La Cina di Mao 1971-1978

Mao Zedong, presidente del Partito comunista cinese, e Lin Biao, ministro della difesa, dettero il via nel 1966 ad una lotta che era, insieme, lotta di potere (gli avversari erano il presidente della repubblica Liu Shaoqi e il segretario del partito, Deng Xiaoing) e lotta ideologica.
Il loro disegno politico portò la Cina al caos e al disastro economico; ma rappresentò l’unico grande tentativo di creare una società comunista, evitando gli errori commessi dall’Unione Sovietica e scongiurando per allora il fallimento di quel sistema politico. Le linee erano due:
1) la “rivoluzione permanente” (espressa da un famoso manifesto di Mao “Bombardate il quartier generale”, cioè attaccate i vertici del partito e del governo per impedire che, eliminate le vecchie classi dirigenti, ne nasca una nuova, burocratica-militare);
2) la soppressione dello Stato centralizzato e centralizzatore attraverso la creazione di migliaia di piccoli stati, cioè le “comuni popolari”, che si richiamavano, di nome, alla tragica appassionante vicenda della Comune di Parigi del 1871.
Milioni di ragazzi e ragazze, chiamate Guardie Rosse, lasciavano le loro case e percorrevano il paese distruggendo ogni segno del passato. Fu la rovina, il caos, la fame.
La grande utopia nella sua ultima versione finì tra le macerie e il sangue.
Ventidue anni prima della caduta del muro di Berlino il comunismo moriva, come ideologia e come palingenesi, nella piazza di Tien An Men a Pechino.

(Sergio Lepri, “Dentro le notizie”, 1997)

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