Consigli per una corretta scrittura

   Questo capitolo si richiama alle regole più semplici della grammatica e della sintassi e alle norme che le esperienze storiche e i progressi culturali suggeriscono di seguire per assicurare alla scrittura giornalistica quella correttezza che è doverosa per testi che si rivolgono al pubblico.

   Il capitolo riproduce, ridotto,  il testo che è stato pubblicato in “News. Manuale di linguaggio e di stile per l’informazaione scritta e parlata”, Rizzoli Etas, 2011. Il testo ha trovato conferme e stimoli in “La comunicazione e gli usi della lingua” di Francesco Sabatini (Loescher editore), “La lingua italiana di Maurizio Dardano” (Zanichelli), la “Guida all’uso dell’italiano” di Tullio De Mauro (Editori riuniti), “La Crusca per voi” (“Foglio dell’Accademia della Crusca”), il “Manuale di stile” di Emanuela Piemontese (Il Mulino), le “Guidelines on non-sexist language” dell’Unesco.

Le abbreviazioni

  • Le abbreviazioni provenienti da aree linguistiche settoriali è bene siano sostituite con la parola non abbreviata, sia per maggiore chiarezza, sia per far corrispondere il linguaggio giornalistico all’uso parlato; per esempio: “numero” e non “n.”, “pagina” e non “pag.”, “telefono” e non “tel.”, “decreto legge” e non “dl”, “codice penale” e non “cp”, “polizia di stato” e non “ps”, “Guardia di finanza” e non “GdF”.
  • Le abbreviazioni terminano con un punto fermo se sono accorciamento di una parola (per esempio “tel.”, “dott.”); non devono avere il punto fermo se sono degli acronimi (per esempio “pm”, “ps”) oppure sigle stabilite per convenzione (per esempio “km”, “kg”).

Gli accenti

  • La tastiera italiana del pc ha le vocali à, è, ì, ò, ù con l’accento grave; solo la vocale e ha anche l’accento acuto (é). Alcuni programmi di videoscrittura permettono tuttavia di inserire nel testo molte lettere con particolari segni diacritici: a) tutte le vocali con l’accento acuto (la ó può servire per l’italiano e tutte servono per eventuali parole della lingua spagnola, le cui vocali hanno soltanto l’accento acuto); b) tutte le vocali con l’accento circonflesso, che servono per eventuali parole della lingua francese; c) le vocali ä, ö e ü con la “Umlaut”, che servono per eventuali parole tedesche. Degli altri segni diacritici (relativi soprattutto alle lingue slave e scandinave) si può fare a meno.
  • La differenza tra accento acuto e accento grave è importante non solo per motivi di corretta scrittura e di corretta pronunzia, ma anche per evitare che alcuni proframmi di ricerca del pc, che non ignorano la differenza, diano risposte incomplete. Le parole italiane più a rischio sono quelle che terminano per é; le più importanti sono: “né”, “sé”, “perché”, “nonché”.
  • Nella lingua italiana non si usano le vocali accentate all’interno di una parola, ma niente lo proibisce; è bene approfittarne almeno con alcuni dei cosiddetti “omografi”, quando esiste possibilità di equivoco; per esempio “sùbito” e “subìto”, “séguito” e “seguìto”, “prìncipi” e “princìpi”, “prèsidi” e “presìdi”.
  • I monosillabi non hanno bisogno di accento, ma nel caso di monosillabi eguali per forma ma diversi per significato, è convenzione accentare uno di essi; per esempio la voce verbale “dà”, il pronome “sé” (quando non è seguito da “stesso” o “stessa”), la congiunzione “né”, gli avverbi “sì”, “lì” e “là”. La norma dice che le note musicali, facilmente identificabili come tali, non sono omografi; quindi niente accento sulle voci verbali “do” e “fa”.
  • Il monosillabo non accentato prende l’accento quando diventa secondo elemento di una parola: “tre” ma “ventitré”, “blu” ma “rossoblù”, “gru” ma “autogrù”.
  • I monosillabi che sono troncamenti di parola non vogliono l’accento ma l’apice: “un po’ ” (da “poco”), “della Ca’ ” (da “Casa”).

 Gli aggettivi qualificativi

  • Degli aggettivi qualificativi che indicano una caratteristica oggettiva il giornalismo ha tanto più bisogno quanto più vuole essere un linguaggio preciso e ricco di informazioni. Altri aggettivi, invece, indicano una qualità che presuppone una valutazione soggettiva e il loro uso dà al giornalismo di cronaca un tono di soggettività che nuoce all’equilibrio della narrazione. Il cronista non deve dire che “l’episodio è allucinante”, che “la scena era impressionante”; devono essere le cose e non i sentimenti con cui le vediamo, deve essere il modo in cui raccontiamo il fatto a far dire al lettore che quell’episodio è allucinante, che quella scena era impressionante.

Gli articoli

  • Davanti ai nomi comuni maschili comincianti per vocale oppure per x, z, s impura, sc, gn, ps e pn (escluso “pneumatico”, che l’uso corrente ha escluso dalla norma) l’articolo da usare è “lo” al singolare e “gli” al plurale.
  • Con i nomi propri di persona l’articolo determinativo si usa soltanto: a) con i soprannomi (“il Barbarossa”, “il Passatore”); non sempre, tuttavia, il soprannome è ricordato come tale (quindi “il Tintoretto” e “Tintoretto”, “il Caravaggio” e “Caravaggio”); b) con i cognomi di personaggi famosi del passato (“il Carducci”, “la Deledda”; ma è meglio dire “Giosue Carducci”, “Grazia Deledda”; c) con i cognomi al plurale (“gli Agnelli”, “i Benetton”).
  • L’articolo determinativo non si usa con i cognomi di personalità contemporanee e, a differenza di come accadeva fino a qualche anno fa, neppure con le donne; si scrive “Bindi” non “la Bindi”, “Pivetti” non “la Moratti” (ma molto meglio col nome, anche per riconoscere se si tratta di uomo o di donna, “Rosy Bindi”, “Letizia Moratti”).
  • Davanti a nomi stranieri l’articolo è stabilito dal suono iniziale della pronunzia: “il brandy”, “lo sherry” (pron. scèri), “il würstel” (pron. vürstel). L’incertezza è per le parole inglesi che cominciano con w; per esempio, whisky: “il”, “lo” o “l’”? Forse è meglio evitare l’incontro grazie a qualche espediente: “un bicchiere di whisky”.

Le attribuzioni

  • Le informazioni di un fatto che il giornalista raccoglie personalmente e direttamente sono informazioni valide, posto che il giornalista sappia vedere e capire con precisione e sia onesto, imparziale, non inventi o non aggiunga informazioni di fantasia; ma quando l’informazione (almeno quelle importanti) viene da una qualche fonte, non basta accertare l’affidabilità della fonte; è bene sempre attribuire ad essa l’informazione. Non si può scrivere “Tizio si è suicidato nella sua cella del carcere di…”; è meglio dire “Tizio è stato trovato morto nella sua cella del carcere di..; i dirigenti del carcere (o il magistrato intervenuto) ritengono che si sia suicidato”.

Gli avverbi

  • Gli avverbi in -mente sono comodi e pratici, ma il loro uso fa perdere a volte la vivacità del discorso, a parte il rischio di spiacevoli rime quando due avverbi in -mente si trovano vicini. La soluzione è semplice, perché quasi tutti gli avverbi in -mente possono essere sostituiti, con facilità e spesso con maggiore efficacia, da altri avverbi, da locuzioni avverbiali o da complementi di modo (-mente è l’ablativo singolare del latino “mens” nel significato di “intenzione”, “sentimento”). Qualche esempio: “conseguentemente” (“quindi”, “perciò”, “di conseguenza”); “contemporaneamente” (“nello stesso momento”, “insieme”); “ovviamente” (“come è ovvio”) e così via.

I capoversi

  • In un testo tipografico l’andare a capo è importante per alleggerire visivamente la composizione e soprattutto per rendere più agevole la lettura, suggerendo una pausa là dove ha inizio una parte dello scritto che in qualche modo si stacca da quella precedente. Il capoverso è perciò necessario e non deve essere casuale; si usi andare a capo: 1) dopo non più di dieci-quindici righe (secondo la larghezza della colonna) e non meno di quattro o cinque; 2) dove c’è, anche se sfumato, uno stacco di racconto o di concetti; dopo il “lead”, per esempio.
  • Il capoverso non deve cominciare con la stessa parola o con le stesse parole del capoverso precedente.
  • Il capoverso non può cominciare con una cifra; caso mai la si scriva in lettere.
  • Nell’impaginazione di un testo a stampa  si deve evitare che, nella continuazione di un articolo o di un servizio, una colonna cominci con la prima riga di un capoverso (potrebbe sembrare non il seguito del pezzo, ma l’inizio di un altro) o, peggio ancora, con l’ultima riga, non piena, di un capoverso (è graficamente brutto).

Il congiuntivo

  • Il congiuntivo è un modo verbale già scomparso nella lingua francese e purtroppo in via di scomparsa nella lingua italiana. Si ricordi tuttavia che il congiuntivo è il modo della possibilità, dell’incertezza, del dubbio, della previsione, mentre l’indicativo è il modo della certezza e dell’obiettività reale: “Sapeva che era morto”, “non sapeva che fosse morto”; “è certo che verrà”, “è probabile che venga”.

Il corsivo

  • In un testo tipografico il corsivo serve per mettere in evidenza una o più parole (termini tecnici o stranieri, parole o lettere o combinazioni di lettere riportate come tali). La videoscrittura possiede il corsivo (a differenza della macchina per scrivere e della telescrivente), ma poiché, per passare dal tondo al corsivo, si deve usare il “mouse” e spostare il cursore, si perde qualche attimo di tempo. Col pc è quindi consigliabile di ricorrere alle virgolette, invece che al corsivo, anche se, a rigore, c’è differenza fra corsivo e virgolette: il corsivo mette in evidenza certe parole in relazione alla loro presenza nel testo, mentre le virgolette mettono in evidenza parole o frasi in relazione al loro contenuto.

La data e la provenienza

  • L’indicazione della data (insieme alla provenienza) della notizia, del servizio e della corrispondenza ha subìto, nei quotidiani italiani, forti modifiche negli ultimi decenni. Oggi quasi tutti i quotidiani indicano soltanto la località di provenienza; la data è nella testata della prima pagina e nella testatina delle pagine interne.
  • Nella archiviazione delle notizie (ritagli cartacei o testi memorizzati nel pc) occorre, di conseguenza, aggiungere il giorno, il mese e l’anno.

Le designazioni di tempo

  • La designazione dell’anno è sempre espressa in cifre: “il 1968”, “nel 1990”, “la guerra 1915-18” (anche 1915-1918).
  • Per indicare le date complete (giorno, mese ed anno) si preferisca l’espressione per intero: “il 2 giugno 1946”; niente male se si fa precedere l’anno dalla preposizione, come nel linguaggio parlato: “il 2 giugno del 1946”.

Il discorso diretto e il discorso indiretto

  • Il discorso diretto è identificato come tale dalle virgolette in apertura e in chiusura. Se il testo riportato è lungo, è opportuno interromperlo, ricordando, fra due trattini, chi è che parla.
  • Nel passaggio dal discorso diretto al discorso indiretto, senza virgolette, occorre fare attenzione al cambio dei tempi e dei modi dei verbi, dei pronomi (per es. “mio” che diventa “suo”) e di alcune espressioni avverbiali (per es. “ieri” che diventa “il giorno precedente”).
  • A volte anche nel discorso indiretto le virgolette sono necessarie se si vuol garantire l’autenticità e l’esattezza delle parole riportate, ma devono essere messe solo a quelle parole; per esempio, non si può dire “Il presidente ha detto che ‘la mia decisione era irrevocabile’ ”; si deve dire “Il presidente ha detto che la sua decisione ‘era irrevocabile’”.

Le “diversità”

  • Uomini (e donne) possono essere diversi per molte cose: se sono bianchi o neri o gialli; se sono cattolici o protestanti o ebrei o musulmani o altro; se sono di destra o di centro o di sinistra; se sono settentrionali o meridionali; se sono lombardi o siciliani o calabresi e così via; se sono albanesi o marocchini o curdi o algerini; se sono eterosessuali od omosessuali. Sono queste diversità che esigono attenzione nell’informazione di cronaca, ben più di altre come l’età o la professione o la condizione sociale. L’età e il sesso sono sempre o quasi sempre indispensabili per la descrizione dei protagonisti di un fatto e per la sua comprensione; spesso lo è la professione, a volte lo stato di famiglia. L’appartenenza nazionale o etnica o religiosa o politica o a particolari abitudini e costumi di vita sono invece caratteristiche che possono essere materia di cronaca soltanto se esse costituiscono un’informazione necessaria o utile per comprendere la vicenda raccontata oppure se si inseriscono in fenomeni più larghi di interesse sociopolitico o giuridico o etico o sanitario.
  • La valenza informativa di alcune caratteristiche che appartengono alla sfera privata della persona protagonista o coinvolta in un fatto di cronaca può cambiare secondo il momento o secondo il fatto. Il paese di provenienza di un immigrato clandestino non era informazione ieri, è informazione oggi, forse non lo sarà più domani. Le abitudini sessuali di una persona non fanno notizia in una normale vicenda di cronaca, possono diventare notizia in una vicenda di sangue di difficile spiegazione.
  • Il ricorso, specialmente nei titoli, a indicazioni personali che non contengono un’informazione pertinente al fatto raccontato sono un modo scorretto di fare cronaca. E’ quello che gli americani chiamano “not politically correct”.

L’età

  • Nell’informazione di cronaca è sempre bene indicare, nei limiti del possibile, l’età della persona o delle persone di cui si parla. Si scrive “ventenne”, non 20/enne; ma, meglio: “di venti anni” o anche, in alcuni casi, “venti anni”, cioè senza la preposizione.

Il femminile dei nomi che indicano cariche e professioni

  • Ogni lingua è basata su un principio androcentrico e l’uomo è il parametro intorno a cui ruota e si organizza l’universo linguistico. Là dove è possibile si cerchi di evitare qualche espressione maschilista, anche se storicamente accreditata. Invece di “L’uomo è misura di tutte le cose” si dica “L’individuo…”; invece di “L’uomo della preistoria…” si dica “L’uomo e la donna della preistoria…”; invece di “La storia dell’uomo…” si dica “La storia dell’umanità…”.
  • I casi che càpitano più spesso riguardano le cariche e le professioni. I casi più semplici sono quelli dei nomi che hanno la stessa forma al maschile e al femminile; si tratta solo di cambiare l’articolo: “il presidente”, “la presidente”; “il preside”, “la preside”; “il parlamentare”, “la parlamentare”; “il vigile”, “la vigile”.
  • Il problema è facilmente risolubile anche con i nomi che hanno una regolare forma femminile: “senatore” e “senatrice”, “amministratore” e “amministratrice”, “direttore” e “direttrice”, “redattore” e “redattrice”; analogamente per “consigliere” e “consigliera” e per “deputato” e “deputata”.
  • La soluzione è resa tuttavia difficile da alcune donne che preferiscono la qualifica al maschile: senatrici (Susanna Agnelli, quando lo era) che preferiscono essere chiamate “senatori”, direttrici che preferiscono essere chiamate “direttore”, presidenti (Irene Pivetti, quando lo era) che preferiscono essere chiamate “il presidente”, come se la legittima parità rispetto all’uomo dovesse essere ratificata dalla parallela conquista del suo titolo al maschile.
  • Più difficili sono i casi in cui il nome maschile non ha in uso corrente, fino ad oggi, la forma femminile: “architetta”, “medica”, “chirurga”, “ingegnera” (ma esiste” “infermiera”), “sindaca” (ma esiste “monaca”) e soprattutto “ministra”.
  • Da escludere sono i femminili costruiti con il suffisso -essa (“avvocatessa”, “soldatessa”, “vigilessa”), un suffisso che ha una vaga valenza negativa, salvo i casi già entrati da tempo nell’uso comune (“professoressa”, “dottoressa”, “poetessa”, “studentessa”, “sacerdotessa”).
  • Un invito a un uso non sessista della lingua è stato fatto dall’Unesco in un documento pubblicato nel 1994, in applicazione dei deliberati della venticinquesima e ventiseiesima sessione della Conferenza generale. Il documento, in francese e in inglese, “vuole aiutare a prendere coscienza che certe forme di linguaggio possono essere sentite come discriminatorie per le donne, perché tendono a nascondere la loro presenza o a farla apparire come eccezionale”. Il documento propone delle soluzioni alternative; qualche esempio per l’inglese (proposte già largamente adottate negli Stati Uniti): “chairperson” o “president” invece di “chairman”; “photografer” o “camera operator” invece di “cameraman”, “police officer” invece di “policeman”. Alcuni esempi per il francese: “la ministre”, “la secrétaire générale”, “la présidente”, l’”envoyée extraordinaire”, “la directrice”, “la secrétaire générale”, “la juge”, “la conseillère”.

I forestierismi

  • Gli accresciuti scambi culturali e scientifici, il cinema, la radio, la televisione, le canzoni, gli sport, le canzoni, gli aumentati traffici commerciali e turistici, la maggiore facilità delle comunicazioni, la diffusione dei computer e di Internet hanno sottoposto tutte le lingue del mondo agli influssi forestieri, soprattutto inglesi. Niente di male. La forza di una lingua è anzi nella sua possibilità di dilatarsi, senza pregiudizi di tipo puristico o nazionalistico, per poter dire con tutti i mezzi quello che occorre dire.
  • L’uso di forestierismi non deve tuttavia essere suggerito soltanto dal fascino della lingua straniera, dal gusto dell’esotico, dalla moda del momento, dall’ambizione di presentarsi al lettore come persona di cultura, conoscitrice di altre lingue; e le parole straniere non devono essere adottate prima ancora di averne cercato il possibile equivalente nella lingua italiana e prima di averne accertata la corretta grafia e la corretta pronunzia.
  • L’uso di parole straniere deve rispondere a una esigenza di base: la loro comprensibilità per il pubblico al quale ci si dirige. In questo senso i forestierismi possono essere classificati in tre categorie: 1) i forestierismi già assimilati (come “film”, “sport” e così via) o in via di assimilazione (come “baby-sitter”, “welfare”, “show”); i più non pongono problemi, per altri rimane il problema del loro adattamento al sistema fonomorfologico italiano; 2) i forestierismi che non hanno corrispettivo nella lingua italiana; i linguisti li chiamano “prestiti di necessità” (come “know how”, “hardware”, “modem”); si devono usare con parsimonia, facendone capire il significato dal contesto; 3) i forestierismi inutili (i cosiddetti “prestiti di lusso”) o, per lo meno, non indispensabili (per esempio, “atout”, “background”, “hinterland”), che vengono spesso usati per vezzo, cioè soltanto con l’intenzione di impreziosire il linguaggio.
  • I forestierismi adottati si caricano spesso di significato più o meno diverso da quello posseduto nella lingua di provenienza e quasi sempre vengono pronunziati in maniera differente da quella originaria. E’ un fenomeno inevitabile del processo di assimilazione; è anzi il modo in cui la parola straniera diventa – per la pronunzia (si pensi a “manager”, pronunziato “mènager”), se non per la grafia – una parola italiana: non viene sentita più come qualcosa di estraneo e diventa così parte integrante del patrimonio lessicale della lingua.
  • La parola straniera assimilata o in via di assimilazione non può non adeguarsi alla grammatica dell’italiano almeno per quanto riguarda la formazione del plurale: invariato rispetto al singolare.

Il gerundio

  • Attenzione all’uso del gerundio nelle proposizioni subordinate: il soggetto sotteso al gerundio non può essere diverso dal soggetto della proposizione principale: “L’uomo ha ucciso il suo avversario colpendolo alla testa” è frase corretta; “L’uomo è stato ucciso dal suo avversario colpendolo alla testa” è frase scorretta, perché il soggetto sotteso al gerundio (l’”avversario”) è diverso dal soggetto (l’”uomo”) della proposizione principale.

Imperfetto, passato prossimo, passato remoto

  • L’indicativo imperfetto non è un tempo verbale da proscrivere, perché ha molte utili funzioni: descrittiva, di consuetudine, di contemporaneità; e nel linguaggio dell’informazione serve a indicare, nel passato, un’azione abituale (“Ogni sera mangiava al ristorante”) o un’azione continuata (“Abitava in un appartamento di quattro stanze”). L’errore è di usare l’imperfetto, nei resoconti di cronaca, per significare, al posto del passato prossimo, un’azione conclusa: “Subito dopo, un autocarro, sopraggiunto sulla stessa corsia, tamponava l’auto…” invece di “ha tamponato”.
  • Il passato prossimo ha ormai sostituito il passato remoto per indicare fatti avvenuti da tempo. Non dimentichiamoci tuttavia che il passato remoto esiste e che una corretta scrittura deve approfittare di tutte le sfumature offerte dal giuoco dei tempi verbali. Un esempio: “Garibaldi è vissuto nel secolo scorso”, “Garibaldi visse per molti anni a Caprera”, “Garibaldi amava vivere a Caprera”.

Iniziali maiuscole e minuscole

  • L’antica regola grammaticale dice: iniziale maiuscola per i nomi propri e iniziale minuscola per i nomi comuni, salvo quando si trovano all’inizio del periodo o, comunque, dopo il punto fermo.
  • Meno iniziali maiuscole usiamo, meglio è; ne gode la pulizia del testo, anche da un punto di vista grafico; ne gode il buon senso, contro vecchie abitudini di reverenza, di cortigianeria, di servilismo e contro nuove norme di retorica.
  • Il nome comune prende l’iniziale maiuscola (ma non sempre) quando perde la sua caratteristica di rappresentare una molteplicità di individui (esseri viventi, enti, cose, concetti) e identifica invece un certo ente (per es. l’”Accademia dei Lincei”), un certo concetto (per es. il “Rinascimento”); cioè quando assume il valore di nome proprio.
  • Quando, in una espressione di due o più parole, il primo nome (comune) prende l’iniziale maiuscola perché ha valore di nome proprio, il nome comune (o l’aggettivo) o i nomi comuni (o gli aggettivi) che seguono rimangono con l’iniziale minuscola (per es. “Consiglio dei ministri”, “Federazione nazionale della stampa italiana”).
  • Nelle denominazioni ufficiali di due (o più) parole l’iniziale maiuscola spetta a entrambe le parole: Stati Uniti, Unione Sovietica, Repubblica Ceca; c’è incertezza per Unione Europea e Unione europea, ma sta prevalendo la seconda forma.
  • Stabilite queste norme, giuste o meno giuste, occorre rispettarle con rigore: sia per la correttezza del testo, sia per non disorientare i lettori, sia per non creare problemi ad alcuni programmi elettronici di ricerca e selezione automatica.
  • Da evitare è il ricorso all’iniziale maiuscola per nobilitare qualche nome comune (per es. “paese”, “nazione”, “patria”) o segnalarne l’importanza (per es. “Bomba” per significare la bomba atomica). Pochissime e specialissime le eccezioni: “Repubblica” (ma solo quando è intesa come un simbolo della nazione o è una denominazione ufficiale), “Stato” (unicamente se indica l’istituzione; per es. “Stato e Chiesa”); anche “Camera (dei deputati)” e “Senato” (che, come tali, perdono il valore di nome comune).

Il “lead”

  • Cominciare una notizia raccontando subito gli elementi più avvincenti del fatto è un modo per aiutare il lettore a capire subito di che si tratta e a invogliarlo a proseguire nella lettura (o nell’ascolto). E’ la cosiddetta regola delle “cinque doppie vu”, cioè delle cinque domande a cui si deve (o si doveva) rispondere nelle prime righe della notizia: chi (“who”)?, che cosa (“what”)?, dove (“where”)?, quando (“when”)?, perché (“why”)? Ai paralleli “quis”, “quid”, “ubi”, “quando”, “cur” gli antichi manuali latini aggiungevano, giustamente, una sesta domanda: “quomodo”, cioè “come”.
  • I nuovi criteri di titolazione nell’informazione stampata hanno trasferito in quasi tutti i titoli gli elementi rilevanti del fatto, eliminando così, in questi casi, la necessità del “lead” all’inizio del testo. Il “lead” è però rimasto nell’informazione parlata (radiofonica e televisiva) e nell’informazione di agenzia e “on line”.
  • Il “lead” è un insieme di variabili: non sempre è necessario rispondere a tutte le cinque (o sei) domande; l’ordine delle domande dipende dall’importanze delle risposte; le risposte possono variare da giornale a giornale, secondo i lettori del giornale (scritto o parlato) e i loro diversi interessi conoscitivi.

Il linguaggio parlato

  • Il pubblico degli organi di informazione a stampa e “on line” appartiene ad alcune fasce socioculturali medio-alte; il pubblico della radio e della televisione coincide invece con l’intera società e comprende quindi anche vasti ceti di modesto livello culturale. Ricordiamoci che metà degli italiani hanno la licenza elementare come massimo titolo di studio.
  • Alla radio e alla televisione la comunicazione verbale (stile, intonazione della voce, pronunzia e soprattutto lessico) è importante per la comprensione del testo da parte degli ascoltatori. Il linguaggio parlato deve quindi rispettare ancora più del linguaggio scritto alcune norme che riguardano la comprensibilità: abbreviazioni (v.), “lead” (v.), posizione delle parole nella frase (v.), forestierismi (v.), sigle (v.).
  • Chi legge alla radio e alla televisione è come se fosse in casa del suo ascoltatore, seduto davanti a lui. La prima regola sarebbe quindi di non leggere; se questo non è possibile, è bene leggere facendo finta di non leggere. E’ una regola che riguarda non solo il modo di dire, ma anche il modo di scrivere, con una sintassi non lontana da quella del linguaggio parlato.
  • Le pause devono essere fatte al punto giusto: pausa lunga al posto del punto, pausa breve al posto del punto e virgola o della virgola. Scorretto l’uso (esempi dal vero) della pausa fra nome e aggettivo qualificativo (“Il procuratore / generale Mario Rossi”, “L’ispettore / capo della polizia”), fra nome e complemento di denominazione (“il procuratore / della repubblica di Milano”, “La conferenza / del clima di Buenos Aires”).
  • Da molti anni in luogo dello ”speaker” professionista la lettura delle notizie dei telegiornali è affidata a un giornalista, che porta spesso una sua pronunzia di origine regionale. Gli errori più frequenti riguardano il suono delle vocali e e o. Ecco alcuni esempi: artèfice invece di artéfice, commósso invece di commòsso, còvo invece di cóvo, glóbo invece di glòbo, pióggia invece di piòggia, pontèfice invece di pontéfice, pòzzo invece di pózzo, préda invece di prèda, ricòvero invece di ricóvero, rògo invece di rogo, scópo invece di scòpo, trafòro invece di trafóro, trègua invece di trégua.

Il linguaggio dello sport

  • La caratteristica più rilevante del linguaggio sportivo è il traslato; è il modo in cui esso esprime il proprio fine di dare informazioni, ma anche di suscitare emozione. Il traslato esige fantasia, inventività, ed è per questo che certe cronache dello sport appaiono testi di piacevole e anche divertente lettura.
  • Il traslato ossia ogni tipo di espressione figurata è un espediente per uscire dal luogo comune; così le metonìmie, quando il luogo si sostituisce alle persone (come, nel giuoco del calcio, la “panchina”, cioè l’allenatore e le riserve); così certi vocaboli che si arricchiscono di nuove cariche semantiche (lo schieramento difensivo che diventa il “catenaccio”, il cerchio della pista che diventa l’“anello”); così certi verbi, fraseologici o no (per esempio, “addormentare la partita”, “francobollare l’avversario”, “svirgolare” o “telefonare” un pallone); tutto sta nel non eccedere in barocchismi (il pallone che diventa il “cuoio” o la “sfera”, la porta che diventa il “sacco”, la “panchina che dà ordini” o “esplode”) e nell’evitare le ripetizioni; altrimenti il traslato diventa un nuovo luogo comune.
  • Anche gli aggettivi, cercati fra quelli più enfatici, servono a dare al sostantivo una carica emotiva; così, fra i tanti possibili esempi, “inesorabile” o “micidiale” il tiro, “maiuscola” la prestazione, “guizzante” o “grintoso” il giocatore, e così via; l’unico consiglio da dare è di guardarsi dalla ripetitività, per non cadere nel banale.
  • Anche per i forestierismi si può essere indulgenti, sia perché molti di essi sono internazionalmente legati ai loro sport (come “surplace”, “sprinter”, “sulky”, “inning”, “pivot” eccetera), sia perché, anche se forniti di corrispettivi in italiano (come, per esempio, “assist”, “pressing”, “sprint” eccetera), diventano subito comprensibili ed entrano nella parlata corrente dei lettori; non per niente il linguaggio della cronaca sportiva è, fra i vari linguaggi settoriali dell’informazione, quello che pone minori problemi di intelligibilità.
  • Discutibile è invece il ricorso a parole e espressioni che si richiamano a un linguaggio epico e guerresco e che rischiano di stimolare o di alimentare, nei tifosi, fanatismi e violenze: il “fuoco di sbarramento” del centrocampo, il “bunker” o il “fortino” della difesa o delle “retrovie”, l’”arrembaggio” degli attaccanti, il portiere che rimane “nel mirino”; perfino l’arbitro che non fischia ma “comanda” il rigore.

Nomi di città e toponimi

  • I nomi delle città italiane sono tutti considerati di genere femminile, anche quelli che terminano per o, come Milano, Urbino, Taranto.
  • Con i nomi di città (come “la Spezia”, “l’Aquila”) e con i vari toponimi (come “la Maddalena”) che sono preceduti dall’articolo determinativo, l’articolo si lega alla preposizione che precede il nome: “Un cittadino della Spezia”, “recarsi all’Aquila”, “l’isola della Maddalena”).

Nomi e cognomi italiani

  • Di ogni persona nominata, anche di personalità nota, è bene scrivere, insieme al cognome, anche il nome; almeno la prima volta, se nel testo viene nominata più volte. La norma serve ad aiutare il lettore e ad aiutare la memoria del pc quando i cognomi (per es. “Bianchi”, “Rossi”, Grandi”, “Piccoli”, “Cavalli”, “Formica”) hanno come omografi nomi comuni o aggettivi.
  • Alcuni cognomi italiani sono preceduti da preposizioni (da, de, di, dal, del, della, degli, dagli), che hanno, in genere, il valore di patronimico e prendono l’iniziale maiuscola essendo diventate parte integrante del cognome (per es. “Da Col”, “Della Santa”, “De Gasperi”, che esiste anche come “Degasperi”). Alcune di quelle preposizioni (de, de’, degli, delle) hanno l’iniziale minuscola quando si vuole così sottolineare un’origine nobiliare.

Numeri e aggettivi numerali

  • Nella numerazione (ma non nelle date e con i numeri del lotto) si segua, per ridurre le possibilità di errore, questa norma pratica: in lettere i numeri da uno a undici; in cifre i numeri da 12 in poi, eccettuati “cento” e “mille”.
  • Per la stessa ragione si preferisca “mila” ai tre zeri (“32 mila” invece di “32.000”) e così per i milioni e i miliardi.
  • Nei numeri con più di tre cifre conviene distinguere i gruppi con un punto (“123.456.789”). In area anglosassone la divisione è invece fatta spesso con una virgola (“123,456,789”).
  • Le cifre decimali sono precedute dalla virgola (“12,5”);  spesso si usa però il punto invece della virgola (“12.5”).
  • Nell’informazione di cronaca la scrittura in lettere invece che in cifre è consigliabile anche per i numeri decimali (“alto un metro e novanta”, “una stanza di tre metri per quattro”).
  • In cifre possono andare le percentuali: (“La percentuale oscilla fra 3,4 e 3,7” oppure “fra 3.4 e 3.7”). Piuttosto che il segno % è bene scrivere “per cento”.
  • In lettere è meglio scrivere le frazioni: “due terzi” invece di “2/3”; “due e tre quarti” invece di “2 e 3/4” o “due e 3/4”.
  • Con gli aggettivi numerali ordinali si usino le lettere per i numeri corti (“ventesimo”); per quelli lunghi (per es. “ottantasettesimo”) si usi il piccolo ° esponenziale (“87°”) oppure la sbarra seguita da o al maschile (“87/o”) o da a al femminile (“87/a”).

Le ore del giorno

  • Le ore: in cifre, ma meglio in lettere in un testo narrativo (“alle 9 di stamani, ma, meglio, “alle nove di stamani”). Meglio dividere il giorno in dodici e dodici ore (“alle otto di stamani”, “alle cinque del pomeriggio”, “alle otto di sera”). “A mezzogiorno” è meglio che “alle dodici”; si dica “a mezzanotte”, non “alle ventiquattro”.
  • Ore e minuti: in lettere e in maniera discorsiva in un testo narrativo (“le otto e dieci”, “le nove e un quarto”, “le dieci e venti”, “mezzogiorno e mezzo”, “l’una meno un quarto”, “dieci minuti all’una” o “dieci minuti prima dell’una”); negli altri casi, non narrativi (programmi radiofonici e televisivi, orari di avvenimenti, tempi di gare sportive e altro), le ore e i minuti sono dati in cifre e le ore sono separate dai minuti con un punto; “24.00” indica la “mezzanotte” (“00.00” è negli orari ferroviari).
  • Ore, minuti, secondi: nelle gare sportive si separano con un punto (“3.04.35”); in maniera discorsiva nella cronaca (“Il vincitore ha impiegato tre ore, quattro minuti e 35 secondi”).
  • Zero: è un modo burocratico (solo a volte necessario: negli orari dei treni e degli aerei); da non usare al posto di “mezzanotte” (“Lo sciopero comincerà a mezzanotte di domenica”, non “alle zero di lunedì”).
  • Una: si dica “è l’una”, non “sono le una”.
  • Nella lettura di testi inglesi o americani (giornali o agenzie) si ricordi che le ore vanno da 0 a 12, seguite dalla specificazione AM o Am o am (dal latino “anti meridiem”) oppure PM o Pm o pm (“post meridiem”); in genere le ore sono separate dai minuti con due punti (per es. “14:20 pm”). Nelle agenzie di stampa internazionali le ore di trasmissione delle notizie sono accompagnate dall’ora gmt o sono espresse in ore gmt; in quasi tutte le agenzie l’ora segnata in calce alla notizia indica l’ora di inizio di trasmissione della notizia, non la fine.

Le “parolacce”

  • Il cambiamento dei costumi negli ultimi anni e un diffuso permissivismo ha fatto entrare e continua a fare entrare nel parlato corrente, anche in ambienti colti, parole e espressioni prima proscritte per motivi di opportunità oppure di buon gusto oppure di rispetto per i presenti. E’ un fenomeno che per fortuna porta con sé quella che i linguisti chiamano “desemantizzazione”, cioè il progressivo allontanamento di certi vocaboli dal loro significato originale e quindi la perdita, per alcuni di essi, dell’iniziale volgarità. Un esempio è il verbo “fregarsene”, ormai in uso, di cui si è dimenticata l’origine storico-politica (il motto “me ne frego” sui gagliardetti neri delle prime squadre fasciste) e il suo significato scurrile.
  • Nel campo dell’informazione le regole di base del buon gusto e del rispetto degli altri non possono cambiare né essere ignorate; possono però cambiare, nell’uso scritto e parlato, i motivi di opportunità verso un comune sentire, che inconsapevolmente si va modificando sotto l’influenza del parlato cinematografico e televisivo, dove certe parole e certe espressioni vengono usate senza eccessivo ritegno (e, nel doppiaggio dei dialoghi dei film americani, in forme più gravi del testo originale). Per i giornali il problema riguarda comunque non più di quattro o cinque parole (sostantivi e aggettivi) e di tre o quattro locuzioni verbali.
  • In un organo di informazione la moderazione del linguaggio è un distintivo della sua dignità culturale e un segno di rispetto per i suoi lettori.
  • A volte nei fatti di cronaca, soprattutto politica, l’insulto triviale rivolto da una persona ad un’altra o la “parolaccia” lanciata con intenzionale proposito è tuttavia informazione, e perciò non è inutile riportare l’espressione così com’è, allo scopo di documentarne la gravità.
  • In altri casi la “parolaccia” è contenuta in un testo (per esempio il titolo di un libro o un documento virgolettato); se c’è buona ragione di riferire quel testo, non si può nascondere quella parola.
  • Spesso, invece, la “parolaccia” non ha valenza informativa, e in questo caso non si vede perché (per vezzo? per amore di trasgressione?) non si debba evitare di usarla o di riferirla.
  • Un espediente da scartare è in ogni caso l’uso dell’iniziale della “parolaccia” seguìta da alcuni punti. Sa di ipocrisia.

Il plurale dei nomi

  • Per i nomi che terminano in -cia e in -gia una vecchia regola dice: se la i di -cia è accentata, il plurale è regolare (“farmacia”, “farmacie”); se -cia e -gia non accentate sono precedute da una vocale, la i si conserva anche al plurale (“valigie”, “ciliegie”, “camicie”); se la c di -cia e la g di -gia, non accentate, sono precedute da una consonante oppure sono raddoppiate, allora la i si perde nel plurale (“fasce”, “rocce”, “frange”). Qualche incertezza per “province” e “provincie”.
  • Per i nomi che terminano in -co la regola che dice plurale in -chi per i nomi piani (“cieco”, “ciechi”) e in -ci per i nomi sdruccioli (“canonico”, “canonici”) è piena di eccezioni: da una parte “amici”, “greci”, “porci” ecc.; e dall’altra “carichi”, “strascichi”, “valichi” ecc., senza contare gli ambigui come “stomaci” e “stomachi”. La regola, quindi, non è più una regola; occorre vedere caso per caso.
  • Per i nomi che terminano in -go il plurale è in -ghi per i nomi piani (“laghi”, “chirurghi”); per i nomi sdruccioli qualcuno ha suggerito una regola pratica: plurale in -gi per i nomi che indicano persone (“psicologi”, “meteorologi”, “sociologi”) e plurale in -ghi per i nomi che indicano cose o concetti (“sarcofaghi”, “prologhi” ecc.).
  • Per i nomi che terminano in -io una delle tre soluzioni esistenti (accento circonflesso sulla i finale) è tramontata da tempo; rimangono le altre due, entrambe valide: plurale in -ii (“principii”) oppure con l’accento sulla penultima sillaba (“princìpi”).

La posizione delle parole nella frase

  • Nello sviluppo del linguaggio il primo momento è quello in cui l’individuo intende e si esprime globalmente per frasi; il secondo è quando l’individuo riesce ad analizzare le unità verbali di ciò che dice e di ciò che ascolta. Alcuni linguisti chiamano il primo momento “sintassi della frase” e il secondo “sintassi della parola”. La sintassi della frase come primitivo processo mentale continua ad essere presente, appunto perché naturale, anche in mentalità adulte e progredite e spiega com’è che così spesso le parole nella frase vengono collocate in maniera casuale e non meditata, tanto da alterare il senso o addirittura da raggiungere effetti di involontaria comicità.
  • La soluzione è nel prendere consapevolezza del problema e nel porre attenzione, in una opportuna rilettura, non alla frase ma alle parole che compongono la frase (specie nei titoli). Il semplice spostamento di una parola può evitare frasi come queste (gli esempi sono tutti tratti dal vero): “Un blitz contro la mafia dei carabinieri” (“Un blitz dei carabinieri contro la mafia”); “Un convegno sul terrorismo in Campidoglio” (“In Campidoglio un convegno sul terrorismo”); “L’assessore alla cultura di Milano” (“A Milano l’assessore alla cultura”); “Un’ordinanza del ministro per le salse industriali” (“Sulle salse industriali un’ordinanza del ministro)”.

La punteggiatura

  • La punteggiatura è un sistema di comodo, che serve a rendere più facile la comprensione di un testo e più chiaro il senso del discorso. Nel giornalismo scritto la punteggiatura ha due compiti: il primo, sintattico, è di distinguere i membri del testo (periodi, proposizioni, parti di una proposizione); la seconda, pausativa, è di segnare le pause là dove sono richieste. La punteggiatura costituisce quindi una serie di sussìdi per il giornalista che scrive e di aiuti per il lettore che legge.
  • La virgola (corrisponde a una pausa breve) è il segno più importante, perché la sua presenza o la sua assenza può rendere più chiaro il senso della frase e, in alcuni casi, può addirittura cambiarlo. La virgola non è indispensabile ma utile, a volte: 1) all’inizio del periodo (“Quando piove, è meglio stare in casa”); 2) per alleggerire la frase (“I presidenti dell’Italia e degli Stati Uniti, Carlo Azeglio Ciampi e Bill Clinton, si sono incontrati…”); 3) se si vuol dare forza a qualche avverbio o congiunzione (“E’ stato questo, infatti, che ha…”); 4) prima di “cioè” e, talvolta, di “ossia” (“Due giorni fa, cioè domenica…”). La virgola è indispensabile: 1) all’inizio del periodo o della frase, quando c’è il rischio di equivoci (“Poco dopo, l’auto ha proseguito”; “Durante il dibattito, vivissimo è stato…”; “Alle dieci, due agenti”); 2) dopo interiezioni, esortazioni, vocativi e termini simili (“Per cortesia, si faccia silenzio”, “Oh, che sorpresa”, “Sì, è andata proprio così”); 3) con “meglio”, prima e dopo, quando è preceduto da “o” (“…o, meglio,…”). In alcuni casi la virgola può cambiare il senso del discorso; due esempi: 1) “Il delegato, Mario Rossi, ha detto…” (il delegato è uno solo, Mario Rossi); “Il delegato Mario Rossi ha detto…” (Mario Rossi è uno dei delegati); 2) “I viaggiatori, sprovvisti di biglietto, sono stati fatti scendere” (tutti i viaggiatori); “I viaggiatori sprovvisti di biglietto sono stati fatti scendere” (solo i viaggiatori sprovvisti di biglietto). In alcuni casi, specie col pronome relativo “che”, la virgola sarebbe un errore; due esempi: “Il libro (,) che mi ha regalato è interessante”, “La decisione (,) che è stata presa provocherà…”.
  • Il punto fermo (una pausa lunga) indica la conclusione del periodo o di una frase all’interno del periodo. Il punto e virgola (una pausa intermedia) indica che la frase non conclude il racconto o il discorso. I due punti indicano una sospensione che si apre ad una o ad altre informazioni.
  • Il punto interrogativo conclude una frase con una domanda. La frase successiva comincia, di norma, con l’iniziale maiuscola, ma se anche questa frase è interrogativa e si aggiunge alla domanda precedente, l’iniziale può essere minuscola (“Che cosa voleva? che cosa si nascondeva nella sua richiesta?”).
  • Il punto esclamativo indica un’interruzione con un tono enfatico o imperativo; è da tempo, per fortuna, in generale disuso.
  • Le virgolette servono: 1) a introdurre un discorso diretto; 2) a individuare parole o frasi in un discorso indiretto, per garantirne l’autenticità o segnalarne l’importanza; 3) per marcare parole che si considerano nuove o insolite o espressioni latine o straniere o dialettali; 4) per riferire parole normali a cui si vuol dare un significato particolare; 5) per avvertire che un parola è usata in senso ironico; 6) per indicare titoli di libri e di opere creative o testate di giornali.
  • Le virgolette non è bene usarle per identificare dichiarazioni attribuite a qualcuno, non raccolte direttamente ma riferite da terze persone. In questi casi, meglio il discorso indiretto o, per lo meno, la precisazione che le dichiarazioni sono riferite da altri.
  • Le virgolette non possono essere usate, specie nei titoli, per identificare non dichiarazioni altrui ma l’interpretazione che il giornalista dà di quelle dichiarazioni o la sintesi che ne fa.
  • In chiusura di un testo virgolettato il punto, la virgola o il punto e virgola si scrivono dopo le virgolette, non prima: “….”; “….”.
  • Le lineette possono essere utili al posto delle virgole, in un inciso un po’ lungo, per rendere più evidente il legame fra il soggetto e il suo verbo: “Il Senato – ……………………. – ha deciso di aggiornare i suoi lavori”.
  • Le parentesi tonde racchiudono una o più parole o una frase di spiegazione o di ampliamento del testo; l’inciso deve poter essere eliminato senza compromettere la costruzione del periodo.

Le ripetizioni

  • La ripetizione della stessa parola a breve distanza nella frase o nel periodo è vista da molti come qualcosa da evitare in maniera assoluta. Bisogna distinguere: 1) accostamenti di parole di origine comune oppure di origine diversa ma graficamente o foneticamente simili (per es. “eventi” che “avvengono”; “cure” che sono “trascurate”; “un’avventura” che è “avventata”; “sedersi su una sedia”; “finché alla fine”; “vie impervie”; “il ferito” è “finito”; “il candidato” è “andato”; “l’organizzazione” della “manifestazione” e così via); è bene evitare queste sgradevoli dissonanze; 2) vicinanza di nomi o espressioni relative alla stessa persona; in alcuni casi basta qualche semplice espediente (“Il presidente della repubblica Carlo Azeglio Ciampi è arrivato a Milano ieri mattina e…; nel pomeriggio il presidente si è incontrato…”), senza ricorrere a sinonimi più lontani (“Il presidente della repubblica Carlo Azeglio Ciampi è arrivato a Milano questa mattina…; nel pomeriggio il Capo dello stato…”) o a quella che i grammatici chiamano “variatio” (“Il presidente della repubblica Carlo Azeglio Ciampi è arrivato a Milano questa mattina; all’aeroporto il sindaco ha salutato il Capo dello stato a nome della città”; più semplice: “Il presidente della repubblica è arrivato a Milano questa mattina e all’aeroporto il sindaco lo ha salutato a nome della città”); la “variatio” viene a volte usata senza necessità e con effetti anche comici, quanto più il sinonimo è un luogo comune o il risultato di fantasiose invenzioni; “Garibaldi” e “l’eroe dei due mondi”, “Napoleone” e “il grande corso”, “Roma” e “la città eterna”, “Venezia” e “la città lagunare”, Firenze” e “la città del giglio”, “Napoli” e “la metropoli partenopea” fino a “San Gimignano” non solo “città dalle cento torri” ma “Manhattan collinare”; molto meglio ripetere il primo nome, anche se è a breve distanza.

Le sigle

  • Le sigle ossia gli acronimi formati dalle lettere iniziali (a volte delle sillabe) delle espressioni di cui sono una abbreviazione sono nomi, e possono essere nomi propri e nomi comuni.
  • Le sigle che indicano un certo soggetto (quello e non altri) sono nomi propri e quindi devono avere l’iniziale maiuscola e minuscole le altre lettere (per es. “Ue”, cioè “Unione europea”, “Usa”, “Iri”).
  • Se la sigla non è ben conosciuta, è opportuno accompagnarla con la denominazione per esteso o con la spiegazione della sua natura.
  • Alcune sigle sono diventate nomi comuni perché si riferiscono ad una molteplicità di soggetti (per es. “tir”, “laser”, “usl” o “asl”) e perciò hanno l’iniziale minuscola, così come quando vengono usate come aggettivi (per es. “doc”, “vip”).

Le sineddochi

  • Le sineddochi o metonìmie o, meglio, i trasferimenti semantici fanno parte abituale del linguaggio giornalistico e molti di essi sono entrati nel linguaggio comune: “Quirinale” per “presidenza della repubblica”, “Palazzo Chigi” per “presidenza del consiglio”, “Casa Bianca” per “presidenza degli Stati Uniti”, il “Cremlino” per “governo russo”, “Londra” o “Pechino” per “governo inglese” o “governo cinese” e così via. Alcune espressioni sono di meno facile comprensione (e infatti non sono entrate nella parlata comune): “Quai d’Orsay” per “ministero degli esteri francese”, “Downing Street” (o, peggio, “il numero 10 di Downing street”) per il primo ministro britannico e quindi per il governo, “Scotland Yard” per la polizia londinese.
  • L’uso delle metonìmie ha due limiti: uno è che si facciano comprendere, l’altro è che non facciano ridere. Può accadere in alcuni casi come “panchina” (nel senso dell’allenatore di una squadra di calcio e anche delle riserve che durante la partita siedono sulla panchina al bordo del campo); è un’espressione simpatica, tanto è vero che è passata anche in altre aree linguistiche; ma che dire della “panchina” che “esplode” o che “ha mangiato la foglia” o che “si alza” per inveire contro il “fischietto” (che è l’arbitro)?

I sinonimi

  • I sinonimi nel senso di parole che abbiano lo stesso identico significato, non esistono (salvo i cosiddetti “geosinonimi”, cioè i differenti vocaboli che vengono usati in regioni diverse per lo stesso soggetto). L’esistenza di parole che vivono strettamente affiancate, che appaiono sostituibili l’una all’altra, ma che in realtà si distinguono anche per piccole differenze, è una fortuna per il giornalista che vuole trovare il vocabolo più adatto e più preciso per esprimere un certo concetto; è anche un modo per contribuire a frenare l’impoverimento della lingua. Un dizionario dei sinonimi è un ottimo strumento di lavoro per il giornalista coscienzioso.
  • Specie nell’informazione di cronaca molti fatti o fenomeni presentano un largo ventaglio lessicale. Qualche esempio: “piovere”, “pioviscolare”, “piovigginare”, “pioviccicare”, “diluviare”; “dormire”, “dormicchiare”, “sonnecchiare”, “pisolare”. Anche per gli aggettivi: “idoneo”, “adatto”, “appropriato”, “atto”, “confacente”, “conforme”, “consono”.

La sintassi della frase

  • Il periodo breve facilita la lettura; e un periodo breve è fatto di proposizioni principali. Sono le proposizioni subordinate (di primo grado e, peggio, di secondo grado) che rendono pesante il periodo e pesante la lettura. Di molte proposizioni subordinate si può fare a meno, specie delle proposizioni relative. Un esempio: “Il presidente, che è arrivato stamani in elicottero, ha inaugurato..”; meglio: “Il presidente è arrivato stamani in elicottero e ha inaugurato..”; oppure: “Il presidente ha inaugurato..; era arrivato stamani in elicottero”.

Gli stereotipi

  • Le lancette dell’orologio regolano e condizionano il lavoro giornalistico, specie in un quotidiano, e la fretta suggerisce spesso un lessico di pronto uso e quindi, di necessità, stereotipato. E’ così che, soprattutto nell’informazione di cronaca, si trovano aggettivi e locuzioni che il giornalista scrive senza sforzo concettuale ma solo in forza di automatismi mentali.
  • Gli aggettivi di questo tipo si riconoscono per essere sempre legati allo stesso sostantivo in un permanente binomio; alcuni di essi, presi da soli, appaiono inusuali e altri perfino oscuri. Qualche esempio: “acuminato” (il coltello), “agghiacciante” (la sciagura), “brillante” (l’operazione”), “cauto” (l’ottimismo), “contundente” (il corpo), “futili” (i motivi), “infima” (la minoranza), “ridente” (la località), “rigoroso” (il riserbo), “rocambolesca” (l’evasione), “stringente” (l’interrogatorio).
  • A questa categoria di stereotipi appartengono anche molte locuzioni, di cui ecco qualche esempio: “ammasso di rottami”, “anonima sequestri”, “battuta a vasto raggio”, “conflitto a fuoco”, “due fitte ali di folla”, “momento della verità”, “morsa del gelo”, “racket del vizio”, “regolamento di conti”, “scherzo di pessimo gusto”.

Le tautologie

  • La tautologia, cioè l’uso di due parole quando ne basterebbe una o di espressioni complesse al posto di una più semplice, è un modo frequente nel linguaggio burocratico. Di qui, purtroppo, si trasferisce spesso nel linguaggio giornalistico. Ecco alcuni esempi: “A norma delle leggi vigenti”, “Entro e non oltre il tal giorno”, “Costituire una apposita commissione”, “All’alba di ieri mattina”. Anche fra gli aggettivi: “panacea universale”, “ceto sociale”, “requisiti richiesti”, “reperti archeologici trovati”. Anche con i verbi: “Ha dapprima cominciato”, “ha poi aggiunto”, “ha infine concluso”.

Le testate dei giornali

  • Le testate dei giornali possono essere identificate con le virgolette oppure scrivendole in corsivo: “Corriere della sera” oppure Corriere della sera.
  • Nei complementi indiretti la testata è preceduta dalla preposizione articolata: “Una corrispondenza del Corriere della sera”, “Una lettera inviata al Corriere della sera”.
  • Con le testate che cominciano con un articolo determinativo si segue lo stesso criterio: “l’Unità”, “Un redattore dell’Unità”; “Il Manifesto”, “Una vignetta del Manifesto”; “la Voce Repubblicana”, “Un fondo della Voce Repubblicana”. In certi casi si usa anche la preposizione semplice: “Un giornalista di Repubblica”, “La copertina di Time” (la rivista americana).

I titoli di libri e di opere creative

  • I titoli di opere letterarie, di poesie, di film, di dipinti, di sculture, di composizioni musicali, di programmi radiofonici e televisivi vengono scritti in corsivo. Iniziale maiuscola solo per la prima lettera del titolo, anche se è un articolo (“I promessi sposi”, “La divina commedia”, “Otto e mezzo”, “Se questo è un uomo”). L’articolo, se c’è, viene declinato e l’iniziale maiuscola si sposta dall’articolo a quella che è diventata la prima parola del titolo: “Un capitolo dei Promessi sposi”, Un canto della Divina commedia”). Se il titolo non è introdotto dall’articolo oppure comincia con una preposizione, i complementi indiretti sono introdotti, come è ovvio, dalla preposizione semplice: “I personaggi di Otto e mezzo”, “L’autore di Se questo è un uomo”).

Le unità di misura

  • Le unità di misura è meglio siano scritte per esteso, lasciando le abbreviazioni solo a testi non narrativi e quindi alle parti non narrative del giornale; infatti, così come si dice parlando, è meglio scrivere: “La corsa dei cento metri”, “un bimbo di tre chili e mezzo”, “due litri di vino”, “un percorso di venti chilometri”.

I verbi transitivi, intransitivi e ausiliari

  • I verbi transitivi attivi hanno l’ausiliare “avere”; i verbi intransitivi hanno l’ausiliare “essere”, ma non è una regola certa: alcuni di essi hanno infatti l’ausiliare “avere” (per es. “dormire”, “parlare”, “piangere” così come altri che hanno un “oggetto” espresso da un complemento indiretto, come “aderire”, “rinunciare”); hanno l’ausiliare “avere” anche alcuni verbi intransitivi che diventano transitivi quando hanno il cosiddetto “complemento oggetto interno” (per es. “vivere”: “ha vissuto una vita serena”).
  • I verbi impersonali, cioè i verbi che non hanno un soggetto determinato e si usano soltanto all’infinito o alla terza persona singolare (per lo più si tratta di verbi che indicano fenomeni atmosferici: “piovere”, “tuonare”, “grandinare”, “nevicare”) hanno l’ausiliare “essere”, ma a volte l’ausiliare “avere”.
  • I verbi cosiddetti servili (“dovere”, “potere”, “volere”) prendono l’ausiliare del verbo che servono; quindi l’ausiliare “essere” con i verbi intransitivi (per es. “Non è potuto partire”). Prendono l’ausiliare “avere” se sono seguiti dal verbo “essere” (per es. “Ha voluto essere gentile”).