11 luglio

Non tutto è andato bene nell’Operazione Husky in Sicilia, ma le teste di ponte sono già consolidate e le due armate, americana e inglese, stanno avanzando, Patton nell’interno, Montgomery verso nord lungo la costa.

Non tutto è andato bene e sta andando bene nell’Operazione Husky. Ieri 2800 paracadutisti dell’82a divisione aviotrasportata lanciati in successione dietro le linee italotedesche a nord di Gela (era la prima operazione aviotrasportata della seconda guerra mondiale) non sono finiti sugli obiettivi, forse a causa del forte vento e della scarsa visibilità, forse per l’imperizia dei piloti; molti sono stati fatti prigionieri. E oggi dei 133 alianti con 1600 paracadutisti inglesi che dovevano scendere vicino a Siracusa, 47 sono caduti in mare.

Per il resto le teste di ponte sono già consolidate e le truppe di terra stanno avanzando. Oggi la bandiera bianca sventola su Gela, su Licata, su Pachino, su Siracusa, e Ragusa sta per essere conquistata. In giornata americani e inglesi saranno già all’interno, per una ventina di chilometri gli americani, per una decina gli inglesi, che preferiscono però seguire la costa verso nord. È la piazzaforte di Augusta che li preoccupa.

Sulle teste di ponte, specie sulla costa meridionale, c’è una certa tranquillità e un certo ordine. “Fin dal mattino” scriverà il giornalista americano Ernie Pyle1 “i nostri soldati avevano costruito dei campi di prigionia cintati di filo spinato. Per tutta la giornata vi condussero militari e civili. In uno di questi campi, su un dolce declivio, notai circa 200 soldati italiani e altrettanti civili, seduti all’interno del recinto. C’erano anche due tedeschi, entrambi ufficiali, seduti lontani dagli altri, pieni di disprezzo per i loro alleati; uno era senza pantaloni, e le sue gambe graffiate erano state spennellate di mercurocromo. Alcuni civili s’erano portati nel campo anche le capre.

“Dopo gli interrogatori, i civili furono rilasciati. I prigionieri di guerra italiani non avevano l’aria demoralizzata. Sgranocchiavano biscotti, chiacchieravano allegramente con chi aveva voglia di starli ad ascoltare e chiedevano fiammiferi alle guardie americane. Come il solito, cominciarono a circolare storie di tutti i tipi: un certo prigioniero aveva abitato per vent’anni a Brooklyn e chiedeva sorridendo che cosa c’era di nuovo in quel caro vecchio flatbush. Tutti sembravano felici e cordiali, come se fossero stati liberati, non vinti”.

Marines americani sbarcano sulle spiagge di Gela. L'operazione ha incontrato molte difficoltà, ma a 25 ore dallo sbarco la testa di ponte è ormai consolidata e le truppe di terra stanno avanzando nell'interno

Marines americani sbarcano sulle spiagge di Gela. L’operazione ha incontrato molte difficoltà, ma a 25 ore dallo sbarco la testa di ponte è ormai consolidata e le truppe di terra stanno avanzando nell’interno.

Stamani il bollettino di guerra n. 1142 del Quartiere generale delle forze armate italiane diceva: “Un’accanita battaglia è in atto lungo la fascia costiera della Sicilia sudorientale, dove truppe italiane e germaniche impegnano energicamente le forze avversarie sbarcate e ne contengono validamente la pressione. Intensa l’attività delle opposte aviazioni. I cacciatori dell’Asse hanno abbattuto 22 velivoli, le batterie contraeree 9. Nostre formazioni aerosiluranti portatesi ripetutamente all’attacco di convogli nemici, colavano a picco due piroscafi per 13.000 tonnellate complessive ed una nave di tipo imprecisato; danneggiavano inoltre gravemente due incrociatori e numerosi altri mercantili, parecchi dei quali si incendiavano. Un incrociatore leggero, sette navi da trasporto di grosso e di medio tonnellaggio e molti mezzi da sbarco venivano ripetutamente colpiti dall’aviazione germanica, così da farne ritenere sicuro il successivo affondamento”.


1 In Brave Men, ripreso da La seconda guerra mondiale, Selezione del Reader’s digest.

11 luglio – Di più

– La guerra. Che cosa succede in una trincea? Com’è l’attesa dell’attacco nemico? Che cosa significa sparare ed essere bersaglio degli spari avversari, il passare dei giorni e delle notti, la fame, la sete, i morti, e poi l’assalto finale, la resa? In un caposaldo alla periferia di Agrigento un giovane ufficiale dei bersaglieri, 22 anni, vive questo dramma e lo racconta. È Alfredo Ferri, nato a Treviglio nel settembre del 1921. Ecco la cronaca: “In una brutta giornata, verso la fine di giugno, sui muri delle città e di ogni piccolo paese apparve­ro brevi manifesti, quasi a lutto, che informavano la popola­zione che si riteneva ormai prossimo lo sbarco delle truppe anglo-americane. Oltre alle rituali sollecitazioni alla calma, alle istruzioni sui comportamenti da tenere, si informava che non si sarebbero più suonate le campane. La ripresa del loro suono avrebbe dato la notizia dell’avvenuto sbarco.

“I giorni che seguirono si consumarono, per le famiglie, nelle più preoccupate ipotesi di che cosa fare e di che cosa mettere al riparo, nello scambio di notizie e pareri con familiari e amici lontani. La tensione si faceva sempre più acuta, ogni rumore poteva essere quello delle campane. Nella notte dell’8 luglio udimmo il suono delle campane venire dal paese ancor prima dell’arrivo del portaordini. Era verso le ore ventidue e ci apprestavamo a dormire. Urlai: “le campane, le campane”.

“Nel buio fu tutto un agitarsi di urla, di comandi, tutto an­dava spiantato nel minor tempo possibile, tende, comando, cucine, e caricato sui carri. Il muoversi affannoso delle ombre degli uomini si stagliava contro le poche luci. Caricati i bersaglieri nei camion, legati i teloni di copertura, saliti gli ufficiali nelle cabine, la colonna si buttò velocemente verso la costa. La strada sembrava fatta di sole curve, giù a Burgio, poi a Ribera fino al bivio di Montallegro, nel buio più completo, per raggiungere dopo una ottantina di chilometri i sobbor­ghi di Agrigento. Per la nostra compagnia la destinazione era il “caposaldo 93, quota 90, foce del fiume Naro, al km 193 della SS Agrigentina n. 115″. L’ordine era di “resistenza ad oltranza per impedire l’accesso dei mezzi corazzati nemici in Agrigento”.

“La flotta americana era ormai in vista delle coste sicilia­ne e gli aerei americani passavano altissimi, sopra di noi in continuità. Era iniziato lo sbarco con il lancio di migliaia di paracadutisti nelle zone interne dell’isola. Il nostro caposaldo era a una decina di chilometri, posto su un dosso sopra la strada che costeggiava il mare. Due cur­ve ne limitavano la visibilità. Il dosso era già stato preparato parzialmente a difesa, con lo scavo di alcune trincee e buche.

“Nel tardo pomeriggio apparvero sul mare i primi puntini neri della flotta che si avvicinava e sopra le nostre teste si cominciò a sentire il sibilo delle prime bombe che si perdevano lon­tano alle nostre spalle. Lentamente, i punti neri si fecero sempre più fitti e grossi, men­tre il bombardamento dal mare aumentò d’intensità. Con l’imbrunire apparvero più evidenti, in diversi colori, le trac­ce dei proiettili. Il cielo esplose in una spaventosa sarabanda di fuochi e di scoppi. Non eravamo in grado di individuare i bersagli dei tiri, ma erano certamente la città e il porto di Agrigento. Non noi per il momento.

“Dalle grosse navi della prima fila cominciarono a staccarsi dei natanti più piccoli e da questi altri minori, quasi riem­piendo tutta la zona di mare di fronte a noi. Stava sbarcando, verso la spiaggia davanti a noi, una parte della 7a armata americana. Passammo le lunghe ore dell’imbru­nire e del farsi notte con nel cuore i sentimenti più con­trastanti, senza una parola, attratti dai rombi, dai sibili dei proiettili e dallo “spettacolo” di colori che ci avvolgeva. Con il sopravvenire della notte tutto cessò quasi improvvisamente e il buio nascose ai nostri occhi le operazioni di sbarco che cer­tamente si erano concluse sulla spiaggia. In attesa dell’alba, stanchi per il lavoro e per le emozioni, i bersaglieri si erano addormentati accucciati nelle trincee. Noi quattro ufficiali cercammo un po’ di riposo sui covoni di paglia abbandonati al centro del dosso.

“Si stava ancora formando nel cielo il roseo dell’alba quan­do venimmo svegliati dai primi proiettili che colpivano le no­stre posizioni. Con una rapida corsa raggiungemmo le nostre trincee, nascoste dalle canne e dalla paglia stesavi sopra. Uno di noi rimase però sul campo, colpito al ginocchio da un gros­so proiettile tracciante di mitragliera. Per lui non potemmo fare nulla, perché la battaglia era scoppiata. Venne raccolto più tardi dai barellieri di un reparto della sa­nità, che era stato sistemato al coperto, dietro di noi, a servi­zio di altri reparti che operavano attorno.

“Nell’affanno della corsa caddi nella mia trincea, dove i bersaglieri addetti al cannoncino anticarro erano in ansia. Erano apparsi a una delle curve della strada verso Agrigento i primi carri armati. Sparai sul primo carro con il cannone già pronto e messo in postazione. Forse, più della mia capacità di mira fu la fortuna che indirizzò il colpo verso i cingoli, bloccando il carro armato in mezzo alla strada, facendo velocemente ritirare dietro la curva quelli che lo se­guivano. Fu il mio battesimo di fuoco.

“Iniziò l’assalto al nostro caposaldo da parte della fanteria americana rimasta nascosta sulla spiaggia. Durò fino a sera, poi cessò. Timidamen­te cominciammo a muoverci senza reazione da parte degli americani. Feci scendere fino alla strada alcuni bersaglieri. Nel carro era rimasto il carrista. Fu il nostro primo, e unico, prigioniero che accompagnammo nelle retrovie. Ma quello che più ci rallegrò furono le scorte di viveri rinvenute nel carro, sigarette, cioccolato, biscotti, marmellate, dal gusto a noi sconosciuto. Fu il primo contatto con le abitudini di vita degli americani e con la loro ricchezza.

“Molto meno piacere ci diede la scoperta che gli artiglieri della postazione sotto di noi erano fuggiti. Erano in un luo­go troppo scoperto e non avevano potuto fare altro. Uno era ancora nascosto nel fossetto della strada. Non ne volle sapere di salire nelle nostre trincee e nella notte sparì.

“La notte fu quasi di veglia. La paura di un attacco improv­viso, dopo l’inattesa sospensione degli spari, ci costrinse a te­nere alto lo stato di allarme. I bersaglieri vegliarono a turno, alcuni dormirono alla meno peggio nelle trincee, altri fuori sulle stoppie del grano avvolti nelle mantelline e così anche noi ufficiali. Mi azzardai a compiere un breve giro delle po­stazioni. Tutto sembra­va ancora tranquillo.

“Anche il mattino dopo non fu la “rosata aurora” a darci il benvenuto su questa terra, ma l’iroso sparo delle mitragliatrici. Cominciò una nuova giornata di battaglia, da parte nostra per impedire il transito sulla strada e contrastare i tentativi americani di attaccare il nostro caposaldo. Le ore pomeri­diane, nella fossa infuocata delle trincee, trascorsero lente, eterne per noi che aspettavamo il refrigerio della notte e la pausa degli spari.

“Avevamo esaurito le riserve d’acqua e la sete cominciava a farsi sentire. Con il sopravvenire del buio cessarono gli spari. Si stabilì tra noi e gli americani quasi una forma di tacita inte­sa. Nel buio cominciammo a muoverci con meno prudenza, senza incontrare alcuna azione di contrasto. Anche noi sentivamo i loro movimenti e perfino il rumore metallico delle vanghette con le quali sistemavano le loro difese. Evitavamo però di sparare.

“Fu possibile far scendere una piccola pattuglia nella sottostante masseria alla ricerca d’acqua. Il pozzo era ancora in uso. Tornarono con alcuni piccoli otri d’acqua e perfino con qualche uovo che le galline, per nulla spaventate dagli spari, continuavano tranquillamente a deporre. La notte passò con meno tensione e un po’ più di riposo.

“Il terzo giorno la musica cambiò. I soldati americani avevano cambiato la direzione di attacco, spostandolo sulla nostra sinistra, dove esistevano grossi depositi che ritenevamo di pani di zolfo. Sulle nostre mappe non risultavano però indicazioni riguardo l’esistenza di zolfatare. Dietro, al loro riparo, avevano sistemato alcune batterie di mortai. Da lì cominciarono al mattino i primi colpi. Avremmo preferito gli spari secchi delle mitragliatrici a quello dei mor­tai, che arrivavano subdoli, senza avviso. Si sentiva il loro sibilo sopra le teste e, quando andava bene, lo scoppio dietro le nostre spalle. Sparavano ‘a forcella’: un colpo lungo ed uno corto per centrare il tiro.

“I colpi cadevano sempre più vicini, ma, fortunatamente, senza mai centrare in pieno le trincee. Il terreno attorno al caposaldo era ormai pieno di buche e di avvallamenti. Co­minciammo ad avere i primi feriti colpiti dalle schegge nel tentativo di strisciare verso i depositi delle munizioni. Funzionava ancora, in modo molto rischioso, una modesta assistenza ai feriti che venivano trasportati nelle retrovie.

“La giornata passò senza che il nemico riuscisse ad avanza­re verso le nostre posizioni. Il cannoncino continuava ad essere di molta utilità nel supporto al fuoco delle mitragliatrici e dei fucili. Riuscivamo a vedere con il binocolo gli americani, attraverso gli stretti corridoi dei blocchi dei pani di zolfo, spostarsi di corsa da un blocco all’altro nel tentativo di avvicinarsi a noi.

“Avevo puntato il 47/32 in uno di questi corridoi, atten­dendo e contando i tempi dei loro passaggi. Sparai quasi per istinto, colpendo in pieno una piccola pattuglia. Ho ancora negli occhi la scena, sia pure lontana e confusa, dei movi­menti dei soldati colpiti. Mi prese un momento di assurda gioia, seguito dall’urlo di vittoria dei due bersaglieri che mi assistevano. Poi ho continuato a chiedermi perché ne fossi contento.

“La tensione e la stanchezza cominciavano a farsi sentire. Come cibo avevamo le dure gallette, qualche pagnotta avan­zata e le scatolette di carne dura e fibrosa. Per l’acqua poteva­mo ancora contare sui rifornimenti notturni dal pozzo della masseria.

“Cominciavamo a contare i nostri morti. Nella mia trincea, caduto sopra il mucchio di terra attorno, un nostro sergente, De Luca, pugliese, era stato colpito nel pieno della fronte, un piccolo foro, con la morte credo istantanea. Nemmeno un grido, gli occhi sbar­rati verso il cielo. Aveva in tasca una licenza di quindici giorni per tornare a casa a salutare la giovane moglie appena spo­sata.

“Un altro bersagliere era stato colpito all’addome da una sventaglia­ta di proiettili. Rimase sdraiato, sul bordo della trincea, con il ventre aperto. I suoi lamenti, il dolore, le sue vane richieste di aiuto continuarono per molte ore senza alcuna nostra pos­sibilità di assisterlo.

“La tensione nervosa dei bersaglieri, che stava ormai cedendo, dava a noi ufficiali gravi preoccupazioni. Uno dei miei bersaglieri, sem­brava quello più forte e robusto, fu assalito in un pomeriggio da una crisi di nervi, sbavando e urlando la sua volontà di farla finita. Gli altri compagni atterriti mi guardavano atten­dendo un mio intervento. Feci un atto inconscio, spontaneo e pericoloso. Lo presi per la camicia, sbattendolo contro la parete della trincea, dandogli due forti schiaffi, senza parole. Rimase muto a fissarmi e dopo pochi istanti ritornò in sé, ma non disse più alcuna parola.

“La battaglia continuò per un paio di giorni, senza che gli americani potessero avanzare. Il caposaldo sotto il continuo bombardamento con i mortai era ridotto a un campo di bu­che. Nei depositi delle munizioni, più volte colpiti, le casse continuavano a bruciare, aumentando il pericolo per qualsia­si nostro movimento. Anche il cannoncino anticarro era stato colpito. Rimase rovesciato nella sua piazzola fuori della mia trincea, ormai in­servibile, come era buona parte delle armi senza più muni­zioni. Sentivamo ormai prossima la nostra fine. Preparammo sui bordi delle trincee dei piccoli depositi di bombe a mano per l’ultima difesa.

“Da sei giorni ci nutrivamo di poca galletta inumidita nell’acqua, ma anche questa stava finendo e non avevamo più alcuna possibilità di scendere al pozzo della masseria. An­che gli americani avevano rallentato il ritmo dei loro attac­chi. Molto probabilmente attendevano la nostra resa e non volevano altri morti.

“Nella mattinata del settimo giorno gli spari erano ulteriormente diminuiti fino quasi a cessare nelle prime ore del po­meriggio. Mi ero sdraiato fuori dalla trincea, sulla piazzola del cannon­cino, al riparo di un mucchio di terra. Con il binocolo cercavo di individuare le postazioni americane dalle quali non proveni­va più alcun rumore, né vi si notavamo movimenti. Ero talmen­te assorto che, al primo istante, non mi accorsi dell’allungarsi davanti a me di alcune ombre, proiettate dal sole al tramonto dietro le mie spalle. Mi buttai di slancio nella trincea. Sopra, minac­ciosa, una pattuglia di soldati americani, con i mitra imbraccia­ti, intimavano la resa. Avevano sfondato un punto del nostro caposaldo e ci avevano preso alle spalle. Nella doppia trincea, che aveva la forma di una elle, i bersaglieri si erano rifugiati nel braccio al momento più riparato. Per poterci colpire gli ameri­cani avrebbero dovuto spostarsi dall’altro lato, ma temevano la nostra reazione. Alle loro imposizioni di uscire fecero seguito ripetuti spari nella trincea. Ormai non c’era più nulla da fare. Toccava a me, agitando un fazzoletto bianco in mano, uscire per primo. Mi videro disarmato e non spararono.

“Dopo una prima sensazione di paura, subentrò in me un improvviso senso di tranquillità. Negli sguardi dei bersaglieri, quasi increduli, leggevo il passare dai sentimenti di paura a quelli della rassegnazione e poi quasi della gioia.

“Per noi era finita. Attorno, in mezzo alle buche delle bom­be, i nostri morti. Non ci lasciarono il tempo per raccoglierli, né per piangerli.

“Al piccolo gruppo di quanti rimanevano della mia squa­dra, si aggiunsero anche gli altri usciti dalle trincee. Ci porta­rono in un uliveto distante, dividendo gli ufficiali dalla trup­pa. Una veloce identificazione ricavata dalle piastrine metal­liche che portavamo al collo, sostituendole con un tag, un cartoncino telato, appeso al collo con un cordino: “Date of capture july, 16, 1943 – place of cap­ture, Agrigento, fiume Naro, Q95 – Ferri Alfredo – 2nd Ltn – ­Unity making capture 7th C.T.” ed il mio numero di matricola: 81-1-49495″. Il retro del tag recava, in modo sgrammaticato, “Se previene i prigionieri di guerra di non mutilare, distruggere e perdere questa etichetta”.

“Il governo americano può stare tranquillo. La conservo ancora con cura tra i pochi ricordi. Da quel momento ero diventato un “PW, prisoner of war”.

Questo bel racconto è stato tratto dal libro di Alfredo Ferri “Diari di vita e di cooperazione”. 1921-2005″, edito da Ecra, Edizioni del Credito cooperativo, 2009. Alfredo Ferri è stato funzionario e direttore di banca, poi presidente della Federazione italiana Casse rurali; poi laureato in sociologia, “honoris causa”, all’università di Urbino.