dicembre del 1945 la Commissione ha inviato al governo di Roma le liste ricevute: 729 sono i nominativi presentati dalla Jugoslavia, 111 dalla Grecia, 142 dall’Albania. Ci sono elenchi anche della Gran Bretagna (497) e dell’Unione Sovietica (12). Nel febbraio la Jugoslavia aveva formalizzato le prime richieste di estradizione, che riguardavano i generali Mario Roatta e il suo predecessore Vittorio Ambrosio, comandanti della 2a Armata, Mario Robotti e il suo successore Gastone Gambara, comandanti dell’XI Corpo d’armata, e Taddeo Orlando, comandante della divisione “Granatieri di Sardegna”.

Il 6 maggio 1946 il primo governo De Gasperi istituì una commissione presieduta dall’ex ministro Alessandro Casati, da sei giuristi e da tre alti ufficiali in rappresentanza delle tre forze armate. Il ministero della guerra preparò intanto una lista di 153 criminali di guerra jugoslavi di cui chiedere l’estradizione per le atrocità commesse durante l’occupazione italiana della Slovenia e della Croazia negli anni 1941-1943 e un documento sulle migliaia di esecuzioni sommarie compiute da sloveni e croati e sull’occultamento dei cadaveri nelle foibe9 dopo la fine dell’occupazione italiana dall’ottobre del 1943 fino alla primavera del 1945.

Dal settembre del 1946 al marzo del 1947 la Commissione italiana rese noti, con vari comunicati, i nominativi di 26 militari e civili da deferire all’autorità giudiziaria. C’erano i generali Mario Roatta, Mario Robotti e Gherardo Magalli, il tenente colonnello Vincenzo Serrentino (arrestato e fucilato in Jugoslavia), l’ambasciatore Francesco Bastianini, il prefetto Emilio Grazioli, i generali Alessandro Pirzio Biroli, Francesco Giunta e Gastone Gambara. Non ci furono processi e il 16 febbraio 1948 il governo De Gasperi decise di sospendere ogni procedimento giudiziario.

Nell’ottobre del 1946 si conclude il processo di Norimberga con la morte dei maggiori criminali nazisti, il cosiddetto “male assoluto”; nel 1947 si firmano i trattati di pace; è scoppiata la guerra fredda; nel 1948 con la rottura fra Stalin e Tito la comunista Repubblica federale di Jugoslavia diventa interlocutrice dell’Occidente. Il governo di Belgrado cessa ogni azione per la consegna dei criminali di guerra italiani e il governo di Roma non parla più delle foibe. Il 25 giugno 1951 i ministri italiani degli esteri, della difesa e della giustizia e il Procuratore generale militare si incontrano per discutere la vecchia questione dei criminali di guerra di cui a suo tempo fu chiesta l’estradizione. Dall’incontro non esce nessun comunicato. Tutto è archiviato. La questione è considerata chiusa.


9Le foibe (termine friulano dal latino “fovea” cioè “fossa”) sono cavità naturali dell’altopiano carsico in cui partigiani comunisti di Tito ma anche gente comune delle campagna gettarono migliaia di corpi, alcuni fucilati, alcuni ancora in vita, soprattutto italiani considerati responsabili, direttamente o indirettamente, dei crimini commessi dalle truppe italiane in Slovenia e Croazia. Fra gli assassinati c’erano tuttavia anche antifascisti e anche civili sloveni e croati. I primi casi si ebbero subito dopo l’armistizio italiano del settembre del 1943; poi in gran numero nella primavera del 1945 durante l’occupazione jugoslava di Trieste, di Gorizia e dell’Istria. Nel marzo del 2004 il Parlamento italiano ha istituito per il 10 febbraio un “Giorno della memoria” per ricordare tutte le vittime delle foibe e anche l’esodo dei 350 mila istriani e dalmati che dopo la firma del trattato di pace del 1947 furono costretti ad abbandonare le terre dove abitavano.