14 luglio

A Biscari, un piccolo paese dell’entroterra siciliano, 73 soldati italiani si arrendono agli americani. Sono prigionieri, ma vengono fucilati. Molti episodi come questo, ma anche civili uccisi dai tedeschi.

Biscari è un paese di poche migliaia di abitanti, dieci chilometri a nord est di Vittoria, venti da Còmiso, 12 dal mare. Il paese fu trasferito in collina, dal basso degli acquitrini, e così fu chiamato, a metà del Seicento, da Agostino dei Paternò di Catania, primo principe di Biscari; e Biscari si chiamò, alla fine del secolo, il palazzo che sorge a Catania sulle mura volute da Carlo V.

Ora non si chiama più Biscari, ma Acate. Con questo nome, dal 1938, qualcuno ha voluto chiamare il paese e il fiumiciattolo che scorre più in basso, il Dirillo. Acate è un nome dotto, dal greco. Ma molti del posto a lungo hanno continuato a chiamarlo Biscari, e con questo nome era conosciuto dai tedeschi che alcuni mesi fa vi hanno costruito vicino, nel piano di un podere intitolato a San Pietro (anzi Santo Pietro), un piccolo aeroporto.

È qui che questa mattina è arrivato il 180o reggimento della 45a divisione americana. La conquista dell’aeroporto non è stata facile. C’erano i soldati della divisione Göring e un gruppo di cecchini italiani sulla strada n. 115 che da Vittoria porta a Gela; e per i soldati americani questo era il cosiddetto battesimo del fuoco, la prima volta che sparavano.

Lo scontro è stato durissimo, ma vincente per gli attaccanti. A mezzogiorno un gruppo di soldati italiani si è arreso; erano 36, e alcuni in abiti civili: uomini del posto o soldati che hanno buttato l’uniforme nel fosso? Il capitano John T. Compton, comandante della compagnia C, che ha catturato i 36 italiani, non ha avuto dubbi: fucilarli subito. Ma sono prigionieri. Non importa. Schierarli lungo la strada e fucilarli.

Prigionieri italiani (il gruppo a destra) e tedeschi (a sinistra) dopo uno dei tanti combattimenti nelle campagne a nord di Ragusa.

Prigionieri italiani (il gruppo a destra) e tedeschi (a sinistra) dopo uno dei tanti combattimenti nelle campagne a nord di Ragusa.

A poca distanza, qualche ora dopo, 45 soldati italiani e tre tedeschi sono stati fatti prigionieri dalla compagnia A dello stesso reggimento. Uno dei sottufficiali, il sergente T. West, ha ricevuto l’ordine di scortarne nelle retrovie 37 (gli altri undici, compresi i tre tedeschi, erano feriti), per farli interrogare dal servizio informazioni; ma dopo un paio di chilometri li ha fatti fermare in fila lungo un fosso e ha cominciato a sparare. Tutti morti. Trentasette ora, trentasei prima; 73 prigionieri ammazzati contro una delle più elementari norme della guerra.

Il primo a scoprire e a denunziare gli eccidi sarà tra qualche giorno il cappellano della stessa 45a divisione, il colonnello William King. Qualcuno gli racconterà la storia e lui la racconterà all’ispettore dell’armata (una specie dei nostri pubblici ministeri) e questi ne farà un rapporto a Omar Bradley, comandante del 2o Corpo d’armata; questi al generale Patton, comandante dell’armata. La Corte marziale si riunirà in settembre per il sergente West, in ottobre per il capitano Compton1.

Il sergente West cercherà di difendersi: “Sono stato quattro giorni in prima linea senza dormire”; “Ho visto ammazzare dai tedeschi due americani catturati”; anche: “Avevamo l’ordine di prendere prigionieri solo in casi estremi”. Sarà condannato all’ergastolo, sarà rinchiuso nella prigione di Lewisburg in Pannsylvania¸ sarà rilasciato dopo sei mesi e rimandato al fronte.

Il capitano Compton non cercherà scuse. “Ho obbedito agli ordini” dirà; più che ordini, è una frase detta dal generale Patton e confermata da testimoni: “Se si arrendono solo quando gli sei addosso, ammazzali”. Sarà prosciolto.

Questa è la guerra. Il giornalista inglese Alexander Clifford racconterà che nell’aeroporto di Còmiso, che è una base dell’aviazione tedesca (la Luftwaffe), sessanta italiani catturati in prima linea sono stati fatti scendere da un camion e massacrati con una mitragliatrice; e che dopo pochi minuti lo stesso è avvenuto con una cinquantina di militari tedeschi.

Giuseppe Ciriacono, uno dei testimoni, allora tredicenne, dell'eccidio di Piano Stella.

Giuseppe Ciriacono, uno dei testimoni, allora tredicenne, dell’eccidio di Piano Stella.

Ieri vicino a Piano Stella, sempre dalle parti di Biscari, sono stati fucilati altri italiani, soldati prigionieri e civili. Giuseppe Ciriacono, allora tredicenne, lo ha raccontato, sessanta anni dopo2, unico sopravvissuto. “Verso il pomeriggio tardi sentimmo qualcuno che chiamava dall’esterno del rifugio: ‘Uscite fuori, uscite fuori’, la voce gridava. Così uscimmo fuori e trovammo un soldato che parlava bene l’italiano e ci chiese di entrare a casa per vedere se vi erano soldati tedeschi. Mio padre si apprestò a fare perlustrare la casa, ma quando arrivammo davanti alla porta ci accorgemmo che già i soldati l’avevano sfondata ed erano entrati. Dopo qualche ora arrivarono altri soldati… ormai era all’imbrunire. Ci fecero segno di uscire, ma nessuno parlava italiano. Eravamo in sei persone e ci fecero segno di seguirti verso Acate. Il nostro podere confinava con il territorio della provincia di Ragusa e, dopo avere camminato un po’, giungemmo presso una casa che apparteneva a un certo Puzzo… Gli americani ci portarono in questa casetta, il terreno circostante era piantato a vigneto e lì ci fecero segno di sederci… Poi i soldati imbracciarono delle armi, dei fucili mitragliatori, e si misero ad angolo, uno da un lato e l’altro dall’altro. Ricordo che quando assunsero questa posizione il signor Curciullo, che era accanto a me, disse: “cumpari Pippinu haiu ‘mprissioni che ci vogliono uccidere”. A questo punto, mentre parlavano, mi sentii prendere da qualcuno per il bavero della camicia e tirarmi su…allora ero ragazzino, andavo ancora alle elementari e sentivo i racconti dei fratelli Bandiera e cose del genere e pensai che il primo a essere ucciso sarei stato proprio io. Quando mi sentii tirare per il bavero, girandomi vidi questo americano che aveva il fucile abbrancato, con la mano sinistra teneva un’anguria e con la destra mi tirava. Appena mi girai a guardarlo disse delle frasi che a mio parere volevano dire di allontanarmi. Non appena mi allontanai, 20 o 30 passi circa, sentii una raffica di mitra e le urla di mio padre, del mio amico e degli altri. Li avevano uccisi. Subito dopo fui preso in consegna da questo soldato che mi portò da un suo superiore. Io nel frattempo cercai di ribellarmi gridando: ‘Là hanno sparato a mio padre’ e volevo raccontare quello che era successo. Invece il superiore mise la mano in tasca e cercò di darmi dei cioccolatini, che io rifiutai e glieli scagliai in faccia. Dopo un po’ arrivarono altri soldati e fui dato in consegna a questi. Come a dire: portatevelo con voi. Ormai era sera tarda e sentivo le cannonate provenienti dalla zona di Caltagirone. C’erano tanti soldati americani e due di loro mi portarono nella campagna degli Scrofani di Vittoria, all’epoca tutto oliveto. Sotto una pianta di ulivo, distante cinquanta metri dalla strada Vittoria-Caltagirone, scavarono una trincea. Verso l’una di notte, uno di questi soldati mi abbracciò come un padre; l’altro, invece, si comportò come se io non esistessi. Poi mi lasciarono tutto solo. La stanchezza mi prese e mi addormentai dentro la trincea. Qualche ora più tardi mi sentii spingere con il piede da un soldato. Mi fece segno di andarmene, indicandomi la strada per Acate. Io volevo andare dall’altra parte, verso Santo Pietro, dove c’era la mia casa e mia madre…, ma il soldato mi fece capire che se avessi preso quella direzione mi avrebbe sparato”.

Italiani che sparano agli americani, americani che sparano agli italiani, tedeschi che sparano agli americani, americani che sparano ai tedeschi, anche tedeschi che sparano agli italiani. Il maggior numero di questi episodi con gli americani come protagonisti sono accaduti nel settore dove opera la 7a armata del generale Patton. Di lui “trascinatore, ma anche esibizionista, prepotente e nevrotico” Indro Montanelli racconta3 che una volta “si imbatté – in un ospedale da campo, mentre visitava feriti e malati – in due soldati ricoverati che non presentavano lesioni visibili. A uno di loro chiese di che cosa soffrisse, e la risposta fu ‘generale, credo che siano i nervi’. Patton replicò con una scarica di insulti, e quando il secondo dette analoga spiegazione, lo schiaffeggiò. Per sfortuna del comandante della 7a armata americana i due non erano simulatori e uno di loro aveva la febbre a quaranta. Gli echi della scenata arrivarono a Eisenhower, che ordinò un’inchiesta. Patton fu invitato a fare le scuse ai due soldati. “Gli chiesi inoltre – ha scritto Eisenhower nelle sue memorie – che si presentasse davanti agli ufficiali e ad una rappresentanza degli uomini di truppa di ognuna delle due divisioni per assicurarli che aveva ceduto al suo impulso e che rispettava la loro condizione di combattenti di una nazione democratica. Patton fece tutto ciò immediatamente”.

Forse questo spiega perché oggi, in Sicilia, Patton è il capo di Bradley e invece, nello sbarco in Normandia, fra undici mesi, Bradley sarà il capo di Patton.


1 I particolari sono in un articolo di Giancarlo Di Feo sul Corriere della sera del 3 giugno 2004.

2 Giuseppe Ciriacono ha raccontato la storia in un libretto stampato a sue spese; suo nipote Gianfranco ne ha fatto il tema di una sua tesi di laurea.
Sul sito della Scuola di giornalismo dell’Università di Salerno si può leggere un’intervista a Giuseppe Ciriacono.

3 In Storia d’Italia, volume ottavo.

14 luglio – Di più

– Renzo De Felice scrive (Mussolini l’alleato, pagina 1309) che lo sbarco alleato in Sicilia colse di sorpresa un po’ tutti e ancor più a lasciare tutti allibiti fu la rapidità con la quale le truppe alleate si impadronirono senza colpo ferire della munitissima base di Augusta.
L’ingegnere Paolo Bertocci segnala da Firenze che su http://cronologia.leonardo.it/document/doc0098.htm si trova il testo integrale (che De Felice riassume) della nota che Mussolini inviò il 14 luglio al generale Ambrosio, capo di stato maggiore generale:

“A quattro giorni di distanza dallo sbarco nemico in Sicilia (9 e 10 luglio) considero la situazione sommamente delicata, inquietante, ma non ancora del tutto compromessa. Si tratta di fare un primo “punto” della situazione sommamente delicata, inquietante, ma non ancora del tutto compromessa. Si tratta di fare un primo “punto” della situazione e stabilire che cosa si deve fare e vuol fare. La situazione è inquietante

“a) perché, dopo lo sbarco, la penetrazione in profondità è avvenuta con un ritmo più veloce;

“b) perchè il nemico dispone di una schiacciante superiorità aerea;

“c) perché dispone di truppe addestrate e specializzate (paracadutisti, aliantisti);

“d) perché ha quasi incontrastato il dominio del mare;

“e) perché i suoi Stati Maggiori dimostrano decisione ed elasticità nel condurre la campagna;

“Prima di decidere il da farsi, è assolutamente necessario – per valutare uomini e cose – di conoscere quanto è accaduto. È assolutamente necessario perché tutte le informazioni del nemico (il quale dice la verità quando vince) e persino passi ufficiali dell’alleato impongono un riesame di quanto è accaduto nelle prime giornate.

“1o) Le divisioni costiere hanno resistito il tempo necessario; hanno dato, cioè, quello che si riteneva dovessero dare?

“2o) La seconda linea, quella dei cosidetti capisaldi, ha resistito o è stata troppo rapidamente sommersa? Il nemico accusa perdite del tutto insignificanti, mentre ben 12 mila prigionieri sono caduti nelle sue mani.

“3o) Si può sapere che cosa è accaduto a Siracusa, dove il nemico ha trovato intatte le attrezzature del porto e ad Augusta, dove non fu organizzata nessuna resistenza degna di questo nome e si ebbe l’inganno noto di una rioccupazione di una base che non era ancora stata occupata dal nemico?

“4o) La manovra delle tre divisioni Goering, Livorno, Napoli, fu condotta con la decisione indispensabile e un non meno indispensabile coordinamento? Che cosa è accaduto della Napoli e della Livorno?

“5o) Dato che la direzione dell’attacco – logica – è lo stretto, si è predisposta una qualsiasi difesa del medesimo?

“6o) Dato che la “penetrazione” è ormai avvenuta, ci sono mezzi e volontà per costituire almeno un “fronte” siciliano, verso il Tirreno, così come fu in altre epoche contemplato e studiato?

“7o) Le due divisioni superstiti Assietta e Aosta, hanno ancora un compito verso ovest e sono in grado di assolverlo?

“8o) Si è fatto e si vuol fare qualche cosa per reprimere il caos militare, che si sta aggiungendo al caos civile determinato dai bombardamenti in tutta l’isola?

“9o) Nel caso previsto e prevedibile di uno sbarco e di una penetrazione, esiste un piano?

“10o) La irregolarità e la miseria dei collegamenti, ha dato luogo a notizie false che hanno determinato una profonda depressione nel paese.

“11o) Lo scadimento della disciplina formale e sostanziale delle truppe continua, con manifestazioni sempre più gravi, che rivelano la tendenza alla capitolazione.

“Concludendo, la situazione può ancora essere dominata purché ci siano, oltre ai mezzi, un piano e la capacità di applicarlo. Il piano non può essere sinteticamente che questo: a) resistere a qualunque costo a terra; b) ostacolare i rifornimenti del nemico con l’impiego massiccio delle nostre forze di mare e del cielo”.

La nota è sorprendente: evidentemente Mussolini non aveva previsto (e nessuno gli aveva fatto prevedere) lo sbarco alleato in Sicilia. Sorprendente è anche che Mussolini, ministro della guerra, facesse tante domande ad Ambrosio e addirittura chiedesse (al punto 9) se esisteva un piano di difesa e interdizione. Non sorprende invece che nel suo Storia di un anno Mussolini abbia pubblicato il testo della nota senza il punto 9 (e anche senza il punto 11, dove si parla di una “tendenza alla capitolazione”).