La morte di Giovanni Gentile, Aprile 1944 |
Lettera scritta a Mario Pirani nell’agosto 2004. Pirani ha ripreso l’argomento e riprodotto alcuni stralci della lettera sulla “Repubblica” del 27 dicembre 2006)
Caro Mario,
ho letto oggi con pieno consenso la tua “linea di confine” sulla morte di Giovanni Gentile. Vivevo allora a Firenze e in quell’aprile del 1944 dirigevo un giornale clandestino liberale, “l’Opinione”. Dopo un primo approccio col partito d’azione (ne conservo ancora la tessera) la mia estrazione crociana mi aveva portato al Partito liberale, della cui sezione fiorentina fui uno dei rifondatori insieme a Eugenio Artom (poi senatore del Pli nel 1963) e a Aldobrando Medici Tornaquinci (poi sottosegretario per le Terre occupate nel terzo governo Bonomi); ne fui il primo segretario politico dopo la liberazione di Firenze.
La notizia dell’attentato di via del Salviatino mi colpì dolorosamente. Mi ero laureato in filosofia nel 1940 (avevo poco più di venti anni; oggi ne ho “soltanto” 85) con una tesi su Benedetto Croce, ma i testi di Giovanni Gentile li avevo studiati con passione e sofferenza: con passione, per questo grande pensatore col quale avevano fine duemila anni di filosofia sistematica (dopo di lui la filosofia ha preso altre strade, e diverse); e con sofferenza, per la sua continuata adesione al fascismo (come poteva un uomo del suo talento stare con Mussolini e con la dittatura? addirittura con le leggi razziali e con la Repubblica Sociale?).
Dolore, dunque, per la morte di Giovanni Gentile, ma non indignazione, come accadrebbe oggi se un Giovanni Gentile venisse ammazzato da qualche scellerato terrorista di questo o quel colore. Perché?
Come tu hai scritto, alcuni storici di oggi, più o meno revisionisti, sono bravi nel ricostruire le vicende di quegli anni terribili, ma non si sforzano minimamente di capire il clima di allora, il contesto storico, politico, culturale e anche emotivo in cui vivevamo. C’era in corso una guerra di liberazione e una guerra civile; e ogni giorno c’erano morti, quasi tutti dalla nostra parte.
Per alcuni di noi, come me, l’armistizio dell’8 settembre e la fine della guerra fascista non erano stati un trauma, ma il coronamento di antiche attese e speranze; la nostra scelta l’avevamo fatta da tempo. Ma per molti – studenti, laureati, docenti, che per pochezza di letture o mancanza di tradizioni familiari sapevano poco o niente di libertà e di democrazia – il rovesciamento delle alleanze pose interrogativi tormentosi: da che parte stare? davvero col nemico di ieri? davvero con coloro contro i quali per tre anni ci avevano detto di sparare?
Vero è che dall’altra parte c’erano stati venti anni di dittatura, c’era stata la soppressione di diritti civili, c’erano state le leggi razziali, e ora c’erano le deportazioni degli ebrei, c’era la ferocia assassina delle Brigate nere, c’erano le torture di tante Ville Tristi; ma dalla stessa parte c’era anche Giovanni Gentile e la sua autorità e il suo prestigio di uomo di studi e di pensiero.
Fu proprio per Giovanni Gentile che molti giovani si schierarono dalla parte sbagliata. Ecco perché Teresa Mattei (la cara Chicchi), nei giorni in cui suo fratello era torturato dai fascisti repubblichini tanto da portarlo al suicidio, non si oppose alla decisione del suo compagno Bruno Sanguinetti di ispirare un atto clamoroso di guerra e di sangue, e addirittura collaborò all’identificazione dell’obbiettivo. Ecco perché uno come me – contrario ad ogni tipo di violenza e anche alla guerra, sia pure con qualche se e con qualche ma, e quella nostra contro i tedeschi e i fascisti era una guerra con molti se e molti ma – provò dolore, ma non indignazione per la morte di Giovanni Gentile.
Uccidere è un male, ma quella era una guerra, che non avevamo voluto noi. In una guerra i morti sono tutti eguali; i vivi, no. E da vivo Giovanni Gentile fu un grande pensatore, ma, per molti, anche un grande cattivo maestro.