La “Nazione del Popolo” di Firenze

Intervento alla presentazione – a Firenze, nell’Aula Magna dell’università, in piazza San Marco – del libro di Pier Luigi Ballini “La Nazione del popolo”; 8 marzo 2000


 

Non so se in questa aula così maestosa e dopo interventi così autorevoli mi è consentito di dare una semplice testimonianza. Mi sia salvacondotto il fatto di essermi laureato proprio qui, tanti anni fa, tanti che è meglio non contarli.In realtà io vorrei solo spiegare a chi ci ascolta, e soprattutto ai più giovani che si trovano in questa sala, e soprattutto a coloro – se ci sono; ci sono – che esercitano la professione giornalistica, vorrei spiegare, a integrazione di quello che è scritto in questo bel libro di Pier Luigi Ballini, vorrei spiegare la passione civile che spinse noi giovani a entrare nella “Nazione del popolo” e quindi nel giornalismo. Non era per un qualsiasi posto di lavoro, pure in un momento (la guerra non era ancora finita) in cui per i laureati non era facile trovare da lavorare. Molti di noi un posto di lavoro già ce l’avevano; eravamo quasi tutti insegnanti: Carlo Cassola, Manlio Cancogni (un insegnante molto severo; sui muri di molte case della città apparvero scritte – le prime in assoluto dopo quelle fasciste – che dicevano “cave cancognem”), Ettore Bernabei, assistente del professor Maggini alla facoltà di magistero, io stesso, al liceo Dante; più tardi anche Hombert Bianchi, insegnante di ruolo.

Perché, allora, pensammo di fare i giornalisti? Perché l’impegno morale che avevamo cercato di esprimere nell’insegnamento ci sembrava trovasse uno spazio più largo nel giornalismo; perché il giornalismo ci pareva un modo più forte di incidere sulla società, di rafforzare di contenuti quella libertà che, sì, era dovuta anche dalla lotta partigiana, ma era arrivata con i carri armati inglesi e americani, e ora dovevamo dimostrare di meritarcela quella libertà; e potevamo farlo contribuendo a far nascere e a fare solide di consenso le nuove istituzioni democratiche. Diventammo giornalisti anche perché vedevamo nel giornalismo un potere, sì, ma soltanto nella misura in cui sia il portavoce di quell’unico legittimo detentore del potere che è il cittadino.

Tanti anni di meno e tante speranze e tante illusioni di più; ma le esperienze di quegli anni sono state esperienze formative e quello che siamo oggi è nato allora, nell’opposizione al fascismo, nella conquista lunga e sofferta della libertà. E’ nato anche in quello strano singolare giornale, la “Nazione del popolo”, strano a cominciare dalla testata (con quell’accoppiamento – semanticamente discutibile – di “nazione” e di “popolo”); un giornale singolare, forse unico, nella direzione (cinque direttori e cinque vicedirettori; io sono entrato come vicedirettore, senza un centesimo); singolare nella composizione paritetica della redazione, tanti per ognuno dei cinque partiti del Comitato di liberazione. Qualcuno lo ha definito il primo caso di lottizzazione nella storia della repubblica; non è vero; era solo l’espressione di quello spirito di unità nazionale che aveva caratterizzato la Resistenza. E poi non c’era modo di lottizzare: in assenza, ancora, di elezioni (le prime, amministrative, furono nel marzo 1946), non si conosceva la consistenza e il peso delle varie formazioni politiche; tutte eguali, quindi.

Certo, grandi conflitti stavano maturando fra i partiti, specie dopo la fine della guerra nel maggio del 1945: le sanzioni contro i fascisti e l’epurazione, il futuro dei comitati di liberazione, di cui qualcuno voleva la sopravvivenza istituzionale, la questione di Trieste, rivendicata dal comunista Tito, l’elezione di un’assemblea costituente e soprattutto la scelta fra monarchia e repubblica. C’erano anche altri temi: la mezzadria, il voto alle donne, l’obbligatorietà del voto, l’abolizione dei prefetti. Erano temi che portavano ad accalorate discussioni nella pentacomposita direzione (che però si concludevano tutte con l’approvazione di un testo unitario); ma erano temi la cui conflittualità si attutiva nella nostra pluripartitica redazione, perché, pur essendo il giornale l’espressione di un organismo politico come il Comitato toscano di liberazione nazionale, noi eravamo giornalisti e quindi ritenevamo che il nostro dovere fosse di informare i lettori, non di persuaderli in un senso o nell’altro; di dovere raccontare i fatti, non di strumentalizzarli in funzione delle nostre idee; ci sentivamo osservatori e testimoni della realtà, non protagonisti. Incredibile, no? in un giornale politico… Incredibile – pensando a quello che spesso accade oggi – anche la rigorosa osservanza della norma tipicamente anglosassone dei fatti separati dalle opinioni. Le opinioni si manifestavano, ma nei periodici supplementi dedicati ai partiti.

La nostra redazione fu così un grande esempio di democrazia e di tolleranza; facilitato anche dal fatto – diciamocelo – che eravamo tutti di sinistra, anche i liberali, anche i democristiani. E si poteva non esserlo, in un paese distrutto dalla guerra, dove tutto era da ricostruire, e c’era tanta miseria in giro e tanta fame? La sinistra. Parlando di questo libro, il presidente della Camera Violante ha detto che la “Nazione del popolo” anticipò molti temi che hanno travagliato cinquant’anni di vita democratica; e alcuni dei quali – io aggiungo – hanno trovato soluzione solo alla fine del secolo; anche sulla sinistra; c’è voluta la caduta del muro per sapere che la sinistra non coincide necessariamente con una visione statalistica della politica e della società; la sinistra è il sentimento della giustizia per tutti, la cura per chi è più debole, per chi è indifeso, per chi ha bisogno. Come ha detto Norberto Bobbio. Sulla “Nazione del popolo” qualcuno lo disse allora.

Che si ragionasse a quel tempo in maniera diversa da come si è ragionato ieri e si ragiona anche oggi, trova conferma in quello che successe, nel gennaio del 1946, quando uscii dal partito liberale. Perché? Aveva ragione il mio maestro, Benedetto Croce: l’idea liberale, quando si identifica in un partito, non può non rinnegare se stessa, perché un partito fatalmente diventa difensore non degli interessi di tutti ma solo degli interessi di alcuni.

Me ne andai dal partito liberale in buona compagnia; c’era Eugenio Garin, Eugenio Montale, c’erano tanti docenti universitari; prima costituimmo un movimento radicale (un giorno lo dissi a Marco Pannella: che non si desse tante arie, che, dopo la fine della guerra, la parola radicale era nata a Firenze), che in seguito chiamammo  “sinistra liberale”, poi aderimmo alla concentrazione democratico-repubblicana, che, nelle elezioni del 1946, portò all’assemblea costituente due soli eletti, ma erano Ferruccio Parri e Ugo La Malfa). Quando me ne andai che cosa successe? Niente. Il partito liberale – Eugenio Artom, grande uomo e grande amico – non fece niente perché nella redazione paritetica della “Nazione del popolo” il mio posto fosse preso da un liberale non dissidente. Io ero uscito dal partito, non non avevo cambiato bandiera; io rimanevo liberale ossia partecipe di un’idea, l’idea liberale, che non è una ideologia ma una concezione etico-politica, che ha per fine la maggiore libertà dell’individuo e la maggiore libertà di tutti, anche la libertà dal bisogno; e che come tale – dicevamo – non può non albergare in ogni partito. Come è oggi; come volevasi dimostrare.

Anche in questo, insomma, fummo degli anticipatori; e anticipatori furono quelli di noi che – nel partito liberale, nel partito d’azione e nel partito socialista – discutevano di “terza via” come di un possibile sistema intermedio fra capitalismo e comunismo. E qualcuno concludeva con Benedetto Croce che la terza via è di non avere una via, ma di stabilire caso per caso, secondo la singola situazione storico politica in una società aperta, qual è la soluzione migliore per ottenere lo stesso scopo, quello di una maggiore libertà: ora con una maggiore o minore quota di libero mercato, ora con una maggiore o minore quota di intervento statale.

Oggi sentiamo parlare ancora di “terza via” e poi di “pensiero unico” e sentiamo dire “siamo tutti liberali”, confondendo disinvoltamente liberalismo e liberismo, come se la questione non fosse stata risolta, all’inizio del secolo scorso, con la storica polemica fra Benedetto Croce e Luigi Einaudi; e ripresa da qualcuno, a metà del secolo, sulla “Nazione del popolo”.

Così è la vita; e questa è la maledetta condanna dell’oblio. Grazie, professor Ballini, per aver dato una mano, col suo libro, a non disperdere completamente la memoria del tempo.