La mia Ansa. 1961-1990

  
  Le agenzie di stampa – mi capitava di dirlo spesso, mezzo secolo fa – sono come l’aria che si respira. Dell’aria ci accorgiamo che esiste solo quando manca o quando è inquinata. Così le agenzie di stampa o, come è meglio chiamarle, agenzie di informazione, posto che da tempo si rivolgono non solo alla stampa, scritta e parlata, ma a tutti. Quanti sapevano allora, e quanti sanno anche oggi, che cosa sono, a che cosa servono, come funzionano?

  Figuriamoci a quei tempi, dopo venti anni di fascismo, con una firma – Stefani – che si vedeva nei giornali sotto tutti i testi ufficiali del governo e del partito: la firma dell’agenzia che era l’organo ufficiale del regime fascista, di informazione e di propaganda. “La voce del Duce” dicevano di lei; “uno strumento di azione e di lotta”.

  La Stefani era morta tragicamente alla fine di aprile del 1945, con il suo ultimo direttore, Ernesto Daquanno, cadavere accanto al cadavere di Mussolini in piazza Loreto a Milano. Sulle sue ceneri era nata l’Ansa, ed era nata – a Roma, il 15 gennaio del 1945; la guerra non era ancora finita – con un viatico lusinghiero da parte delle potenze alleate. In Germania, a guerra finita, inglesi, americani, francesi e russi avrebbero distribuito, nelle rispettive zone di occupazione, una versione in tedesco della loro agenzia, la Reuter, l’Associated Press, la France Presse, la Tass. In Italia, invece, no. Prendeva vita, col consenso e la spinta degli inglesi e degli americani, un’agenzia italiana, società cooperativa di tutti i quotidiani italiani, già nati nell’Italia centrale e meridionale e poi, a guerra terminata, anche dell’Italia del nord. Anche questo valeva come riconoscimento del contributo che nel 1944 e nel 1945 l’Italia aveva dato, con i suoi soldati e i suoi partigiani, alla guerra contro la Germania nazista.

  All’inizio e per molti anni ancora l’Ansa fu una modesta impresa artigianale. In un paese ridotto in macerie dai bombardamenti aerei, senza linee telefoniche e con scarse comunicazioni ferroviarie il notiziario dell’agenzia aveva poche notizie, distribuite con i fattorini ai giornali di Roma e per radiotelegrafo ai pochi giornali del Sud e del Centro. Erano notizie romane – governo e ministeri – e un po’ di notizie dall’estero, generosamente fornite dall’Ap e dalla Reuter.

  All’Ansa io arrivai nel 1960, quindici anni dopo, ma le cose non erano molto cambiate. C’erano due redattori capo, due giornalisti bravi, uno per l’interno, Gianni Campana, e uno per gli esteri, Arrigo Accornero, e poi più niente; né un segretario di redazione, né un caposervizio. La redazione era un specie di pinocchiesco campo dei miracoli. C’era un redattore che aveva pubblicato un libro sul “Capitale” di Carlo Marx e c’era anche uno dei giornalisti che nel 1936 a Ginevra aveva fischiato il Negus dalla tribuna stampa dell’Assemblea della Società delle Nazioni. Una mattina di uno dei miei primi giorni, entrando in agenzia, sentii il portiere che diceva “Bongiorno, eccellenza” a uno che era entrato prima di me. “Eccellenza”? Sì, era un diplomatico che il Ministero degli esteri aveva cacciato in base a uno dei vari decreti di epurazione, chiedendo però all’Ansa di dargli uno stipendio. Era stato attivo console generale in una sede del vicino Est, ai tempi in cui il generale Robotti aveva emesso nel 1942 il ben noto proclama (“Qui si ammazza troppo poco”) ai soldati impegnati nella lotta antipartigiana slovena e croata .

  La situazione finanziaria dell’agenzia era pesante e precaria. Ad ogni fine di mese Gastone Fattori, consigliere delegato, sudava le sette camicie per avere i soldi per pagare gli stipendi; e gli stipendi erano terribilmente bassi, rispetto a quelli dei giornali. E’ per questo che non c’era una coda di aspiranti direttori davanti alla sede di via di Propaganda, la stessa sede della vecchia agenzia Stefani di Mussolini.

  Il posto di direttore responsabile dell’agenzia era infatti vacante dall’estate del 1958, quando l’allora direttore Angelo Magliano (un ottimo giornalista, che si era affermato nell’immediato dopoguerra nel primo quotidiano moderno apparso in Italia, il “Corriere lombardo” di Milano) era stato invitato a dimettersi dopo essersi presentato alle elezioni (senza successo) nella lista ligure del Partito liberale: una qualificazione politica che Lodovico Riccardi, presidente, e Gastone Fattori avevano ritenuto non conciliabile con la responsabilità di un’agenzia che per la sua struttura sociale deve essere al disopra dei partiti. La responsabilità legale fu data al redattore capo Vittorino Arcangeli, e la direzione nominalmente affidata a un Comitato direttivo, formato da Riccardi, da Fattori e da Leonardo Azzarita, presidente della Federazione editori di giornali (la Fieg) e come tale, per statuto, vicepresidente dell’agenzia.

  Gastone Fattori temeva da sempre che un giorno o l’altro qualcuno dall’alto gli avrebbe imposto come direttore qualche sprovveduto in cerca di una sistemazione anche a basso reddito. Io ero suo amico da un quarto di secolo, non avevo tessere di partito, mi dichiaravo liberale postcrociano e postmarxiano e, per di più, ero stato vicino ad Amintore Fanfani, dimessosi nel 1959 da presidente del consiglio e ritornato ora sulla cresta dell’onda. Quale soluzione migliore che affidare a lui la responsabilità di un’agenzia come l’Ansa? Non era mica sprovveduto il mio amico Gastone.

  Qualche tempo dopo la mia nomina da parte del Consiglio di amministrazione mi capitò di passare davanti al portone centrale del palazzo di Montecitorio. Sulla soglia stava impettito il guardiaportone, alto e grosso. Mi conosceva; per parecchio tempo ero passato di lì ogni giorno per andare in sala stampa. “Dotto’ “mi disse “com’è che qui non la vediamo più?”. Mi seccò dirgli che ero stato nominato direttore dell’Ansa. Mi limitai a dire: “Ora lavoro all’Ansa”. L’omone rimase interdetto. Poi, dopo alcuni secondi, mi disse, con l’aria di farmi coraggio, “Dotto’, quanno c’è la salute…”. Questa era la considerazione che allora si aveva dell’Ansa.

  Perché, allora, accettai io quel posto così poco invidiabile? Per più ragioni. La prima, che ero disoccupato; ma non era questa la ragione più importante. Dal 1957 al 1959 ero stato il portavoce di Amintore Fanfani, prima segretario della Dc e poi presidente del consiglio e ministro degli esteri; fino al febbraio del 1959, quando si dimise da tutti gli incarichi. Fanfani aveva voluto come portavoce un giornalista non democristiano. Ai giornalisti che gli facevano domande diceva spesso “Rivolgetevi a Lepri. Di lui potete fidarvi. Non vota per il mio partito”.

  Nel luglio del 1960 Fanfani riebbe l’incarico di guidare il governo e mi chiese se volevo tornare con lui con le stesse funzioni di un anno prima. Gli risposi di no. Io ero felice degli anni passati al suo fianco. Era stata un’esperienza ricca, umanamente appassionante, professionalmente preziosa, anche se tanto amara per tutte le ingiustizie e le menzogne che avevo visto nascere e svilupparsi intorno al progetto di centrosinistra di cui mi sentivo in certo modo partecipe. Ma – era da tempo che ci pensavo – per quella carica era necessaria anche una passione politica che non possedevo. “La ringrazio” dissi; “ma preferirei tornare a fare il mio mestiere”. Fanfani con l’aria sorniona che assumeva in certi casi: “Ma un posto” mi chiese “lei ce l’ha?”.

  Un posto ce l’avevo (almeno sulla parola) da un anno: appunto la direzione dell’Ansa. Nessuno lo sapeva, salvo i due che me lo avevano offerto, e in tempi non sospetti, cioè dopo le dimissioni di Fanfani da presidente del consiglio: il presidente Riccardi e il consigliere delegato Fattori. Gastone Fattori mi aveva assunto già una volta a Firenze, nel 1945, al quoidiano che era l’organo del Comitato toscano di liberazione, la “Nazione del popolo”, di cui era direttore amministrativo.

  Più importanti erano le altre ragioni. Io ero arrivato al giornalismo dirigendo a Firenze un giornale clandestino durante la Resistenza, 1943-1944; era “l’Opinione”, organo del Partito liberale. Anni duri, in un paese distrutto nelle case, nei beni, nelle persone. Anni duri, ma anche belli, perché pieni di progetti e di attese. La gente vedeva nella stampa, finalmente libera, il segno concreto della democrazia. Voleva sapere quanti etti di farina o quanti decilitri di olio la carta annonaria del razionamento avrebbe concesso in settimana; quando sarebbe tornata l’acqua, la luce, il gas, i tram e i treni; ma voleva anche conoscere i programmi proposti dai nuovi partiti politici, fino allora ignoti; e voleva conoscere le ideologie di cui soltanto i vecchi sapevano parlare. Socialismo, liberalismo, comunismo creavano un immaginario collettivo carico di meravigliose palingenesi.

  Nelle redazioni dei giornali c’era una maggioranza di giovani. Molti, come me, provenivano dalla stampa clandestina; la maggior parte, e anch’io, aveva dietro di sé qualche anno di insegnamento, tutti vedevano nel giornalismo un modo per contribuire più validamente al processo di ricostruzione morale e materiale del paese; un mezzo per consolidare gli istituti democratici appena riconquistati e per garantire il pluralismo in cui cominciava ad esprimersi il neonato sistema politico. Il giornalismo come servizio. Di più: il giornalismo come passione civile.

  L’Ansa mi sembrò essere lo strumento adatto per interpretare un giornalismo così inteso: un mezzo per dare ai cittadini le informazioni che li aiutino a governare meglio la propria giornata e a migliorare la qualità della vita e, insieme, ad allargare il proprio patrimonio di conoscenze. Chi più sa, più è libero. Insomma il giornalismo come contributo alla crescita civile della società.

  La seconda ragione completava la prima. Mi piaceva la struttura sociale dell’agenzia. Il suo essere non un’impresa pubblica ma un’impresa privata, una società cooperativa fra giornali quotidiani di diversa tendenza (oltretutto in anni in cui la contrapposizione fra destra e sinistra era ben più rilevante di oggi) la faceva strumento responsabile di una informazione completa e imparziale. Dirigere l’Ansa non poneva dubbi o incertezze. Ai redattori dicevo “Non conosco le sue idee politiche e non le voglio conoscere. Soprattutto non le voglio conoscere dalle notizie che scrive. Quelle notizie devono potere essere pubblicate così come sono dal ‘Popolo’ democristiano e dall’ ‘Unità’ comunista’. Fu così che per molti anni il capo della redazione diplomatica fu Pio Mastrobuoni (poi, lasciata l’Ansa, capo dell’ufficio stampa di Giulio Andreotti presidente del consiglio); e Aldo Padovani capo della redazione politico-parlamentare. Il primo era comunista, il secondo votava a destra; nessuno si accorse delle loro idee politiche, perché se le tenevano per sé e non le trasferivano nel loro lavoro per l’agenzia. Del resto io stesso non sapevo (e ho lavorato trent’anni con lui) per chi votava il mio vice Arrigo Accornero. Dell’altro vice e mio successore, Bruno Caselli, suppongo che votasse socialista; ma le nostre personali simpatie politiche non erano materia neppure di conversazione.

  Nei modi di dirigere l’Ansa fui confortato dall’appoggio non solo di Riccardi e di Fattori, ma, per mia fortuna, anche dell’intero Consiglio di amministrazione e specialmente di Amerigo Terenzi (amministratore delegato dell'”Unità”, lo stesso che sedici anni prima era stato uno dei sei fondatori dell’agenzia) e così mi misi al lavoro. I miei obiettivi furono tre.

  Il primo obiettivo era di “disufficializzare” l’agenzia. Le convenzioni finanziarie dell’Ansa con lo Stato erano allora rilevanti. Non erano col governo ma con lo Stato e quindi non comportavano necessariamente che l’agenzia dovesse o potesse essere classificata come “ufficiale” e neppure come agenzia “ufficiosa”. Ma questa era proprio l’Ansa che trovai: un’agenzia “ufficiale” o, per lo meno, “ufficiosa”.

  Un giorno, alla fine del 1961, mi telefonò Paolo Emilio Taviani, ministro degli interni. Si era dispiaciuto di una notizia trasmessa dall’agenzia e contraria – diceva – agli interessi del governo. Cercai di spiegare che l’Ansa era fatta proprio per dare notizie, tutte le notizie giornalisticamente importanti, e quella era una notizia di rilievo. Ma l’Ansa, disse, è un’agenzia ufficiale. No, ministro, l’Ansa è un’impresa privata. Ma l’Ansa, insisté, è un’agenzia ufficiosa. No, ministro, non è e non può essere neppure ufficiosa perché è una cooperativa di quotidiani, fra i quali ci sono anche quelli dell’opposizione. Ma l’Ansa, continuò, prende molti soldi dallo Stato.

  Mi aspettavo la battuta. Il ministro aveva ragione: l’Ansa aveva grossi contratti con lo Stato. Vero è che i testi dei contratti erano chiari: non si trattava di sovvenzioni o di contributi, bensì di pagamento di servizi, un’ampia serie di prestazioni di cui l’agenzia doveva dare, ad ogni fine d’anno, una accurata documentazione. Ma, anche se puliti, i soldi erano parecchi e in quegli anni anche per colpa dei giornali soci, che pagavano un canone molto basso rappresentavano il 70 per cento degli introiti. Questo non poteva né doveva essere una buona ragione per pretendere una più o meno ufficiosa benevolenza dell’agenzia, ma, a ogni buon conto, fu da allora che feci di tutto per allargare il mercato dell’utenza, in maniera da ridurre gradualmente la quota, e il peso, del pubblico denaro. Già alla fine degli anni Ottanta la percentuale era scesa al 38 per cento. Quando l’ho lasciata, all’inizio del 1990, era ancora meno.

  La vittoria l’ebbi qualche tempo dopo, nel gennaio del 1962. Il centralinista mi dice “La vogliono da piazza del Gesù” e mi passa la telefonata. “Sono Aldo Moro”. Anche il segretario politico della Dc stava per lamentarsi di qualche notizia trasmessa? e, magari, si sarebbe richiamato anche lui a quella maledetta faccenda dei soldi? No. Aldo Moro voleva parlare non di una notizia trasmessa, ma di una notizia da trasmettere. “Ho saputo” disse “che l’on. Malagodi ha diffuso il testo di un suo discorso. L’Ansa lo trasmetterà?”.

  Giovanni Malagodi era il segretario del partito liberale, ma, con il Pci messosi fuori giuoco con la sua stessa politica, era anche il capo dell’unica effettiva opposizione, potente non tanto per il numero dei parlamentari, quanto per la forza degli appoggi esterni, dalla Confindustria a una parte della Chiesa cattolica e a qualche settore degli Stati Uniti; e in quel giorno aveva pronunciato un discorso di eccezionale violenza contro l’iniziato avvio del centrosinistra.

  Oggi a nessuno verrebbe in testa di soffocare la voce dell’opposizione sull’agenzia che alla stampa fornisce l’informazione di base. A quel tempo sì. Perciò non mi stupii della domanda; mi stupii del seguito della telefonata. Alla mia risposta che l’intervento di Malagodi era una notizia importante, la più importante di quei giorni e che quindi era impossibile che l’Ansa la ignorasse seguì un lungo silenzio. Dieci, quindici secondi? Credevo addirittura che se ne fosse andato. Poi: “Mi rendo conto” disse Aldo Moro; “grazie; buonasera”.

  Almeno lui, evidentemente, aveva capito il posto dell’informazione in una società pluralistica e la funzione dell’Ansa nella dialettica di questa società. La conferma che le cose stavano cambiando la ebbi qualche tempo dopo. Mi telefona Corrado Guerzoni, capo dell’ufficio stampa di Aldo Moro, che aveva costituito il primo governo organico di centrosinistra. “Al presidente” mi dice garbatamente “farebbe sicuramente piacere che non si diffondesse la notizia dell’interrogazione presentata alla Camera da Oscar Luigi Scalfaro (a quel tempo deputato della Dc) sulla nomina di Sereno Freato a consigliere dell’Enel”. Tangentopoli era di là da venire, ma la notizia (soprattutto per la figura dell’interrogante e per quello che voleva significare) era una notizia che non si poteva passare sotto silenzio; Sereno Freato era il capo della segreteria del presidente del consiglio.

  Corrado Guerzoni non insisté. L’Ansa trasmise la notizia, ma il giorno seguente solo due quotidiani la pubblicarono, la “Nazione” di Firenze (diretta da Enrico Mattei, non certo amico di Aldo Moro e del centrosinistra), e il fascista “Secolo d’Italia”. Corrado Guerzoni mi telefonò ancora: “Capisco”, e la sua voce era un po’ amaramente ironica ma rassegnata; “Ieri l’Ansa non poteva comportarsi diversamente; però sono stato costretto a telefonare a tutti i quotidiani. Solo uno non mi ha dato retta; quanto all’altro, il ‘Secolo’, la spiegazione è che, dopo cinquantadue telefonate, non ho fatto, per mancanza di voce, la cinquantatreesima”.

  Corrado Guerzoni mi telefonò una terza volta nell’ottobre del 1964. “Il ministro degli interni (era sempre Paolo Emilio Taviani) ha detto al presidente Moro che l’Ansa ha trasmesso oggi una notizia gravissima, che fa il giuoco dei comunisti. Tu sai che notizia sia?”. Non lo sapevo, ma ebbi un’intuizione: “Nel medagliere dei Giuochi olimpici di Tokyo l’Unione Sovietica è oggi passata al primo posto, superando gli Stati Uniti. Sarà questa la notizia che fa il giuoco dei comunisti?”. “Sicuramente è questa” disse Corrado Guerzoni, e si mise a ridere. Ancora oggi gli sono grato di questa risata; gliene sono grato anche come cittadino. Era il segno di un cambiamento definitivo nel modo di concepire l’informazione o, per lo meno, le funzioni e le responsabilità di un’agenzia che ha il compito di fornire a tutta la stampa l’informazione di base.

  Anni dopo, il direttore di un grandissimo quotidiano nazionale, dimessosi per questioni di P2, scrisse un libro in cui si scopriva che gran parte della sua giornata la consumava al telefono a colloquio con i potenti. Le telefonate con i potenti il direttore dell’Ansa le può contare, in trent’anni, sulle dita delle due mani; eppure l’agenzia trasmetteva ogni giorno un notiziario che dalle 120 mila parole degli anni Sessanta aumentò gradualmente fino a superare le 200 mila parole alla fine degli anni Ottanta: un mare di notizie (il 29-30 per cento delle quali di politica interna); tante notizie da riempire trenta-quaranta pagine di giornale, 3/400 fatti contro i cento seguìti mediamente, allora, da un quotidiano nazionale.

  Il mio secondo obiettivo fu di realizzare più ampiamente lo spirito cooperativo che aveva presieduto alla fondazione dell’agenzia e caratterizzava la sua struttura sociale. L’Ansa era l’agenzia di tutti i giornali, grandi e piccoli, e tutti dovevano essere messi egualmente in condizione di avere un notiziario non solo imparziale ma anche completo. Da principio ci fu qualche riserva da parte di alcuni grossi quotidiani nazionali, che non vedevano di buon occhio che quelli di provincia avessero le stesse notizie di cui essi disponevano; ma poi tutto andò liscio. Oltretutto lo statuto dell’agenzia stabiliva che per i giornali il canone di abbonamento era proporzionale alla loro tiratura; per lo stesso prodotto i piccoli pagavano dieci, i grandi cento. Furono così completati gli uffici regionali in Italia (io ne avevo trovati soltanto sette); furono aumentati quelli all’estero (quando arrivai c’erano solo a Parigi, Londra, Bonn e New York), molti con giornalisti italiani, altri con giornalisti locali. In pochi anni l’informazione Afp, Reuters e Upi, che con oltre il 60 per cento rappresentava la maggioranza dell’informazione globale dall’estero, scese al 22 per cento nel 1980; poi al 4-5 per cento.

  Naturalmente la completezza dipendeva anche dallo spazio disponibile. Alla prima rete telescrivente se ne aggiunse una seconda, nel 1961, e il notiziario generale per l’Italia raggiunse le centomila parole al giorno, un “tetto” pertinente a un’agenzia che non può fare scelte di contenuti o riassumerli eccessivamente. Nel 1967 arrivò anche la terza rete telescrivente, che – rimasto invariato il “tetto” – permise una trasmissione più rapida del materiale.

  Il terzo obiettivo era il più ambizioso: tentare altri mercati oltre a quello dei quotidiani e assicurare all’agenzia introiti che non fossero soltanto quelli dei soci o dello Stato. Ma per questo obiettivo le idee non erano sufficienti; occorrevano altre forze e altre strutture. E’ un discorso, perciò, che si cominciò a fare più tardi, negli anni Settanta. Per il momento c’era un altro problema da risolvere: l’informazione degli organi dello Stato. A farlo esplodere (e a mostrare l’importanza di un’agenzia come l’Ansa al di là delle sue finalità istituzionali) fu un fatto eccezionale: l’alluvione dell’Arno a Firenze il 4 novembre del 1966.

  L’Arno cominciò a straripare qualche minuto prima delle cinque. Per tutta la notte Dante Nocentini, il capo della sede fiorentina dell’Ansa, era andato su e giù per i lungarni guardando l’acqua che continuava a salire. Poi si fermò in piazza Cavalleggeri. Fu là, proprio davanti al brutto edificio della Biblioteca nazionale, che l’Arno prese a tracimare. Il buio era ancora fitto. Nocentini si mise a correre verso piazza Santa Croce, inseguito dall’acqua che avanzava in Corso dei Tintori e, per il momento, si spandeva lenta sul selciato. La sede dell’agenzia era allora in via dei Pucci, a duecento metri da piazza del Duomo. Salì trafelato le scale (non c’era l’ascensore) e dette la notizia a Roma.

  Era il 4 novembre del 1966, un giorno festivo, a quel tempo. Era chiamato il “giorno della vittoria”, anniversario della vittoria dell’Italia contro l’Austria e della fine della prima guerra mondiale, il 4 novembre 1918. A Roma l’Ansa funzionava regolarmente, ma tutti gli uffici pubblici erano chiusi; chiusi i ministeri, chiusa la presidenza del consiglio a Palazzo Chigi, chiuso anche il ministero degli interni. Al Viminale non c’era neppure un funzionario di servizio e anche qui le telescriventi dell’Ansa erano ferme; venivano spente la domenica e negli altri giorni di festa. Era il 1966, un anno della seconda metà del secolo ventesimo, ma nessuno, nel governo e nel Parlamento, aveva pensato che le responsabilità dei cosiddetti pubblici poteri non si esercitano soltanto nei giorni feriali.

  In Toscana pioveva da diciotto ore senza interruzione e tutti i fiumi e i torrenti erano in piena dalla sera prima. Alle sei del mattino le acque dell’Arno a Firenze avevano già inondato le zone più basse della città: i quartieri di San Niccolò e di Santa Croce, la periferia di Bellariva. Alcuni avevano fatto a tempo a scappare di casa, molti erano saliti nei piani più alti, chiedendo ospitalità agli altri inquilini. Via via la corrente elettrica venne a mancare dappertutto. Alle nove l’Arno superò le spallette anche tra il ponte alle Grazie e il Ponte Vecchio e tra il Ponte Vecchio e il ponte a Santa Trìnita; in qualche puntò le fece crollare. L’acqua cominciava a invadere il centro della città, da piazza della Signoria a piazza del Duomo.

  L’acqua diventava sempre più veloce e vorticosa e si alzava di livello. Era un’acqua scura, limacciosa e a un certo momento cominciò a mostrare larghe chiazze nere; era il gasolio che usciva dalle cisterne sventrate degli impianti di riscaldamento. Alle 9 e mezzo l’acqua aveva superato, anche nelle strade e nelle piazze del centro, i piani terra delle case e continuava a salire e a diventare più impetuosa. Dalle finestre la gente vedeva passare mobili, masserizie, attrezzi, qualche cavallo o gatto morto o cane; poi anche automobili, che andavano a schiantarsi contro le pareti dei palazzi e i pali dei segnali stradali, divellendoli.

  Alle 9.45 la corrente elettrica mancava in quasi tutta la città e così il telefono. Nella sede dell’Ansa le telescriventi non funzionavano più e i redattori riuscirono a scappare appena in tempo, prima che l’acqua entrasse dentro i palazzi di via dei Pucci e rendesse impraticabile la strada. Dante Nocentini ebbe un’idea: andare in piazza San Marco e chiedere assistenza al Comando militare della regione. In quella piazza l’acqua non era ancora arrivata; vi arrivò più tardi, ma solo fino all’aiuola centrale e al monumento a Manfredo Fanti; lì, infatti, il livello della città comincia a salire. Dal Comando l’Ansa riprese a trasmettere a Roma attraverso un ponte radio militare. Erano le dieci.

  Il governo non c’era o per lo meno non c’era nei palazzi di governo. Era, un giorno festivo. Per ore e ore noi dell’Ansa cercammo di avvertire qualcuno delle istituzioni attraverso il centralino della presidenza del consiglio (un telefonista c’era), le prefetture e anche direttamente; ma senza successo, per tutta la mattinata. Alle 10, a Roma, il presidente della repubblica Giuseppe Saragat si recò a deporre una corona alla tomba del milite ignoto; di Firenze non sapeva niente. Alle 10, a Redipuglia, il presidente del consiglio Aldo Moro si accingeva a tributare il rituale omaggio al sacrario dove sono sepolte più di centomila salme di caduti della prima guerra mondiale. Non sapeva niente neppure lui. L’agenzia continuava a trasmettere notizie, ma a mezzogiorno il presidente della repubblica, come se niente fosse, riceveva al Quirinale il comitato “Premio medaglie d’oro” e il presidente Moro pronunciava a Gorizia un discorso per l’inaugurazione del monumento al “fante d’Italia”.

  Solo alle 13.45 il Capo dello stato fu informato (da me, per telefono, personalmente, visto che non l’aveva saputo altrimenti) di quello che era successo e stava succedendo a Firenze; ma forse non si rese ben conto della tragedia. Un comunicato del Quirinale invitò infatti i prefetti a “farsi interpreti, presso le popolazioni, della solidarietà” del presidente. Che cosa poteva fare il prefetto di Firenze, prigioniero – senza telefono e senza corrente elettrica – nel palazzo Medici-Riccardi circondato da due metri di acqua vorticosa? Alle 16.45 si fece vivo anche il ministro degli interni (era Paolo Emilio Taviani), ma solo perché finalmente io ero riuscito a trovarlo.

  Le acque cominciarono a decrescere in serata. Alle 21.42 l’Ansa trasmise una lunga notizia di riepilogo: “Firenze è un immenso lago immerso nelle tenebre, un lago di acque limacciose che si estendono per oltre sei chilometri quadrati nei quartieri a nord dell’Arno e in un’area imprecisata nei quartieri a sud del fiume. L’inondazione la più grossa dal 1270 interessa due terzi della città. Manca l’acqua, manca il gas, l’energia elettrica è erogata soltanto in alcune zone, il telefono non funziona. La situazione è drammatica nelle case di abitazione e negli ospedali. Anche nelle zone risparmiate dall’inondazione scarseggiano i rifornimenti alimentari; nelle altre è impossibile l’approvvigionamento”.

  Il caso di Firenze servì di lezione. Presidenza della repubblica, presidenza del consiglio, ministero degli interni, comandi dei Carabinieri e della Guardia di finanza di allora si attrezzarono per evenienze del genere. Nacque la Protezione civile. Sarebbero poi nate anche le “unità di crisi” e perfino le “situation rooms”. Le telescriventi dell’Ansa vennero fornite a tutti gli organi importanti e non vennero più spente, né di giorno né di notte e neppure nei giorni delle feste comandate.

  Ci fu solo, anni dopo, un episodio un po’ comico in uno scenario tragico. Il terremoto che sconvolse la Campania e la Basilicata la sera del 23 novembre del 1980 (più di seimila morti e diecimila feriti, trecentomila senzatetto) è stato il terremoto più grave dopo quello di Messina e Reggio Calabria del dicembre 1908 (150 mila morti). La prima scossa fu alle 19 35′ 22″; a Roma fu avvertita poco dopo e l’Ansa ne dette notizia alle 19.40. Alle 20.00 localizzò l’epicentro nell’Italia del sud. Alle 23.28 indicò l’epicentro (40.7 gradi di latitudine e 15.2 di longitudine, cioè a circa dieci chilometri a est di Eboli) e l’intensità delle scosse (del nono decimo grado della scala Mercalli la prima scossa, tra il sesto e il settimo grado le scosse delle 20.05, 20.08, 20.10, 20.38, 21.33). Fino a quel momento l’agenzia aveva trasmesso, in meno di quattro ore, 77 notizie e, complessivamente, più di settemila parole.

  Una diecina di giorni più tardi ci fu un dibattito alla Camera sui ritardi dei soccorsi e l’allora presidente del gruppo democristiano della Camera, Gerardo Bianco, convinto che la causa fosse in una ritardata informazione dal centro, mi telefonò per conoscerne i motivi. Non c’erano stati ritardi o carenze di informazioni da parte dell’Ansa dissi e, questa volta, neppure ritardi o carenze di intervento degli organi di governo. Come dimostravano alcune notizie trasmesse, la Protezione civile si era sùbito messa in allerta; le telescriventi dell’Ansa erano aperte e avevano funzionato.

  Dovrò allora cambiare il testo del mio discorso alla Camera, mi disse Gerardo Bianco; e non capii bene se era contento oppure no. Forse no. Gerardo Bianco è nato in provincia di Avellino, e a Avellino si erano manifestati i maggiori ritardi, fra i tanti ritardi che si ebbero negli interventi degli organi locali dello Stato in tutte le province colpite. Di lì a poco il prefetto di Avellino fu rimosso dall’incarico: non si era reso conto, sul momento, della gravità del terremoto. Perché? Lo seppi, qualche tempo dopo, dal provveditore generale dello Stato, venuto in visita in agenzia: nella prefettura di Avellino si erano guastate le telescriventi dell’Ansa, ne era stata richiesta la sostituzione, ma il Provveditorato non aveva ancora provveduto. Ecco perché il prefetto non sapeva niente.

  Un capro espiatorio più importante si era avuto nel gennaio dell’anno prima, quando Giovanni Ventura, imputato per la strage di piazza Fontana a Milano, fuggì da Catanzaro, dove era in soggiorno obbligato, e riparò in Argentina. Il ministro degli interni e il capo della polizia lo seppero dall’Ansa. Il capo della polizia, che era Giuseppe Parlato, fu destituito. Ingiustamente. In alcuni casi, un’agenzia di informazioni di certe dimensioni come l’Ansa è ovvio che arrivi prima degli organi dello Stato; e questo non deve essere motivo di presunzione per l’agenzia né di disappunto per gli organi dello Stato. Un’agenzia di informazioni che si rispetti ha, nel proprio paese e all’estero, una rete di fonti come nessun altro può avere e un sistema di trasmissioni velocissimo; è ovvio che spesso abbia informazioni che altri non hanno o le abbia prima degli altri.

  Così andavano le cose, ma una svolta importante ci fu negli anni Settanta. Dopo Francesco Malgeri, al quale si deve la bella sede dell’Ansa nel seicentesco palazzo della Dataria (finalmente si lasciò via di Propaganda, il cui nome mi aveva sempre dato noia), alla presidenza dell’agenzia fu chiamato Gianni Granzotto e direttore generale fu nominato Paolo de Palma. Amico carissimo il primo lo era da anni; amico carissimo il secondo lo diventò in breve. E’ una cosa, questa, da segnalare. In quasi tutte le testate giornalistiche i rapporti fra il responsabile della gestione finanziaria dell’impresa e il direttore responsabile della gestione giornalistica sono stati e sono spesso difficili. Qualche anno fa Henri Pigeat, presidente-direttore generale dell’agenzia francese Afp dal 1979 al 1986 e poi presidente dell’ITMedia Consulting, mi chiese consigli per uno studio che stava facendo sullo statuto delle aziende giornalistiche: come si possono codificare questi rapporti fra i due responsabili in modo da evitare conflitti? Avevamo avuto molte occasioni di incontri e di conversazioni, Pigeat conosceva l’ottimo clima fra me e de Palma; per questo voleva sapere in che maniera all’Ansa tutto filasse bene fra me e lui. Dopo molti scambi di idee concludemmo che non c’era niente da fissare per iscritto. Il problema è solo di stima e di reciproco rispetto. Meglio, se su questo nasce anche l’amicizia, così come nacque fra noi ed è rimasta, anche dopo l’Ansa, finché Paolo non se ne è andato.

Il corpo redazionale era intanto diventato qualcosa di serio. L’Ansa era una scuola efficiente. Non si assumevano giornalisti già fatti; ma i giovani assunti come praticanti si facevano presto professionisti avveduti e capaci. Anche donne; l’Ansa era all’avanguardia nella presenza femminile nelle varie redazioni. Il guaio era che ogni tanto qualche giornalista bravo (o brava) se ne andava in un quotidiano importante, dove c’era il piacere della firma e uno stipendio più alto. A quei tempi non erano ancora nate le scuole di giornalismo e molti quotidiani vedevano nell’Ansa un mercato dove trovare professionisti in gamba. C’era anche qualche padre importante dalla vista lunga. Un giorno al presidente Riccardi si presentò un altissimo funzionario della Direzione generale dell’informazione. Mio figlio, disse, ha già un posto assicurato al “Corriere della sera”, ma ce lo voglio mandare quando sarà un giornalista esperto. Voi me lo tenete due anni e poi lui se ne va”. Il presidente disse di sì ed io che potevo fare? Feci finta di essere contento. Il giovanotto in realtà aveva doti; oggi è direttore di un quotidiano.

Quanti se ne sono andati così. Faccio il nome di quelli di cui mi ricordo e chiedo scusa a tutti gli altri: Antonio Padellaro, Dino Pesole, Enrico Romagna Manoja, Dino Basili, Piero Benetazzo, Vanna Vannuccini, Giuseppe Canessa, Giuseppe Fedi, Giancarlo Perna, Maurizio Andriolo, Mauro Lucentini, Giuliano Ferreri, Sergio Borsi, Gianfranco Svidercoschi, Paolo Glisenti, Carlo Scarsini, Enrico Francot, Gian Giacomo Foà. Qualche anno prima di lasciare l’agenzia, nel 1885, li contai; erano ottantadue.

C’era un vantaggio: le redazioni erano piene di giovani e in quegli anni difficili da un lato, appassionanti dall’altro per il nuovo che si vedeva arrivare, l’ambizione generale era di stare al passo coi tempi. Tutto stava cambiando e l’informazione, oltre che strumento di conoscenza, si stava ora dimostrando indispensabile strumento di lavoro. Non ci preoccupavamo soltanto di allargare per motivi economici la nostra clientela; pensavamo di dover rispondere ai nuovi bisogni informativi richiesti da una società in evoluzione. Ecco perché nacque uno speciale notiziario (fu chiamato “4a rete”). Il notiziario era più breve e i contenuti (politica ed economia, italiana e estera; anche un certo tipo di cronaca) erano selezionati, tra quelli del notiziario generale per i giornali, in funzione degli interessi conoscitivi di destinatari non giornalistici, ma amministrativi, economici, sindacali. Qualcuno lo chiamava il “giornale del giorno dopo”.

Un insperato aiuto venne da Pasquale D’Innella, un professore di fisica che si era messo a fare l’imprenditore e stava affacciandosi nel campo delle nascenti nuove tecnologie della comunicazione. Ancora non c‘era stato il passaggio dall’analogico al digitale, ma si trovò un modo per selezionare le notizie secondo la categoria (politica, economia, cultura, spettacolo, cronaca, sport). Il titolo della notizia veniva fatto precedere dalla categoria di appartenenza e un meccanismo inserito nella telescrivente permetteva un’automatica selezione. L’abbonato poteva così ricevere soltanto le categorie di notizie che lo interessavano e ignorare le altre. Era un’anticipante novità: un notiziario “personalizzato” in forma analogica alla vigilia delle nuove tecnologie elettroniche digitali.

Nel 1970 era entrato intanto in vigore l’ordinamento regionale previsto dalla Costituzione. Il notiziario “4a rete” andò così anche alle Giunte e ai Consigli delle regioni. Ma questo, secondo noi, non bastava e si pensò di dar vita a notiziari regionali che raccogliessero le notizie di interesse regionale e le distribuissero nella regione. Era un modo di contribuire al democratico processo di sviluppo delle realtà locali che l’ordinamento regionale aveva messo in moto; e di dare sia un alimento sia un mezzo di espressione alle mille voci in cui quelle realtà si manifestavano: politiche, amministrative, sindacali, economiche, culturali. I destinatari erano non solo i giornali locali, ma anche organi amministrativi (per esempio, le Giunte comunali dei capoluoghi di provincia), economici o sindacali (società, associazioni) e quel mondo ancora fluido, ma in via di assestamento, che era il mondo delle nascenti televisioni private. A tutti il notiziario locale veniva trasmesso accompagnato dal notiziario “4a rete”, che garantiva il minimo indispensabile di informazione italiana ed estera.

L’Ansa si stava rafforzando anche ai vertici giornalistici. Accanto al vicedirettore per i servizi esteri Arrigo Accornero venne nominato un vicedirettore per i servizi italiani, Fausto Balzanetti. Accornero e Balzanetti erano in agenzia dal 1945. I redattori capo – Bruno Caselli, Sergio Chizzola e Nino Jodice – furono nominati redattori capo centrali, per distinguerli dai capi delle redazioni specializzate. Intorno a me avevo una squadra eccellente, ma gli impegni e i progetti stavano procedendo in tempi per altri versi difficili, che comportavano attenzione, fermezza di idee e prontezza di decisioni.

Era scoppiato il Sessantotto e la storia stava cambiando. Il guaio era che molti non se ne erano resi conto. Un giorno il centralinista dell’agenzia mi passò una comunicazione. “Viene dal Pci” disse. “Vergogna!” gridò il telefono, e così forte che lo sentirono altri nella mia stanza. “Vergogna! L’Ansa ha trasmesso un falso! È una indegna provocazione della Spes contro il Partito comunista”. La voce dentro il telefono era di Giancarlo Pajetta; la Spes (l’acronimo di “Studi propaganda e stampa”) era un ufficio della Democrazia cristiana; la notizia Ansa che l’alto esponente comunista denunciava come falsa riportava il testo di un manifesto affisso dentro la città universitaria di Roma: il primo attacco, da sinistra, al Pci; la prima manifestazione di quella che fu poi chiamata “sinistra extraparlamentare”.  Il mondo stava cambiando, l’Italia stava cambiando, le università cominciavano ad agitarsi, si stava formando una sinistra estrema e extraparlamentare. Ma Giancarlo Pajetta, membro da sempre della segreteria politica del Pci, evidentemente non se ne era accorto, e come lui si può supporre nessuno degli alti dirigenti del più grande partito comunista occidentale. “Vergogna” mi ripeté con voce irata, “Vergogna”.

Furono anni pesanti per tutti; anche per me come direttore dell’Ansa. Ho sempre detto che dirigere un’agenzia come l’Ansa non è difficile. Basta fare corretta informazione, cioè completa e imparziale, e tener conto e rispettare tutte le componenti della sua struttura sociale di cooperativa fra i quotidiani. Facile, no? Ma da quegli ultimi anni Sessanta e per molti degli anni seguenti nacque una grossa difficoltà per i redattori dell’agenzia e per il direttore che aveva la responsabilità giornalistica, e quindi anche politica e penale, dell’informazione distribuita ai giornali: la veridicità di molte informazioni, cioè di molti fatti di cui si aveva notizia. C’erano versioni diverse; quale quella giusta? Non sempre c’era la possibilità di attribuirle a qualche fonte sicura.

Raccontavamo i fatti, cercando di essere più asettici possibile; ma sul significato di quei fatti ero spesso imbarazzato, non come direttore dell’Ansa ma come cittadino. Di fronte all’esplosione giovanile che in forme diverse si era manifestata in tutto il pianeta le reazioni erano per la maggior parte negative. Io invece la pensavo diversamente. Forte della lezione storicistica di Benedetto Croce, ritenevo che quello che è accaduto non può non accadere, e se è accaduto significa che doveva accadere. In quelle rivolte dei giovani di tutto il mondo mi sembrava di vedere un comune denominatore: l’opposizione all’autoritarismo e a una società che si presentava come una società violenta o, per lo meno, oppressiva. Violenza e oppressione appariva infatti anche a me il generale sistema di valori (o pseudovalori) che continuava senza scosse dal secolo prima, come se non ci fossero state due guerre mondiali, il fascismo e il nazismo, i lager dell’Olocausto e i gulag dello stalinismo, la fine del colonialismo e l’avvento oppressivo delle multinazionali. Secondo me, il Sessantotto aveva dato un segnale: la storia stava cambiando. In quegli anni, giorno dopo giorno – senza aspettare il 31 dicembre del 1999 – finiva il secondo millennio e cominciava il terzo. Fu un errore non capire quello che c’era dietro la rivolta dei giovani, al di là dei loro errori e delle loro insensatezze.

Non capire fu un errore anche per un altro motivo. Alla fine di maggio di quell’anno 1968 l’Ansa trasmise una notizia a cui, lì per lì, non fu dato peso. Diceva che due nuove scritte erano apparse sui muri di un edificio universitario a Roma: “Il potere sta sulle canne dei fucili” e “Armi agli operai e agli studenti”. Ce ne ricordammo qualche tempo dopo, quando cominciarono gli anni che dal titolo dal film di Margarethe von Trotta qualcuno chiamò “anni di piombo” e che forse sarebbe più giusto chiamare gli “anni della follia”.

Per l’Ansa la giornata era piena di problemi. I quotidiani che fino ad allora si erano presentati come giornali di informazione, diventarono giornali di parte. Qualcuno diceva che bisognava fare non informazione ma controinformazione. Per evitare contestazioni da destra e da sinistra, all’Ansa si usarono espedienti perfino un po’ comici. A Roma si misurò la superficie in metri quadrati delle piazze dove si svolgevano le manifestazioni. I cronisti (da qualche tempo andavano in giro protetti da un giubbotto antiproiettile) accertavano quanti erano mediamente i manifestanti in ogni metro quadrato; una semplice moltiplicazione ne dava così il numero complessivo, difficilmente confutabile. Un sistema che fu poi adottato anche dalla Questura.

  Difficile non era questo. Ancora una volta, difficile era raccontare fatti di cui nessuno di noi era stato testimone oculare. Difficile, cioè, era avvicinarsi quanto più possibile alla verità attraverso le testimonianze o le versioni di altri. Com’era caduto Giuseppe Pinelli (dicembre 1969) da una finestra al quarto piano della questura di Milano? Com’era morto Giangiacomo Feltrinelli (marzo 1972), trovato alla base di un traliccio dell’energia elettrica nei pressi di Segrate? Com’era stato assassinato il commissario Luigi Calabresi (maggio 1972) davanti alla sua abitazione a Milano?

  I cronisti e i redattori dell’agenzia cercavano di capire, ricostruendo il fatto sulla base di quello che veniva detto dai testimoni e dalle varie fonti, ufficiali e non ufficiali; e riferendo, tra virgolette, le versioni, spesso contrastanti, degli uni e degli altri. Ma quando, il giorno dopo, guardavamo i giornali, anche i grandi quotidiani nazionali, constatavamo che la “verità” di quei giornali era un’altra. Giuseppe Pinelli – si sosteneva – era stato buttato di sotto da un agente, forse dallo stesso commissario Calabresi. Giangiacomo Feltrinelli era stato ucciso altrove (dai fascisti? dai Servizi segreti?) e poi portato sotto il traliccio. Luigi Calabresi era stato colpito da un killer di destra; forse era stato vittima di un complotto organizzato, attraverso i fascisti, direttamente dalla Cia.

  Noi dell’Ansa ogni giorno ci domandavamo inquieti com’era che la realtà fotografata dall’agenzia non corrispondeva a quella che appariva sui giornali; e com’era che i giornali erano così pieni di certezze, mentre noi eravamo così pieni di dubbi. Le informazioni disponibili, le informazioni sicure erano le stesse per l’Ansa e per tutti gli altri. Gli indizi erano sempre vaghi (e spesso inquinati – si seppe anni dopo – da certe autorità “deviate”). Di prove, nell’immediato, non ce n’era quasi mai nessuna. Eppure leggevamo ogni giorno brillantissimi pezzi di noti e valenti giornalisti che sul nulla riuscivano a costruire grandiose architetture interpretative; tutte schierate da una parte, naturalmente.

  Ogni tanto arrivava una telefonata all’Ansa: “Siamo le Brigate rosse; in una cabina telefonica in piazza Tal dei Tali c’è un nostro comunicato”. Avvertivamo la questura e poi un cronista si precipitava sul posto, cercando di arrivare almeno un attimo prima degli agenti che avrebbero sequestrato il documento. Fa parte del mestiere: non perdere la notizia. Erano documenti sconcertanti, sia per i contenuti, sia per il linguaggio; ma erano una notizia. Sapevamo bene che le Brigate rosse ce li facevano conoscere proprio perché fossero pubblicati; e sapevamo quindi che pubblicarli significava fare da cassa di risonanza dei programmi di un’organizzazione criminale. Qualcuno ebbe un’idea: semplice, i giornali non li pubblichino; anzi, ancora più semplice: l’Ansa non li trasmetta ai giornali.

  L’idea di un “black out” come fu sùbito detto per il solito vezzo di usare espressioni straniere sollevò un dibattito fra gli “addetti ai lavori”. Alcuni giornali, col supporto di autorevoli sociologi ed esperti di comunicazioni di massa (e anche di qualche autorità, amante della censura in nome della tutela dell’ordine pubblico) erano d’accordo nello “staccare la spina”; altri no. E l’Ansa? Nei trent’anni di direzione dell’agenzia quella fu la decisione più sofferta. Ci pensammo un po’; poi decidemmo: primo, i comunicati delle Brigate rosse sono documenti di una realtà che è bene sia conosciuta e studiata da tutti; secondo, in una società democratica qualsiasi forma di censura, anche a fine di bene, può essere pericolosa. Su questo fummo tutti d’accordo, noi dell’Ansa: direzione, redattori, comitato di redazione; ma nessuno ne fu felice; e tutte le volte che ci arrivavano quei maledetti fogli di carta con quella maledetta intestazione “BRIGATE ROSSE” e, fra “brigate” e “rosse” la stella a cinque punte inserita in un cerchio, era una sofferenza mandarli in trasmissione. Ci consolava solo il vedere che quei testi erano poi usati nel dibattito culturale e politico e nell’analisi di un fenomeno di cui era necessario capire le radici e le motivazioni.

  Un momento difficile, forse il più difficile, fu quello del sequestro di Aldo Moro. Cinquantacinque giorni di agonia per lui, cinquantacinque giorni di angoscia e di trepidazione per tutti noi; specie quando le Br ci fecero avere le quattro lettere di Moro col suo appello disperato alla trattativa. Erano documenti drammatici e sconcertanti. Molti democristiani sostenevano che si trattava di lettere apocrife o perché non volevano riconoscere le esplicite accuse da lui fatte al suo partito oppure perché non volevano accettare una figura umana che da questi scritti appariva molto diversa da quella fino ad allora conosciuta. Che si trattasse di lettere autentiche lo sostenevano i familiari. Lo pensavo anch’io, che vedevo in quelle lettere il veritiero ritratto di un uomo che, dietro un grande e sofferto e ammirevole patrimonio culturale, finalmente svelava un temperamento che, per quel poco che lo conoscevo, mi era apparso debole e insicuro. Fu uno dei pochi casi in cui un documento rimase per qualche minuto sul mio tavolo prima di essere trasmesso. Leggevo quelle frasi: “Siamo quasi all’ora zero. Mancano più secondi che minuti. Siamo al momento dell’eccidio”. Che fare? Poco dopo, quelle strazianti parole erano sulle telescriventi dei giornali in Italia e nel mondo.

  Il 9 maggio alle 13.59 l’Ansa trasmise una notizia: “Un cadavere in una macchina è stato trovato in via Caetani, una traversa delle Botteghe Oscure”. Alle 14.04: “”L’on. Moro sarebbe la persona trovata morta”. Alle 14.13: “È confermato che Aldo Moro è stato trovato morto in una Renault4 rossa in via Caetani”. Poco più tardi l’agenzia trasmise una foto, scattata da un fotografo dell’agenzia, Rolando Fava, dalla finestra di un appartamento al primo piano in via Caetani. E’ la fotografia che ha avuto il maggior numero di riproduzioni nel mondo. Qualcuno sostiene che la foto più diffusa, perfino sulle t-shirt, è quella di Che Guevara. Ma quello del Che è un ritratto. Quella di Moro è una foto di cronaca. La ricordiamo tutti. Si vede la Renault4 con lo sportello aperto del portabagagli, nell’interno il corpo di Aldo Moro supino, la testa reclinata a sinistra, la mano destra abbandonata sul petto. Una foto terribile.

  La fatica era di controllare l’informazione corrente, con tutti quei pericoli da destra e da sinistra, e insieme preoccuparci del necessario aggiornamento e rafforzamento dell’agenzia, specie con le novità che sul piano tecnico stavano arrivando nella campo delle comunicazioni. Da anni, per esempio, mi ero domandato come può operare bene una rappresentanza diplomatica all’estero se non è informata sollecitamente di quello che accade nel paese, governo e società. Le ambasciate italiane ricevevano ogni giorno dal ministero degli esteri un breve notiziario, il cosiddetto “telespresso”; solo notizie burocratiche; poi aspettavano i quotidiani più importanti, inviati per posta aerea. A Parigi, a Londra e a Bonn, le ambasciate più vicine, i giornali arrivavano il giorno dopo. I giornali radio della Rai solo in Europa e non sempre erano ricevuti bene.

  Il primo accordo con la Farnesina fu di far ricevere dalle ambasciate il notiziario in inglese o quello in francese che l’Ansa trasmetteva in radiotelescrivente in tutto il mondo. Non era granché e la ricezione era spesso disturbata. Qualche anno dopo trasmettevamo il notiziario “4a rete” in una speciale versione chiamata “notiziario italiano per l’estero”; ed arrivava a in una cinquantina di città di tutti i continenti. Il sistema elettronico, finalmente entrato in funzione nell’ottobre dei 1980, permise che le stessa notizie ricevute dai giornali italiani arrivassero simultaneamente in tutto il mondo, anche ad Amburgo e a Sydney, a Pechino e a Città del Messico, a Mosca e a Singapore, a Helsinki e a San Francisco. Oltre alla ambasciate, ai consolati generali e agli istituti di cultura l’Ansa aveva trovato altri abbonati: rappresentanze di enti italiani pubblici e privati (banche, ICE, FIAT, Alitalia ecc.), giornali in lingua italiana (come in Canada), il governo australiano (per i notiziari radiofonici e televisivi destinati alle comunità italiane), organi internazionali (a Strasburgo, Bruxelles, Lussemburgo).

  Il rapporto dell’agenzia con lo Stato tendeva così ad essere diverso da quello del passato. Lo Stato non era più il committente o l’unico cliente dei servizi dell’agenzia per sopperire alle esigenze di informazione delle sue strutture centrali e periferiche, in Italia e all’estero; era soltanto uno dei suoi clienti, e con costi proporzionati. Fu così che, a metà del 1981, in vista della scadenza novennale della convenzione in atto per i servizi esteri, l’Ansa poté presentare al ministero degli esteri, per il rinnovo, un piano il cui senso era questo: vi vengono assicurate prestazioni accresciute e migliorate, ma non chiediamo, per questo, un soldo di più. Era da vent’anni che aspettavo questo momento.

  Un altro bel momento, anzi altri bei momenti, e questi tutti nostri, vennero con l’arrivo del digitale. Era da anni che mi arrovellavo per il controllo rapido, l’arricchimento, il completamento dell’informazione corrente con l’informazione passata. C’era da sempre un archivio delle pagine ciclostilate del notiziario, sugli scaffali e tanta polvere sopra; poi, anni dopo, le stesse notizie in microfilm; si girava una manovella e si vedeva la notizia; ma per avere quella che si voleva, bisognava conoscerne la data. Non era possibile trovarla chiedendola con qualche parola chiave?

  Andammo all’Ibm all’Eur. La domanda li sconcertò. Non ci avevano pensato. Ma dopo appena una settimana – bravissimi – ci portarono il progetto. Sarebbe nato il Dea, “Documentazione elettronica Ansa”, l’archivio elettronico con tutte le notizie dell’agenzia e la possibilità di ritrovarle immediatamente: indicando la data oppure con una parola chiave, una parola attinente al loro contenuto. Era il primo archivio elettronico di agenzia; il secondo nel mondo dopo quello di un giornale, il “New York Times”. Vennero a vederlo, per copiarlo, un dirigente dell’agenzia giapponese Kyoto, anche uno dell’agenzia francese Afp. Oltretutto era un archivio utile a tutti, organi di informazione e qualsiasi altro organo interessato alla ricerca di informazioni passate; anche i ministeri e gli organi di polizia. Quindi un archivio di cui vendere l’uso.

  Con l’adozione dell’elettronica – era nato Internet – un primato fu conquistato dall’Ansa, nel 1988, anche col suo “Ansaservice”, uno speciale notiziario destinato a quell’utenza non interessata a un collegamento permanente ma bisognosa, occasionalmente e saltuariamente, di questa o quella informazione, della giornata o dei giorni precedenti, ottenibile con un pc: l’informazione che si vuole e quando si vuole. Una formula che fu poi ripresa da tutte le grandi agenzie di informazione e che anticipava uno dei tanti sistemi di informazione di oggi. Oggi tutte queste che allora erano belle novità sono diventate cose ovvie e di uso comune. Ma allora, no. E ci si lasci il piacere di essere stati fra i primi a cogliere al volo quello che offrivano le nuove tecnologie elettroniche.

  Fummo i primi; eravamo i primi. Non ci accorgemmo, all’inizio, che rischiavamo di essere gli ultimi. Con quella che negli anni Sessanta fu chiamata l'”esplosione delle informazioni” (e il passaggio – si disse anche – da una “società del villaggio” a una “società planetaria”) le agenzie avevano conquistato facilmente, in un sistema dei media in evoluzione, la loro assoluta insostituibilità. Soltanto le agenzie di stampa – con la loro organizzazione nazionale e internazionale, con i loro collegamenti con le fonti istituzionali e con altre agenzie e soprattutto con l’adozione di tutti i nuovi mezzi offerti dal progresso tecnologico – erano in condizione di assicurare un’informazione immediata, cioè non vincolata a tempi e orari, e poi anche un’informazione diretta, in ufficio o in casa, senza limiti di distanza, di tempo o di luogo; anche un’informazione selezionabile, cioè codificata e quindi recuperabile secondo le esigenze del fruitore; e, infine, anche un’informazione memorizzata, in modo da controllare, verificare, arricchire l’informazione corrente con l’informazione pregressa.

  Il passaggio dall’analogico al digitale, la miniaturizzazione delle apparecchiature (quindi i telefonini e i videotelefonini, le macchine fotografiche e le cineprese digitali) e i satelliti artificiali stavano facendo il resto. Soltanto le agenzie potevano garantire sia un’informazione globalizzata, cioè trasmettibile e ricevibile con i mezzi più diversi e dovunque; sia un’informazione multimediale, cioè servendosi non solo della parola scritta, ma anche della parola detta, dell’immagine fissa e dell’immagine in movimento; sia un’informazione ipertestuale, cioè dando modo, automaticamente e immediatamente, di arricchire un testo con altri testi; sia un’informazione personalizzata, cioè “a misura” del fruitore.

  Fu un trionfo di breve durata. Non ci eravamo accorti che cosa significava Internet. Se il giornalismo è mediazione tra la fonte e il destinatario dell’informazione (e le agenzie sono, a monte dei giornali, il principale organo di mediazione), questa grande rete planetaria rendeva possibile al fruitore l’accesso diretto alle fonti di informazione. I grandi motori di ricerca completavano il giuoco: migliaia, milioni di informazioni nel giro di qualche secondo. Internet rischiava di uccidere non soltanto le agenzie di informazione ma tutto il giornalismo.

  Con Internet, poi, erano arrivati i blogger. Era nato il “citizen journalism”. Tutti potevano essere giornalisti, tutti potevano produrre informazione, dare notizie, scritte, parlate, per immagini, senza bisogno di sedi, redazioni, direttori e redattori capo. Bastava avere un pc (anche un telefonino o un videotelefonino) e entrare in rete.

  Poi la televisione. Con le guerre e i disastri naturali, tsunami e terremoti, era esplosa l’informazione televisiva, col sussidio dei satelliti artificiali. Tra l’evento e il fruitore dell’evento, anche a migliaia di chilometri di stanza, non c’era più diversità di spazio né di tempo. Nella notte fra il 18 e il 19 gennaio del 1991 (la cosiddetta “guerra del Golfo” era cominciata da 24 ore) la Cnn ci fece vedere sul televisore di casa le tracce luminose di quelli che affermò essere dei missili iracheni che stavano cadendo su Tel Aviv. Accidenti, dicemmo; da oggi potremo vedere la guerra in diretta; altro che agenzie. Le agenzie dettero infatti la notizia alcuni secondi più tardi: un’eternità, rispetto a un’informazione simultanea (in “tempo reale”, come si dice) e per di più affidata all’immagine, che è tanto più coinvolgente di una parola detta o scritta.

  Fu un colpo duro per le agenzie. A causa di Internet avevano perso la loro esclusività di unici strumenti dell’informazione di base. Con la televisione e i satelliti ora stavano perdendo un altro privilegio, quello di arrivare prima di ogni altro organo di informazione.

  Riepiloghiamo, allora. Bello, Internet. Con Internet è facile e rapido accedere direttamente alle fonti senza filtri intermedi. Ma chi ci garantisce l’attendibilità di quelle fonti? Anche le fonti autorevoli, che si presentano con un autorevole biglietto da visita, ci danno quello che ritengono di farci conoscere, non tutto; e nel migliore dei casi hanno un codice, e la loro informazione deve essere perciò decodificata per diventare un’informazione sicura. Poi ci sono le notizie false o manipolate che certe fonti producono non per far conoscere la realtà ma per modificarla. Poi i blogger. Che certezza abbiamo della attendibilità dei blogger? I blogger non sono stati a scuola di giornalismo, non ne conoscono le responsabilità, ignorano la deontologia professionale, non hanno, a differenza dei giornalisti, la convalida o la condanna del loro pubblico. E chi ci assicura che il blogger che stiamo leggendo non sia un millantatore o un mitomane? E così quelli che scrivono su Twitter o su Facebook; ci scrive chiunque, non solo il papa e Barack Obama. E così la televisione; i missili che la Cnn ci aveva fatto vedere a Tel Aviv non erano missili, come si venne poi a sapere, ma soltanto razzi luminosi. Ancora una volta l’immagine si era dimostrata bugiarda più della parola.

  Ecco allora dove si giuoca la grande sfida del giornalismo in genere e del giornalismo d’agenzia in particolare. Se l’informazione è sempre più indispensabile come strumento di conoscenza e come strumento di lavoro, l’informazione deve essere corretta e quanto più possibile esatta. La sopravvivenza delle agenzie di informazione, cioè la necessità di ricorrere ad esse come sicuri organi di base, dipende quindi dalla misura in cui la loro mediazione significhi non soltanto gestione delle informazioni che circolano fuori dalla Rete e dentro la Rete, ma anche verifica e controllo di quelle informazioni. Una mediazione che sia soprattutto mediazione di verità; e se la parola “verità” fa un po’ paura, diciamo: una mediazione di qualità.

  Come mi piacerebbe, nonostante il miei 93 anni, dirigere anche oggi un’agenzia di informazione. Il primo giugno del 2012, alla festa della Repubblica al Quirinale, rispondendo al mio saluto il presidente Napolitano mi chiese: “Pensa sempre alla sua creatura?”. La mia creatura? Grazie, presidente. Ma non soltanto mia; anche di chi mi ha aiutato a crearla. Pensarci? Sempre. Io continuo ogni giorno, mentalmente, a dirigere un’agenzia virtuale. Oggi – dico – facciamo questo; domani – dico – dobbiamo fare quest’altro. Ogni giorno ci penso.

gennaio 2013

Un interessante complemento pare essere questa lettera che all’autore è stata inviata da Annibale Paloscia, capo per molti anni del Servizio di cronaca dell’agenzia.
“Caro Sergio, la tua storia dell’Ansa non è solo un bel racconto dei fatti che hanno dato vita ad una delle più forti e stimate agenzie, ci restituisce un passato in cui i giornalisti discussero con passione problemi che ancora oggi si riflettono sulla qualità e sull’etica della stampa. Il giornalismo non era più quello delle veline e si misurava con le formidabili potenzialità di poter essere utile al Paese. Senza dover chiedere il permesso ai ligi, a volte arroganti, a volte pericolosi custodi di segreti profondi.
“All’Ansa, come tu racconti, sua maestà la notizia era diletta e venerata. Il giornalista a cui arrivava una notizia doveva passarla e basta, anche se poteva infastidire qualche alta autorità. Ne sono testimone io, visto che nei trent’anni di lavoro all’Ansa, non sono mai venuto da te per chiederti che cosa fare di una notizia “delicata”. Mi avresti risposto col tuo primo comandamento. Le notizie devono passare “così come sono”.
“Sia in via di Propaganda, sia in via della Dataria, si respirava una salubre aria di libertà e di passione civile. Raro qualche caso di auto-censura, che non veniva incoraggiato, ma reso ininfluente. Io ero comunista dichiarato, ma le mie notizie non avevano bandiere. I miei principi professionali erano del tutto indipendenti dal mio voto. Il mio prossimo erano le buone fonti, cioè le fonti di cui mi potevo fidare. Quella era la bussola che ci aiutò a raccontare che cosa succedeva nella società italiana, che cosa rischiava la nostra democrazia dalla crisi dell’ordine pubblico.
“Un’informazione pluralistica, non sottomessa, non pavida, poteva contribuire ad attraversare quel mare in tempesta. Era questa la tua convinzione ed avevi ragione. Credo che, in quel momento, il pluralismo delle fonti fosse lo strumento più utile per distinguere il vero dal falso.
“Un giorno, credo nell’anno Settanta, all’uscita dall’Ansa incontrai l’amministratore delegato Fattori; andava a prendersi l’aperitivo al bar dell’angolo. Non lo avevo mai frequentato, ci avevo parlato solo una volta, quando ero andato da lui a chiedere il pagamento degli straordinari. Mi aveva ascoltato attentissimo e mi rispose con tono paterno: ”Paloscia…tu mi devi fare un grande favore: non chiedere mai il pagamento degli straordinari».
“Quel giorno in cui c’incontrammo al portone dell’Ansa fu particolarmente gentile e mi invitò a prendere l’aperitivo con lui. Mentre sorseggiavamo un vino dolce e fresco, mi fece una domanda: ”Paloscia… tu mi devi dire come fai ad avere buoni rapporti con le forze di polizia e nello stesso tempo con i gruppi estremisti». Gli spiegai che, a differenza di molti giornalisti della stampa più autorevole, noi non dipingevamo le università occupate come bordelli ed i contestatori come teppisti. L’Ansa era stato il primo organo di informazione che aveva pubblicato senza manipolazioni i documenti più importanti del Movimento. Gli studenti ribelli ci rispettavano per questo e ci ritenevano utili al Movimento.
“Per quanto riguarda la polizia, non eravamo prevenuti, potevamo contare sulla professionalità di molti dirigenti, che apprezzavano la serietà con cui trattavamo le loro versioni dei fatti. Una volta dissi a un funzionario della Ps che lavorava al Viminale: ”Facciamo un accordo: noi rispettiamo la vostra professionalità, tu non ci rifilare bufale”. Funzionò. Questa posizione ci assicurò che potevamo contare su fonti di notizie che, su diversi versanti, ci potevano dare informazioni fondate su dati oggettivi. Poiché non manipolavamo né le versioni degli studenti, né quelle delle questure, eravamo apprezzati dagli uni e dagli altri.
“Sorgeva, a volte, qualche problema con i vertici del Viminale. Posso aggiungere un episodio a quelli da te raccontati. Dopo la morte dell’anarchico Pinelli, il movimento degli studenti e le organizzazioni anarchiche fecero una conferenza stampa in cui accusarono la Ps di omicidio. Il Viminale ci fece notare che poiché nessuno di quelli che avevano parlato era stato identificato, l’Ansa correva il rischio di essere ritenuta corresponsabile di quelle accuse con la conseguenza di poter essere denunciata. Spiegammo al Ministero che una conferenza fatta dai rappresentanti di centinaia di migliaia di giovani non si poteva ignorare soltanto perché gli organizzatori avevano ritenuto di non rendere noti i nomi di chi aveva parlato. Non ci furono conseguenze.
“Una grave minaccia alle istituzioni veniva dai segreti dello Stato profondo, un pezzo inquinato dello Stato dove si progettavano le stragi usando come manodopera le bande fasciste. Ora era più difficile distinguere il vero dal falso. Le bugie sulla notte della Repubblica, con le stragi, col delitto Moro, con l’impunità dei mandanti, erano state confezionate per durare secoli. A che era servito “disufficializzare” l’Ansa, scegliere fonti di alta qualità, essere apprezzati per la imparzialità, se ora c’era il rischio di essere strumentalizzati ad uso di una informazione inquinata e inquinante? Non cadere nella trappola era una ragion d’essere per l’agenzia. Anche le fonti istituzionali potevano essere intossicate. Tanti mentivano, tanti nascondevano segreti. Chi aiutava i terroristi? Chi voleva l’uccisione di Moro?
“Come tu ricordi, c’era qualcuno che proponeva il silenzio stampa. E tu sei stato subito pronto a bocciare quella proposta che ci mostrava come uno Stato pavido, che ha paura della libertà di stampa. La Repubblica nata dalla Resistenza non lo meritava.
“La nostra fonte più preziosa, più credibile, nella oscura notte romana, furono i vigili del fuoco, soprattutto il loro comandante, l’ingegnere Elveno Pastorelli, un galantuomo che aveva molta stima per l’Ansa. Col suo aiuto potevamo verificare rapidamente l’attendibilità delle notizie messe in giro da fonti incontrollabili.
“Quando arrivò il falso comunicato delle Br, secondo il quale Moro era stato ucciso e gettato nel lago della Duchessa, fu Pastorelli a correre subito in quel luogo e a metterci nelle condizioni di smentire la notizia con assoluta certezza. ”Qui c’è solo ghiaccio» mi gridò per telefono dalle sponde dal lago ghiacciato. Alcune autorità, per un po’ di tempo, continuarono a dar credito a quel comunicato e vollero che Pastorelli rimanesse lì a scavare fino a contrordine. Anche quando il corpo di Moro fu trovato in via Caetani, e in occasione della scoperta del covo Br in via Gradoli, la collaborazione del capo dei Vigili del Fuoco ci permise di dare subito notizie fondate.
“Ricordi infiniti! La mia memoria un po’ malandata si è un po’ riaccesa scrivendo questa lettera. Ti confesso che per parecchio tempo avevo dimenticato anche l’Ansa, oggi mi accorgo di avere moltissimi ricordi della nostra agenzia. La passione impressa rimane e l’altro alla mente non riede”, scrive Dante che conosceva bene la scienza della mente.

settembre 2015