10 luglio

Alle prime luci del giorno due armate trasportate e appoggiate da centinaia di navi e da migliaia di aerei sbarcano sulle coste sudorientali della Sicilia. È il primo attacco angloamericano all’Europa.

“Siamo in procinto di intraprendere l’impresa più importante della guerra e per la prima volta colpiremo il nemico nella sua terra”. Il messaggio registrato dell’ammiraglio Cunningham è ascoltato in silenzio su tutte le navi che dai porti della Tunisia e dell’Algeria stanno navigando verso la Sicilia. È mezzanotte.

L’operazione Husky1, decisa da Roosevelt e da Churchill nella conferenza di Casablanca del 24 gennaio, è in corso. Sir Andrew Cunningham ha il comando della flotta, quasi tutta inglese: quattro corazzate, due portaerei, 15 incrociatori, 52 cacciatorpediniere, 2275 unità da trasporto per 181 mila soldati (115 mila inglesi, 66 mila americani), 1800 pezzi di artiglieria, 600 carri armati, 14 mila automezzi. Le forze di terra sono al comando del generale sir Arold Alexander: l’8a armata inglese del generale Bernard Montgomery (sette divisioni e tre brigate, di cui una corazzata) e la 7a americana del generale Patton (quattro divisioni, di cui una corazzata). Le forze aeree sono comandate dal maresciallo dell’aria sir Arthur Tedder: più di quattromila aerei, di cui 144 alianti. Responsabile di tutta l’operazione è il generale americano Dwight Eisenhower.

Lo sbarco in Sicilia secondo i piani militari dei Comandi angloamericano e italotedesco.

Lo sbarco in Sicilia secondo i piani militari dei Comandi angloamericano e italotedesco.

Italiani e tedeschi hanno in Sicilia un maggior numero di uomini (250 mila, compresi addetti ai servizi e retrovie), di cui 220 mila italiani (siciliani per due terzi) e 30 mila tedeschi, contro il 181 mila angloamericani (che diventeranno però 478 mila al termine delle operazioni nell’isola); l’armamento è tuttavia inferiore: meno di 500 pezzi di artiglieria e 265 carri armati (cento italiani, 165 tedeschi). Le sei divisioni costiere, che hanno compito antisbarco, sono disseminate lungo i 1039 chilometri di costa, sul Mar Tirreno, sul Mar d’Africa e sullo Jonio: 36 soldati di fanteria ogni chilometro, un pezzo di artiglieria anticarro ogni tre chilometri, una batteria di artiglieria ogni otto chilometri2. Quattro sono le divisioni italiane mobili (Aosta, Assietta, Napoli, appiedate e con l’artiglieria trainata da cavalli, e la motorizzata Livorno); due le divisioni tedesche (Sizilien e la divisione corazzata Göring). Aerei disponibili nell’area: meno di cinquecento. Navi da guerra? Nessuna. La regia flotta è rimasta rintanata nei porti della Spezia e di Taranto. Nessuno spiegherà bene questa strana strategia3.

Il piano del Comando angloamericano prevede lo sbarco sulle spiagge della Sicilia sudorientale: l’8a armata inglese di Montgomery da Capo Ognina, poco a sud di Siracusa, a Punta delle Formiche, sotto Pachino, su 77 chilometri di spiaggia; la 7a armata americana di Patton da Capo Scaramia, poco dopo Marina di Ragusa, a Torre di Gaffe, poco a ovest di Licata, su 80 chilometri di spiaggia. Montgomery dovrebbe occupare Pachino e Noto e poi spingersi a nord per impossessarsi dei porti di Augusta e di Catania. Il compito di Patton è di prendere Ragusa e gli aeroporti di Comiso e di Biscari (oggi Acate) e poi proseguire a nord e nordovest, Caltanissetta e Enna. Forti contingenti di truppe inglesi e americane aviotrasportate devono scendere coi paracadute o sbarcare dagli alianti oltre le teste di ponte, per prendere i punti chiave e appoggiare gli sbarchi4.

Mezzanotte è già suonata. Sull’incrociatore Savannah la bandiera del Primo Corpo d’armata americano è stata ammainata e sostituita dal vessillo della 7a armata. Il generale Patton ha invitato il suo staff nella sua cabina privata. “Signori” ha detto “da un minuto è passata la mezzanotte e ho l’onore e il privilegio di costituire la 7a armata degli Stati Uniti. È il primo esercito della storia a essere formato dopo la mezzanotte e battezzato nel sangue prima della luce del giorno”5.

Nel suo diario di due giorni prima Patton ha scritto: “Ieri notte sono stato sveglio fino all’una per leggere una detective story, centinaia di pagine per raccontare la morte di un solo imbecille. Io sto mandando incontro alla morte e alla gloria migliaia di persone senza pensarci, o non volendolo fare. La mente umana è davvero singolare; solo Dio avrebbe potuto escogitare una macchina tanto complessa”.

Le navi sono partite ieri dai porti dell’Algeria, della Tunisia e della Valletta a Malta. È stata una bruttissima giornata; il mare fra l’Africa e la Sicilia, dopo un mese di calma, era sconvolto, con un vento che ha raggiunto i 75 chilometri all’ora. La navi più grosse rollavano e beccheggiavano, mentre i mezzi da sbarco ballavano sulle onde come fuscelli di paglia. La burrasca ha aiutato la sorpresa. Negli alti Comandi italiano e tedesco chi poteva immaginare che lo sbarco dovesse avvenire con un tempo come quello?

In serata il vento è cessato, ma le acque sono rimaste agitate nella notte; e non è passato del tutto il diffuso mal di mare dei soldati di terra a bordo delle navi. Poi l’attesa, poi la paura. Patton l’ha già detto: non è proibito aver paura; è proibito non vincere la paura.

L’ora di sbarco era fissata per le 2.45. Puntualmente l’8a armata comincia le operazioni di sbarco sulla costa sudorientale; solo qualche ritardo per le condizioni del mare. La sorpresa sembra riuscita; la resistenza delle unità costiere italiane è scarsa e viene subito sopraffatta, mentre le navi cannoneggiano le difese interne6.

Maggiori difficoltà ha trovato la 7a armata. Il forte vento ha reso difficile la messa in mare dei mezzi d’assalto e ha disperso in mare o lontano dai punti prefissati gran parte delle truppe paracadutate. La prima ondata ha preso terra soltanto alle 4.30, quando il sole è sorto già da un quarto d’ora; la seconda alle 4.40.

Sùbito dopo, le cose si sono messe bene per gli attaccanti. Gli inglesi hanno già una testa di ponte consolidata; hanno preso Cassibile e alle 7.30 hanno già cominciato a rimettere in efficienza l’aeroporto di Pachino, a cinque chilometri dalla costa. Alla stessa ora gli americani hanno occupato Licata e preso l’aeroporto di Gela. Alcuni reparti sono a dieci chilometri nell’interno.

Il generale Guzzoni, che è il comandante delle forze italogermaniche, ha mandato la divisione Napoli verso Siracusa, la Livorno e la Göring verso Gela, l’Assietta verso Licata; ma l’attacco ininterrotto degli aerei angloamericani ritarda i movimenti delle truppe e ne riduce l’efficienza.

“Il riflesso dell’alba” racconterà il giornalista americano Ernie Pyle7 sbarcato sulla spiaggia di Licata “scatenò un diluvio di fuoco per chilometri attorno a noi. Un’enorme deflagrazione squarciò l’aria limpida. Il cielo grigiastro fu marezzato dal fumo delle innumerevoli esplosioni dei proiettili antiaerei. Aerei nemici sembravano volerci bombardare in picchiata, ma furono ricevuti dalle nostre centinaia di cannoni e, più ancora, dalla nostra caccia.

“Gli aerei nemici finirono col battere in ritirata. Nello stesso istante aprirono il fuoco i pezzi della difesa costiera italiana, situati sulle colline circostanti la spiaggia. Dapprima, le granate scoppiarono in mezzo alla sabbia, levando pesanti nubi giallastre, poi si avvicinarono alle navi. Non ne colpirono alcuna, ma più volte avemmo la sensazione che fosse arrivato il nostro turno. Gli artiglieri nemici tentavano di colpire un obiettivo dopo l’altro e la nostra nave rappresentava un ottimo bersaglio.

“Finalmente, i cannoni italiani si placarono. I cacciatorpediniere costeggiarono la spiaggia, mentre le loro ciminiere vomitavano torrenti di fumo nero. Dietro quello schermo protettore i mezzi porta-carri e quelli della fanteria si avvicinarono alla riva”.

Alle 10 la situazione sulle spiagge di sbarco è praticamente indisturbata e presenta uno spettacolo che fa stupire anche il giornalista Pyle: “Le motovedette facevano carosello al limite della spiaggia, deponevano il loro carico, poi riprendevano il largo. Navi di tutte le stazze avanzavano verso la spiaggia, altre se ne allontanavano. Incalcolabili quantità di imbarcazioni occupavano interamente lo spazio visibile. Lo stesso orizzonte era come bloccato dalle più grosse navi da trasporto alla fonda, che aspettavano pazientemente il loro turno. Tra quel colossale muro e la costa, il mare brulicava in un’incessante agitazione. Attraverso quell’andirivieni, si faceva strada una colonna di mezzi da sbarco portacarri, in direzione perpendicolare alla spiaggia. Sembrava un’autostrada che tagliasse in linea retta una foresta. Le pesanti imbarcazioni procedevano in fila indiana, a una cinquantina di metri l’una dall’altra. Nonostante la lentezza, davano una sensazione di inesorabilità e sembrava che niente al mondo avrebbe potuto opporsi alla loro avanzata.

“A metà pomeriggio dello stesso giorno, il terreno era occupato a perdita d’occhio da truppe e da automezzi di ogni forma e tipo. Sul pendio della collina erano raggruppati centinaia di carri armati, sufficienti per sferrare una grande battaglia. Da tutti i lati balzavano fuori jeep; si posavano a terra cavi telefonici; si installavano posti di comando nei campi e nelle vecchie bicocche. Alcuni funzionavano già sotto gli alberi e nelle cascine abbandonate. Nei prati erano accumulate migliaia di casse di munizioni. Le cucine da campo fumavano e ben presto furono serviti cibi caldi, in sostituzione delle razioni “K”. Gli Americani lavoravano rapidamente e metodicamente. A parte qualche ufficiale un po’ nervoso, era un esercito di tipi flemmatici, decisi ed efficaci.

“Le opere difensive italiane nel nostro settore erano francamente ridicole. Nessuno aveva pensato di rendere inutilizzabile il porto, né di far saltare i ponti sul fiume, cosa che avrebbe tagliato in due le nostre forze. Le spiagge erano minate solo superficialmente e non erano sbarrate da alcun reticolato. Ci si aspettava di doverci aprire un passaggio attraverso un solido baluardo di mine, di mitragliatrici, d’artiglieria, di reticolati e di lanciafiamme. Avevamo addirittura avuto timore di diaboliche armi segrete. Invece, niente. Era un po’ come prepararsi a combattere una tigre e trovarsi a faccia a faccia con una pecora.

“Gli Italiani non avevano predisposto molti ordigni esplosivi. Poco mancò che mettessi il piede su uno di quelli che trovammo, ma, a dir la verità, sembrava lasciato li più per distrazione, che non per disegno tattico. Più tardi, sulle banchine del porto, ne trovammo delle casse piene, che evidentemente nessuno si era preoccupato di aprire. In quanto agli sbarramenti stradali, erano a dir poco assurdi. Consistevano in leggeri telai di legno, grandi come un tavolo da cucina e avvolti di filo spinato, posti in mezzo alla strada: non avemmo che da spingerli nei fossati. Non avrebbero fermato un bue, e tanto meno un carro armato.

“Nel nostro settore i soldati non potevano parlare di combattimento perché non c’era stato; perciò cercarono altri argomenti di conversazione. Quello che scelsero potrà sembrare quanto meno strano: non parlarono né di ragazze, né di vino, né dell’Etna, ma semplicemente dei pomodori maturi che abbondavano nei campi. E come se ne rimpinzavano! Sentii almeno una ventina d’uomini parlare di quei pomodori: sembrava che avessero scoperto una miniera d’oro.

“Ben presto, vedemmo alcuni carri armati dirigersi verso Licata. Dovettero sparare qualche salva, prima che la guarnigione decidesse di arrendersi. Quell’ultimo avvenimento segnò la fine dei combattimenti nel nostro settore. Per quanto ci riguardava, il compito più importante era stato assolto”.

Questo il racconto del giornalista americano Pyle. Stamani il bollettino di guerra n. 1141 del Quartiere generale delle forze armate italiane diceva: “Il nemico ha cominciato questa notte con l’appoggio di poderose forze navali e con lancio di paracadutisti l’attacco contro la Sicilia. Le forze armate alleate contrastano decisamente l’azione avversaria. Combattimenti sono in corso lungo la fascia costiera sudorientale. Durante le azioni effettuate ieri dall’aviazione su centri della Sicilia, le artiglierie italiane e germaniche distruggevano 22 velivoli, dei quali 15 a Porto Empedocle. Altri 11 apparecchi venivano abbattuti dai cacciatori tedeschi”.

Non si saprà subito, si saprà solo più tardi: Mussolini ha inviato un messaggio urgente a Hitler; chiede aiuto.


1 In inglese “husky” significa “pieno di bucce” o “rauco” o “secco” o “fioco”; ma anche “eschimese”, così come la razza dei cani eschimesi da slitta.

2 Questi dati numerici sono in Otto milioni di baionette del generale Roatta, Mondadori, 1945, ripresi anche da Indro Montanelli nell’ottavo volume della sua Storia d’Italia.

3 All’ammiraglio Riccardi, comandante in capo della marina da guerra italiana, è attribuita la frase “sarebbe stato un sacrificio inutile”.

4 Le informazioni vengono dal libro La campagna d’Italia (ed. Garzanti) dello storico inglese G.H.Shepperd, riprese da Arrigo Petacco nel suo La seconda guerra mondiale (Curcio ed.); dal libro di Petacco sono prese altre informazioni.

5 In George Patton, Come ho visto la guerra, Baldini e Castoldi, 1968.

6 Vedi nota 4.

7 Nel libro Brave Men, in parte ripubblicato in Tutta la seconda guerra mondiale, Selezione del Reader’s Digest, Milano, 1966.

10 luglio – Di più

Sullo sbarco alleato in Sicilia un filmato di 2.29 minuti di fonte militare inglese o americana è visibile su YouTube.


Il 10 luglio 2003 su Repubblica Giuseppe Passarello ha ricordato il “giorno dell’isola liberata”:

“All’alba di sabato 10 luglio del 1943 il risveglio dei siciliani fu segnato dal rullo dei tamburi che saliva dalle strade, dai vicoli, dalle piazze dei paesi pieni di sfollati in fuga dalle città bombardate. Il banditore gridava tra un rullo e l’altro una frase che in sé non aveva nulla di concreto: “Siamo in stato di emergenza!”. Frase che tutti fulmineamente tradussero in termini di concretezza: “Sono sbarcati”. Era un evento ormai atteso, e da diversi giorni alti funzionari della pubblica amministrazione e gerarchi fascisti abbandonavano i loro posti di responsabilità dopo avere intascato cinque mensilità di stipendio grazie a una leggina lungimirante fatta per chi meditava la fuga. Erano andati “a rapporto”, quasi tutti a Roma, mai bombardata in tre anni di guerra. I più tracotanti affermavano: “La nostra contraerea è il Papa”.

“Il risveglio dato dai tamburi fu seguito da un’ansiosa ricerca di notizie. Nelle grandi città, dove gli sfollati tornavano ogni mattino per motivi di lavoro (erano tutti mobilitati civili in zona di guerra, con gli obblighi che ne derivavano), circolavano le notizie più contrastanti: secondo alcune voci i nemici avevano tentato di sbarcare ma erano stati subito ributtati a mare, secondo altre il fatto che i militari italiani erano in movimento verso sud significava che lo sbarco, o il tentativo, era stato fatto nelle coste meridionali dell’Isola. Qualcuno che aveva parenti o amici da quelle parti, diceva che aveva avuto notizie telefoniche secondo le quali da Licata vedevano il mare affollato fino all’inverosimile dì navi da guerra e da trasporto di tutte le stazze: alcune di queste, giunte alla battigia (quella che Mussolini qualche giorno prima con imperdonabile ignoranza aveva chiamato “bagnasciuga”), abbassavano enormi portelloni e scaricavano a terra uomini, auto, camion, carri armati, cannoni. Ma erano tutte notizie non confermate e spesso contraddittorie.

“L’ansia cresceva smisuratamente. Restava da aspettare Radio Londra, che trasmetteva i suoi notiziari in italiano ogni sera alle 21.30. Ascoltarla costituiva un vero pericolo: da poco, per chi veniva colto sul fatto, erano state triplicate le pene, portate a 18 mesi di carcere e 30.000 lire di multa, e i giornali ne davano continue notizie con nomi e cognomi dei “traditori” che vi incappavano. Ogni sera, comunque, chi riusciva a sintonizzarsi su quella certa lunghezza d’onda segretamente nota a tutti, poteva ascoltare all’inizio il crescendo dei quattro colpi di tamburo (che erano le quattro note iniziali del maestoso attacco della “Pastorale” la Sesta sinfonia di Beethoven) e poi la voce, ormai familiare, di Candidus o del colonnello Stevens. Quella sera del 10 luglio fu dato l’annunzio che una specie di Invincibile Armata anglo-americana era arrivata presso le coste della Sicilia e vi aveva sbarcato un formidabile esercito che già penetrava irresistibilmente nell’interno dell’isola. Solo il giorno successivo il bollettino di guerra italiano accennava a “poderose formazioni navali e aeree” e al “lancio di paracadutisti” che avevano iniziato l’attacco contro la Sicilia, contrastati dalle forze italo-tedesche. Cosi si seppe di che natura fosse l’emergenza che i rulli di tamburo avevano preannunziato in quell’alba del 10 luglio di sessant’anni fa.

Qualche giorno prima, sui muri di città e paesi siciliani era stato affisso un proclama firmato dal generale Mario Roatta che per tutti aveva avuto l’effetto di una scudisciata. Vi si leggeva: “Strettamente fiduciosi e fraternamente uniti, voi, fieri siciliani, e noi, militari italiani e germanici delle Forze Armate Sicilia, dimostreremo al nemico che di qui non si passa”. Quella distinzione tra “voi” e “noi” suscitò l’indignazione generale, e in quel proclama molti ravvisarono il motivo dell’immediata sostituzione di Roatta col generale Ambrosio. Malgrado tutto ciò, il comportamento di soldati e ufficiali siciliani, che in quel momento costituivano il 60 per cento delle forze armate italiane dislocate in Sicilia, fu esemplare come sempre. Le truppe italiane tutte, senza distinzione alcuna, si opposero a un esercito di stragrande superiorità per numero, per armamento, per padronanza assoluta dei cieli, per capacità direttive dei comandanti, battendosi da valorosi. I numerosi cimiteri di guerra sparsi per tutta la Sicilia con le spoglie mortali di tante migliaia di caduti, sono oggi la testimonianza, purtroppo tragica, di quanto vili fossero allora i tentativi del morente regime fascista di attribuire al tradimento dei siciliani la sconfitta in quella battaglia mortale tra libertà e nazifascismo cominciata all’alba del 10 luglio col rullo dei tamburi.

Il testo è disponibile sul sito di Repubblica.


Elisa Valle mi segnala un’altra cartina dello sbarco molto dettagliata:

Cartina sbarco in Sicilia

Nella sezione “Storia” del sito www.larchivio.org è possibile visualizzarla in grande formato per vedere tutti i dettagli.

In generale, sul sito www.larchivio.org – sezione storia sono presenti molto documenti e foto, si veda in particolare la sottosezione “1943 – Verso l’Armistizio”.