Siamo tutti liberali, ma di sinistra

Lettera pubblicata nel 2006 sul sito “Articolo 21 liberi di”


Cari amici,

     vorrei  cercare, col vostro aiuto, di chiarire un equivoco che rischia di accrescere la confusione di idee che – per ignoranza, per difetto di informazioni, in molti casi per malafede – sta intorbidando questa preelettorale stagione politica: che cosa si deve intendere per liberalismo? chi può chiamarsi liberale e chi no?

    Qualche tempo addietro, all’incontro annuale di “Articolo 21” al Circolo Montecitorio, Beppe Giulietti mi presentò come “liberale di sinistra”. E’ una definizione che mi appartiene e di cui sono orgoglioso (poi vi dirò perché). Ma anche Berlusconi dice ogni momento di essere un liberale. Fra quelli come me e quelli come lui qual è allora la differenza: che loro sono liberali di destra e quelli come me sono liberali di sinistra? No. La differenza è che noi siamo liberali e loro non lo sono.

    Mi spiego, cominciando a ricordare un fatto importante nella storia del pensiero liberale: l’appassionante dibattito, quasi un secolo fa, fra Luigi Einaudi, allora docente di economia politica alla Bocconi di Milano (sarebbe diventato presidente della repubblica nel 1948), e Benedetto Croce, uno dei più grandi pensatori del secolo scorso e per noi giovani, durante il fascismo, grande maestro di libertà.

     Il tema era il rapporto fra liberalismo come ideologia politica  e il liberismo come teoria economica. Einaudi sosteneva che non ci può essere liberalismo, cioè garanzia delle libertà individuali, se non c’è anche liberismo, cioè garanzia dell’attività produttiva di essere libera  da ogni interferenza dello stato; non c’è libertà dell’individuo se non c’è libero mercato e viceversa. Croce sosteneva invece che il liberalismo è una concezione etico-politica che, avendo come fine la maggiore libertà dell’individuo e la maggiore libertà di tutti, deve ricercare caso per caso, secondo la situazione storico-politica del momento, la soluzione migliore per raggiungere quel fine; e la soluzione può essere a volte di tipo liberistico e a volte di tipo opposto (addirittura di tipo collettivistico” sosteneva Croce); ossia, diremmo oggi, la soluzione può essere un maggiore o un minore intervento dello stato, secondo valutazione caso per caso.

     La differenza è chiara: per Einaudi liberalismo e liberismo sono dottrine politiche indissolubili fra loro; per Croce, invece, il liberalismo può accettare a volte soluzioni di destra e a volte soluzioni di sinistra. Il fine ultimo dell’azione, intesa a ottenere la maggiore libertà dell’individuo, è designabile soltanto dalla coscienza morale. Lo diceva anche un mio grande amico, Giorgio la Pira, di estrazione ben diversa da quella di Croce e dalla mia: se la soluzione è giusta; che cosa m’importa se è di destra o di sinistra? e diceva anche che una società capitalistica produce, sì, ricchezza, ma  soprattutto a vantaggio di chi ce l’ha; e che produce tanta più ricchezza quanto meno sono le regole del giuoco (chissà che cosa avrebbe detto se avesse fatto in  tempo a vedere che cosa succede in Cina), cioè senza preoccuparsi troppo di quei principii, appunto, che il liberalismo sostiene.

   Se allora il liberalismo non è, in linea di principio, né di destra né di sinistra, rimane da dire perché oggi un vero liberale non può che essere di sinistra. Per due motivi. Il primo è di carattere teorico, proprio come sosteneva Norberto Bobbio (con una interessante coincidenza con la parte più avanzata dei cattolici credenti): si è di sinistra se ci si sente dalla parte dei più deboli, di chi ha bisogno di aiuto, di chi è indifeso. Il secondo è di carattere storico: nella situazione politica ed economica in cui ci troviamo da anni non possiamo non richiedere quelle soluzioni che per convenzione sono state chiamate di sinistra o volute dalla sinistra e che in realtà, come diceva La Pira, sono soltanto quelle giuste (giuste per tutti, ovviamente, non soltanto per qualcuno); cioè il rispetto della Costituzione (soprattutto quell’articolo 21 cui si richiama la nostra associazione), la garanzia del pluralismo, l’equità delle condizioni socio-economiche, la difesa di chi ha minori possibilità materiali, l’uso di norme di comportamento civile che non siano condizionate da altre autorità. Questo è proprio il fine etico-politico del liberalismo: una maggiore libertà dell’individuo insieme a una maggiore libertà di tutti.

   Ecco perché sono felice che Beppe Giulietti mi abbia chiamato “liberale di sinistra”. Lo sono da più di sessant’anni, da quando uscii dal Partito liberale perché mi accorsi che aveva ragione Benedetto Croce a dire che il liberalismo è patrimonio di tutti e  rinnega se stesso se si trasferisce in un partito politico, fatalmente difensore di interessi di parte. Con altri amici (fra gli altri, Eugenio Garin, il poeta Eugenio Montale, tanti docenti universitari) costituimmo il movimento della “Sinistra liberale”, che alle elezioni del 1946 per l’Assemblea costituente si presentò con la maggioranza del Partito d’azione nella Concentrazione democratico-repubblicana.

    Non eravamo molti, allora, e alla Costituente portammo soltanto due candidati; due soltanto, ma erano Ferruccio Parri e Ugo La Malfa. Oggi invece siamo tanti, tantissimi; e sono tanti anche quelli che hanno radici e provenienze diverse dalle mie.

    Grazie, cari amici, di avere ospitato questa lettera, che è un po’ troppo personale, forse. Ma forse no, se serve a ricordare che cosa è il liberalismo vero e a far capire chi è liberale e chi non lo è.