Quattro anni accanto a Amintore Fanfani
Alla scoperta del pianeta democristiano. Come nascono le correnti di partito. II primo governo da centrosinistra e l’offensiva della destra. La secessione della Domus Mariae. I dorotei come «categoria dello spirito». Il governo Tambroni e gli incidenti del luglio 1960. Il governo delle «convergenze parallele» 

  18 luglio 1960. Era quasi mezzanotte e sulla terrazza dell’appartamento che Amintore Fanfani aveva e ha tuttora all’attico di via Platone numero 15 faceva caldo ma non tanto. Sia pure con fatica, un po’ di «ponentino» riusciva ancora a passare tra l’uno e l’altro dei grandi casermoni di cemento che i palazzinari stavano costruendo alla periferia ovest e sudovest, tra la città e il mare.

  Eravamo in tre: lui, Ettore Bernabei ed io. La giornata era stata carica di tensione e ancora non si sapeva bene come sarebbe andata a finire. In serata erano corse strane voci. Si diceva che a Roma e in altre città qualcuno aveva notato movimenti sospetti nelle caserme della polizia; qualcuno riferiva an­che che i dirigenti del Partito comunista avevano ricevuto il consiglio di non dormire a casa. Numerosi agenti in camionetta e a cavallo percorrevano le vie del centro. Stava per succedere qualcosa? Ogni quarto d’ora telefonavo all’Ansa, dove avevo un amico, Fausto Balzanetti, che, qualche anno dopo, con me direttore, sarebbe diventato il mio vice.   Presidente del consiglio dall’8 aprile era Fernando Tambroni, un avvoca­to di Ascoli Piceno, 59 anni, che era stato ministro degli interni dal 1955 in poi. Si era circondato di confidenti e di informatori. Un giorno, nel 1957, mi chiamò al Viminale e mi disse duramente «Lei, ieri, ha detto di me questo e questo». Risposi di sì; era una mia considerazione, senza intento polemico; se un intento polemico l’avesse avuto ‑ precisai ‑ non l’avrei pronunciata a voce alta vicino a uno dei giornalisti che sapevo erano incaricati di raccontar­gli tutto quello che si diceva in sala stampa a Montecitorio.

Fernando Tambroni era amico di Giovanni Gronchi, eletto presidente della repubblica dal 1955 con i voti del Pci e del Msi e nonostante l’opposizione della segreteria del suo partito, la Democrazia cristiana (segretario nazionale era Amintore Fanfani). Gronchi non aveva mai nascosto le sue inclinazioni di sinistra e qualche velleità di politica estera meno filoamericana e più vicina al mondo arabo. Il suo primo messaggio alla nazione come capo dello Stato aveva suscitato molto scalpore: nessun progresso ‑ aveva detto ‑ era possibile senza la partecipazione delle masse lavoratrici alla direzione del paese. Proprio questo lasciava sconcertati: un progetto politico che prevedeva un coinvolgimento della classe operaia, senza però un accordo col partito che in stragrande maggioranza la rappresentava. Lo strumento di quel progetto era Fernando Tambroni?

Incaricato di risolvere la crisi di governo, dopo le  dimissioni di Antonio Segni il 24 febbraio, Tambroni non aveva trattato (perché?) con i partiti tradizionalmente alleati (Pli, Pri e Psdi), aveva costituito un monocolore dc, si era presentato alla Camera il 2 aprile e, come era prevedibile, aveva avuto soltanto tre voti di maggioranza: 300 a favore (Dc, Msi e quattro ex monarchici) e 293 contrari (tutti gli altri). Tre ministri (Giulio Pastore, Giorgio Bo e Fiorentino Sullo) e due sottosegretari (Antonio Pecoraro e Nullo Biaggi) si erano dimessi e la stessa direzione della Dc aveva invitato Tambroni a andare al Quirinale per rimettere il suo incarico.

Oggi, col cambio di generazione e con l’oblio che cala inesorabile sui fatti della vita, non è facile capire; ma allora, a 15 anni soltanto dalla fine della guerra e con molte ferite ancora aperte, tanti uomini e donne che avevano  vissuto il fascismo e l’antifascismo, la Resistenza e il faticoso e cruento ritorno alla democrazia, non potevano accettare non dico un governo con i fascisti (come è stato per il governo Berlusconi del 1994), ma neanche un governo appoggiato dai fascisti. Quello che successe subito dopo peggiorò la situazione e la inasprì: Amintore Fanfani fu costretto a rinunziare alla formazione di un governo con l’appoggio del Psi per l’opposizione della Chiesa e della destra dc; Gronchi respinse le dimissioni di Tambroni; la Direzione democristiana (segretario Aldo Moro) lo invitò a rimanere in vita fino al 31 ottobre. Tambroni si presentò al Senato e il 29 aprile ebbe 128 voti favorevoli su una maggioranza prescritta di 120 (otto furono i voti dei neofascisti del Msi).

I guai grossi cominciarono quando il Movimento sociale fissò il suo con­gresso nazionale per il 2 luglio a Genova. L’Msi era un partito legittimamente rappresentato in Parlamento, possedeva tutti i diritti di celebrare il proprio congresso, e il governo non poteva negargli l’autorizzazione. Fu però un errore la scelta di Genova, città di larga base operaia, e della sede del congresso,  un teatro vicinissimo al sacrario dei caduti partigiani; fu un errore la decisione di affidarne la presidenza a Carlo Emanuele Basile, che di Genova era stato prefetto durante la Repubblica sociale e quindi considerato responsabile di arresti e di torture di partigiani. Furono errori che dettero facile argomento all’opposizione di sinistra e ai sindacati (compresa la Cisl) per scatenare una serie di manifestazioni, che da Genova si estesero presto in tutta Italia. Tambroni reagì con durezza e la polizia ebbe ordini di intervenire senza troppi complimenti: 30 feriti a Palermo il 27 giugno; 83 feriti a Genova il 30, molti deputati socialisti e comunisti feriti a Roma il 6 luglio durante una mani­festazione antifascista a Porta San Paolo e, subito dopo, incidenti gravi alla Ca­mera; cinque morti a Reggio Emilia il 7 luglio e feriti a Parma, Modena, Castellammare di Stabia e Napoli; il giorno dopo, quattro morti a Palermo e Catania.

Il 18 luglio sessantuno intellettuali cattolici (tra i quali Beniamino An­dreatta, Leopoldo Elia, Siro Lombardini, Pietro Scoppola) sottoscrissero un  appello contro la collaborazione con i neofascisti e contro le «tentazioni autoritarie». Tentazioni autoritarie di chi? Quattro giorni prima il presidente Tambroni aveva denunziato alla Camera quello che aveva chiamato un piano comunista di agitazioni voluto da Mosca e aveva avvertito che si sarebbe di­messo soltanto quando si fosse presentata una nuova maggioranza chiara.

Sulla terrazza dell’attico di via Platone quella notte fra il 18 e il 19 stava passando in attesa. Molte finestre delle case vicine cominciavano a chiudersi  e le luci a spengersi. L’ultima telefonata con Fausto Balzanetti dell’Ansa fu all’una meno un quarto: si era saputo, confidenzialmente, che Fernando Tambroni era stato convocato al Quirinale per la mattina seguente; sarebbe stato persuaso a dimettersi. Fanfani si alzò; «Possiamo andare a letto» disse.

La mattina dopo, il presidebte Tambroni si recò al Quirinale a mezzogior­no. La notizia delle dimissioni del governo venne però parecchie ore più tar­di, alle cinque del pomeriggio. Passarono ancora più di 48 ore prima che il presidente della repubblica assegnasse l’incarico di formare un nuovo gover­no. Alle 19.30 del 22 luglio si seppe chi era l’incaricato; era Amintore Fanfani. Fanfani si era dimesso da presidente del consiglio un anno e mezzo prima, il 26 gennaio del 1959. Il tentativo di avviare un processo di svolta nella politica del paese con un graduale inserimento del Partito socialista era falli­to sotto i colpi dei franchi tiratori, guidati dalla destra della Dc e da chi sta va dietro di essa, in Italia, oltre Tevere e oltre oceano. Il primo governo di centrosinistra era durato soltanto poco più di cinque mesi.

Il 31 gennaio Fanfani si dimise anche da segretario della Democrazia cristiana. Telefonai io la notizia all’Ansa e all’Ansa si accertarono bene che fossi proprio io e che non fossi diventato matto: in un paese come l’Italia do­ve nessuno si dimette, un uomo politico si era dimesso da presidente del con­siglio, da ministro degli esteri e ora anche da segretario del partito di maggio­ranza relativa. Era possibile? e, se era possibile, qual era il giuoco nascosto?

Non c’era nessun giuoco.  Lasciando lo studio del capo dello stato dopo a­vere presentato le dimissioni del governo, Fanfani aveva detto: «Una critica se­rena farà giustizia delle opposizioni sleali e delle irrisioni malevole». II suo era un dramma umano, ed era verosimile che non fosse capito dal mondo della politica e del giornalismo politico; era un mondo in cui non esisteva umanità.

Quella calda notte di luglio erano passati tre anni e mezzo da quando, nel gennaio del 1957, Ettore Bernabei mi aveva telefonato a Parigi (alla tre di notte; questa era l’ora in cui faceva certe telefonate, finito il suo lavoro di di­rettore del Popolo). Il segretario della Dc, mi disse, aveva avuto l’idea di un giornalista (attenzione: possibilmente non democristiano) che gli facesse da portavoce; e lui, Bernabei, aveva pensato a me.

Era una proposta lusinghiera; Fanfani era il primo politico italiano a ve­dere un rapporto con la stampa in termini simili a quelli che erano in uso ne­gli Stati Uniti e in Inghilterra: un portavoce che fosse una persona di fiducia, non un funzionario come il capo di un ufficio stampa. La proposta era lusin­ghiera, ma non mi aveva entusiasmato; e non solo perché mi piaceva il lavoro che stavo facendo, di corrispondente da Parigi del Giornale del mattino di Firenze (il giornale di cui ero stato redattore capo).

La proposta non mi aveva entusiasmato perché dell’uomo‑Fanfani mi a­veva sempre disturbato quel suo fare autoritario, quei suoi gesti bruschi, un po’ caporaleschi; non per nulla qualcuno lo chiamava il «ducetto». Lavorare accanto a lui, ogni giorno, dalla mattina alla sera? Grazie, meglio di no.

Il Fanfani che, da Parigi, andai a conoscere nella sua casa di via Trionfale, una modesta casa di condominio, vicina a quella di via Platone dove si sareb­be trasferito nel 1959, fu però una sorpresa; era un uomo completamente di­verso da quello che appariva in televisione e soprattutto di cui si parlava. Era cordiale, gioviale, alla buona, sorridente, spiritoso; e soprattutto, a differenza della maggior parte degli uomini politici, ascoltava. A ogni buon conto, ac­cettai a una condizione: non avrei avuto una stanza in piazza del Gesù, né sarei mai andato nella sede del suo partito; ci saremmo incontrati soltanto a casa sua, la mattina presto o nel primo pomeriggio.

Gli dissi anche che ero di estrazione liberale, un liberale di sinistra, postcrociano e postmarxiano; insomma, come si diceva già allora, all’americana, un liberal; e che quindi era piuttosto difficile che potessi votare per il suo par­tito. Questa fu la cosa che lo divertì di più. «Guardi» mi disse; «io le ho chie­sto se vuole lavorare con me; non quali sono le sue idee politiche». Anche in seguito la cosa lo divertiva. Ogni tanto diceva ai giornalisti: «Parlate con Ser­gio Lepri, il mio portavoce; di lui vi potete fidare; lui non vota per la Dc».

Dal gennaio del 1957 al luglio del 1958 fu un’esperienza indimenticabile. Imparai un sacco di cose, quasi tutte negative, ma importanti.

La prima fu una sensazione sconfortante: i partiti, nei quali noi giovani della generazione che aveva fatto la guerra e la Resistenza, avevamo visto le strutture portanti della democrazia, sembravano avviati verso un terribile processo di dissoluzione; invece di essere ancora portatori delle ideologie che per decenni avevano alimentato le speranze di milioni di uomini e di donne (socialismo, comunismo, socialdemocrazia, liberalsocialismo, liberali­smo), stavano diventando ‑ chi più, chi meno; chi prima, chi dopo ‑ mecca­nismi di potere o società di affari. Nelle tessere di partito non si vedevano più gloriose bandiere, ma solo personali tornaconti.

Almeno per me, uscito dalla bella esperienza lapiriana di Firenze, era sor­prendente che questo male oscuro colpisse anche un partito come la Demo­crazia cristiana, che si supponeva dovesse essere ancorato a valori non depe­ribili e storicamente transeunti come le idee dei filosofi e dei trascinatori di masse. Eppure, salvo rare eccezioni, come quella a cui mi trovavo vicino, tutti mi davano l’impressione, nel migliore dei casi, di volersi limitare a gesti­re l’esistente, difendendo il potere ottenuto con le elezioni del 18 aprile 1948 e solidamente costituito in tutti i meccanismi operativi del paese, dagli orga­ni centrali e periferici dello stato alla magistratura, dalla banche alla stampa e alla Rai, dagli enti pubblici alle amministrazioni locali.

C’era la guerra fredda; la pace nel mondo si affidava al cosiddetto equili­brio del terrore; la minaccia di uno sterminio nucleare non era completa­mente inventata; i pericoli di un sovvertimento degli ordinamenti democrati­ci erano volutamente esagerati, ma non del tutto inesistenti. La conservazio­ne del potere in mani sicure poteva avere qualche giustificazione. Ma in no­me di che cosa? di quale progetto? di quale progresso della società?

Il peggio era in periferia, specialmente nel Sud. Era in provincia, nei pic­coli centri urbani che l’adesione à un partito, qualsiasi partito, oppure a una corrente di partito dipendeva spesso non da convincimenti ideali, ma da lo­cali opportunità. Ogni tanto vedevo nascere o crescere improvvisamente, qua o là, una corrente che si richiamava a Fanfani soltanto perché tutti gli al­tri spazi erano occupati. Qualche volta capitava anche che chi la guidava fos­se un personaggio «chiacchierato». «Presidente» gli dicevo, «ha visto chi parla in suo nome?». «Ho visto» mi rispondeva sconsolato; «e che possiamo fare?». E aggiungeva: «Nelle altre correnti è ancora peggio».

In molti uomini politici democristiani ‑ anche i migliori, a cominciare da Alcide De Gasperi ‑ c’era una visione pessimistica della società che è tipica di un certo modo cattolico di vedere le cose: anche il male può condurre al bene; anche i cattivi (che ci sono, e sono tanti; e sono tanti che non se può fa­re a meno) possono essere utili per la buona causa.

Sarà così; ma quello che non riuscivo a capire era che questo o quell’alto dirigente democristiano (perfino quel sant’uomo di Aldo Moro) avesse fra i suoi stretti collaboratori anche qualche personaggio ‑ diciamo così ‑ di di­sinvolto comportamento. E se quelli erano così, perché Amintore Fanfani e­ra diverso? Intorno a noi non c’era nessuno di cui ci si dovesse, prima o do­po, vergognare. Di lui due volte presidente del Consiglio, nel 1954 e nel 1958‑59, si diceva che alla fine dell’incarico aveva lasciato i tradizionali fondi riservati così come li aveva trovati. In tutto il tempo che gli sono stato vicino chiesi dei soldi (chiesi, perché non ne avevo in dotazione) soltanto una volta (cinquantamila lire, se ricordo bene), per fare un regalo di nozze a Vittorio Gorresio, il notista della Stampa, che a 53 anni aveva deciso di sposarsi.

La Stampa, allora, non aveva una propria sede romana e Vittorio Gorre­sio lavorava, come tanti altri corrispondenti di quotidiani di altre città, anche importanti, nella sala stampa di palazzo Marignoli, in piazza San Silvestro. Andavo lì tutte le sere, tra le otto e le dieci. Buona parte del pomeriggio, in­vece, la passavo nella sala stampa di Montecitorio e nel cosiddetto TrAnsa­tlantico. Quanto tempo sprecato.

Uno dei primi giorni del mio nuovo incarico arrivo a Montecitorio e un collega di un quotidiano romano mi chiede se Fanfani si è incontrato col Tal dei Tali. Rispondo di no. Il giorno dopo il giornale scrive: «Il portavoce del­1’on. Fanfani ha detto che non c’è stato nessun incontro col Tal dei Tali. Questo significa che l’incontro c’è stato». Rimasi sconvolto; ma che modo di fare giornalismo. Per dire bianco dovevo dire nero e viceversa?

Quando Silvio Berlusconi si è lamentato durante i suoi tre mesi di gover­no nel 1994 e Romano Prodi si lamenta oggi ‑ magari non completamente a torto ‑ di avere ostile la stampa, né l’uno né l’altro hanno un’idea di come e­ra la stampa quotidiana negli anni Cinquanta. Se si escludono i giornali di opposizione (l’Unità, L’Avanti!, Paese sera), Il Popolo democristiano, la Voce repubblicana e la socialdemocratica Umanità, il Giornale del mattino di Fi­renze e, dalla sua nascita nel 1956, Il Giorno di Enrico Mattei, tutti gli altri giornali erano schierati a destra; o erano della Confindustria o erano pagati dalla Confindustria o avevano legami con la Confindustria o la pensavano come la Confindustria; si distaccavano un poco soltanto la Stampa di Torino e il Messaggero di Roma.

Anche la Democrazia cristiana era pagata dalla Confindustria e lo sforzo di Amintore Fanfani, da quando fu nominato segretario nel 1954, fu di dare al suo partito una struttura organizzativa e un’autonomia finanziaria che gli permettesse di non dipendere dal padronato e di non essere quindi costretto a seguirne la politica. E anche per questo l’uomo, con tutti i suoi difetti, pia­ceva a molti giovani che, anche se di diversa estrazione politico‑culturale, ve­devano in lui l’unico capace di spezzare un chiuso sistema di conservazione.

Il Giornale del mattino di Firenze, di cui ero stato redattore capo fino al 1956 sotto la direzione di Ettore Bernabei, aveva avuto redattori come Man­lio Cancogni, Carlo Cassola, Leonardo Pinzauti e, in terza pagina, collabo­ratori come Mario Luzi, Alfonso Gatto, Giorgio Luti, Giovanni Baldacci, E­doardo Strigelli, tutta la giovane intellettualità fiorentina.

Bernabei mi diceva: «A me non importa che il giornale vada in mano ai democristiani; lo devi fare in maniera che sia letto dagli altri». Che stagione meravigliosa: quante speranze, quanto impegno per fare dell’Italia, anche col nostro piccolo contributo, un paese più moderno, più civile, più giusto. Ber­nabei diceva: «Questo è un giornale che batte bandiera corsara». Sì; ma, tan­to per cominciare, la Confindustria ci fece togliere la maggior parte della pubblicità. Non era facile tirare avanti. Nel 1956 Ettore Bernabei andò a Ro­ma a dirigere il Popolo e io andai a Parigi.

Dal gennaio del 1957 al luglio del 1958 furono, vicino a Fanfani, diciotto mesi avvincenti; diciotto mesi di battaglia, in cui era perfino divertente com­battere con tanti nemici tutti intorno. I sei mesi passati al Viminale furono invece pesanti e amari; non mi piaceva essere salutato con uno sbattere di tacchi dai due agenti di guardia all’ingresso; non mi piaceva avere una stanza e un telefono interno a tre cifre (segno di importanza; quasi tutti avevano un telefono con quattro cifre); non mi piaceva ricevere ogni giorno autorevolis­simi postulanti (che il presidente mi aveva autorizzato a mandare, con garbo, tutti al diavolo).

L’uomo era sempre in tensione, e perciò scorbutico, di poche parole, spesso incapace di ascoltare. Ricordavo le nostre gradevoli conversazioni a casa sua; tutto, ora, era invece diverso. Perché? Il perché venne fuori proprio in quei difficili giorni: il comportamento autoritario che assumeva in certi casi era soltanto un modo per difendersi, una reazione, sicuramente incon­scia, a un fondamentale complesso di timidezza. Ecco la spiegazione; ecco che cosa c’era dentro quest’uomo che faceva paura a tanta gente.

La scoperta era utile per il mio lavoro. Dopo tutto, non avevo interessi personali da difendere né ambizioni politiche da coltivare. Potevo quindi dirgli quello che pensavo; e glielo dicevo, gli piacesse o no. Spesso non gli piaceva; ma quasi sempre l’accettava senza replicare (e senza mai darmi soddisfazione). Ave­va una dote, che è rara negli uomini politici e sulla quale facevo affidamento: la fantasia; cioè una capacità di sollevarsi al disopra delle cose contingenti; di guar­dare avanti e di vedere quello che gli altri ancora non vedevano; e di avere intui­zioni, e idee, che a nessuno venivano in testa: dai piani di edilizia popolare, le «case Fanfani», del 1947‑50, fino alle iniziative per la pace nel Vietnam.

Il supplizio durò fino al 26 gennaio del 1959. Poi cominciò un periodo stra­no e, oggi, difficilmente credibile. Subito dopo le triplici dimissioni Fanfani ave­va detto pubblicamente di voler lasciare la politica e di ritirarsi a vita privata, per studiare e per dipingere. Forse, almeno agli inizi, era convinto di poterlo fare.

Il Consiglio nazionale della DC era stato convocato per il 14 marzo in un grande edificio religioso, chiamato Domus Mariae, in via Aurelia. Dopo la seduta del mattino (il presidente Adone Zoli, avvocato, fiorentino, amico di Fanfani e di La Pira, aveva definito «vergognosa» l’azione di «franchi tirato­ri») si era in attesa della ripresa pomeridiana. Passava il tempo e i lavori non si riaprivano. Mancavano molti consiglieri, tutti quelli che nella corrente di Iniziativa democratica si erano manifestati contrari al capocorrente Fanfani e alla sua politica di centro sinistra; i più noti fra essi: Antonio Segni (forse la guida morale dell’ammutinamento), i ministri Emilio Colombo, Mario Fer­rari Aggradi, Mariano Rumor, Benigno Zaccagnini, Paolo Emilio Taviani, il vicepresidente della Camera Brunetto Bucciarelli Ducci, il presidente del gruppo dc a Montecitorio, Luigi Gui.

Nell’attesa giunse la notizia che i dissidenti si erano riuniti nel convento delle suore di santa Dorotea sul Gianicolo. Vittorio Orefice, capo della reda­zione politica dell’agenzia Italia, mi disse: «Per farci capire, bisognerà dar loro un nome; perché non li chiamiamo ‘dorotei’?». Voleva essere soltanto una battuta, tanto per passare il tempo, ma ci eravamo dimenticati che l’umorismo non è molto diffuso nell’ambiente politico. Il termine «doroteo» fu sùbito re­cepito dagli interessati, incautamente ignari che l’aggettivo avrebbe dato vita a un sostantivo e che il sostantivo, «doroteismo», sarebbe finito nei vocabolari per indicare una particolare concezione della politica, intesa al mantenimento del potere per il potere; insomma, un abito mentale (qualcuno diceva, scher­zando, «una categoria dello spirito»); estensibile, perciò, anche ad altri partiti.

Qualche tempo dopo, i giornalisti politici avrebbero dato il loro disinvol­to contributo a questi anomali sviluppi linguistici. Col graduale distacco di Aldo Moro dai dorotei sarebbero nati i neologismi di «morodorotei» e poi dì «morotei»; e, per indicare i seguaci di alcune sottocorrenti, facenti capo a Flaminio Piccoli, Emilio Colombo e Paolo Emilio Taviani, perfino, per qual­che tempo, i «piccolei», i «colombei» e i «tavianei».

A tarda sera i secessionisti arrivarono finalmente alla Domus Mariae con in tasca un colpo a sorpresa (o quasi): approvare le dimissioni di Amintore Fanfani (senza neppure il gesto garbato di respingerle formalmente, pure essendo sicuri che Fanfani le avrebbe confermate) e di proporre Aldo Moro come successore.

L’attico di via Platone, dove Fanfani si era trasferito l’anno prima, ha anche un superattico; qui teneva la biblioteca e i suoi quadri; quelli già dipinti e quelli che si avviava a dipingere. Verso le quattro del pomeriggio andavo a trovarlo e quasi sempre veniva anche Ettore Bernabei, che la nuova segreteria del suo partito non aveva avuto l’animo di rimuovere dalla direzione del Popolo.

Di Fanfani nessuno parlava più, come se non fosse mai esistito. Era la prima volta che un potente cadeva dall’altare nella polvere e nessuno pensava che potesse risorgere dopo la botta che aveva avuto. Era un ostracismo che colpiva anche me; molti mi avevano perfino tolto il saluto, come se fossi re­sponsabile o corresponsabile di chi sa quale malefatta.

Ero praticamente disoccupato. Antonio Segni, che era il nuovo presidente del consiglio, un giorno chiese che cosa ne era di me, e di sua iniziativa, bontà sua, segnalò il mio nome a Adolfo Arata, direttore generale della Rai. Arata ne parlò con Antonio Piccone Stella, direttore dell’allora unico giornale ra­dio. Piccone ogni tanto mi invitava a pranzo, parlavamo del più e del meno e tutto finiva li. La cosa mi divertiva come una interessante esperienza di vita e di ordinaria umanità. A Arata e a Piccone non dissi mai che se mi avessero of­ferto un posto alla Rai, avevo le mie buone ragioni per rispondere di no.

Mi divertiva anche stare a chiacchiera ogni giorno con Amintore Fanfani, ritornato uomo socievole e simpaticamente cordiale. Gli raccontavo quello che scrivevano i giornali (lui diceva che non li leggeva, ma non era vero); gli riassumevo qualche articolo importante della stampa straniera; gli riferivo dei lavori parlamentari. Lui mi parlava degli studi che stava facendo: la ricer­ca dei mestieri e delle professioni che si incontrano nell’Iliade e nell’Odissea. Era tornato alla sua vecchia passione di docente di storia economica.

E la base, la sua vecchia corrente? C’erano pure, specialmente in provin­cia, dei democristiani che avevano creduto in lui e alle linee della sua politica di rinnovamento; democristiani di base, che si ispiravano alle antiche tradi­zioni popolari del partito. Un giorno, verso la fine del 1959, uno di loro ven­ne a trovarmi, disperato. Era un giovane deputato di Scafati, Bernardo D’A­rezzo. Mi fece leggere un suo articolo su un giornaletto locale; era un appello accorato perché Fanfani uscisse dal silenzio e dal suo esilio.

L’articolo era stato letto soltanto da un centinaio di persone a Scafati e dintorni, ma il giorno dopo (questo era il mio mestiere) ne parlò tutta la stampa, non senza accenti di preoccupazione: c’era forse da temere un ritor­no di Fanfani? All’improvviso rumore giovò molto anche quel nome: Ber­nardo D’Arezzo. I «velinisti» di sala stampa non avevano mai sentito parlare di lui come deputato, non si presero la briga di consultare gli elenchi del Par­lamento e pensarono che fosse lo pseudonimo di un intimo di Fanfani; uno di Arezzo, appunto, aretino come lui. Forse l’ex portavoce, Sergio Lepri, che molti, chi sa perché, ritenevano fosse nato ad Arezzo, non a Firenze.

Quel Bernardo d’Arezzo fu una sorpresa anche per Fanfani. Lo conosce­va soltanto di nome, ma era una voce che veniva dalla provincia, interprete di un sentimento pulito, di una voglia di fare che aveva le sue radici in antiche tradizioni del partito e della Chiesa. Altro che stare a dipinger quadri o a contare quanti sono i ciabattini nell’Iliade e nell’Odissea.

Il 3 agosto del 1960 il Senato e la Camera dettero la fiducia al governo costi­tuito da Amintore Fanfani. Era un monocolore dc, ma concordato con i tradi­zíonali partiti alleati ‑ il Pli, il Pri e il Psdi ‑ e, per la prima volta, col Psi. L’astensione dei socialisti segnava l’inizio di una svolta nella storia del paese. Dalla cosiddetta «apertura a sinistra» nessuno poteva dire allora se sarebbe u­scito, o no, qualcosa di buono; ma, almeno, c’era finalmente un po’ di nuovo.

Il giorno dopo, Fanfani mi chiamò e mi chiese se volevo tornare con lui, ancora come suo portavoce. Lo ringraziai, ma risposi che preferivo tornare a fare il mio mestiere. «Ma un posto» mi chiese «lei ce l’ha?».

Quando racconto questa storia, qualcuno mi dice «Ma come. Fanfani ti tiene al suo fianco per quasi quattro anni e poi, quando gli dici che te ne vuoi andare, ti scarica senza neppure offrirti un posto di rispetto».

Ma è questo, rispondo, che è importante; è questo che rende Fanfani di­verso da parecchi altri; e anche di questo «Ma un posto lei ce l’ha?» gli sono grato ancora oggi.

E poi un posto ce l’avevo; e ce l’avevo da un anno. Nessuno lo sapeva, salvo i due che me lo avevano offerto, e in tempi non sospetti, cioè dopo le dimissioni di Fanfani da presidente del consiglio: Lodovico Riccardi e Ga­stone Fattori, presidente, l’uno, e consigliere delegato, l’altro, dell’agenzia Ansa. Fattori mi aveva assunto già una volta, nel 1945, alla Nazione del po­polo di Firenze, di cui era direttore amministrativo. Ci conoscevano, ed era­vamo amici, da un quarto di secolo.

Nel 1960 il posto di direttore dell’Ansa non era granché. Ma il bello era proprio questo: che c’era tanto da fare nell’agenzia, cominciando da zero o poco più.