Giornalismo e Resistenza a Firenze

Intervento al convegno organizzato dalla Federazione della stampa il 26 maggio 2005 a Montecatini Terme per il 60° della Liberazione


 

     Il mio intervento sicuramente non aggiungerà niente alla storia del giornalismo clandestino durante la Resistenza e al patrimonio di idee, di progetti, di speranze che caratterizzò quel momento di impegno e di lotta. La mia vuole essere soltanto una testimonianza di vita – vissuta a Firenze tra il 1944 e il 1945 – che può spiegare, forse, perché tanti giovani videro allora nel giornalismo uno strumento di liberazione culturale e di conquista democratica. In sala so che vi sono anche molti ragazzi delle scuole di questa città; è a loro che in particolare  mi rivolgo.

     Sono passati, poi, tanti anni da allora, e mi si capirà se i ricordi di quei tempi lontani mi tornano nella mente soprattutto come silenzi e come suoni.

     Il silenzio, per esempio, il silenzio della notte. Oggi, se di notte ci affacciamo alla finestra sentiamo che la città vive, respira. Allora no; il silenzio della notte, nel buio, era un silenzio assoluto, un silenzio di morte. E che il silenzio era silenzio ce ne accorgevamo quando veniva interrotto da una raffica improvvisa di mitra – chissà dove chissà perché – e ancora di più quando era squarciato dalle sirene degli allarmi aerei.

       Fra i ricordi c’è però anche il canto di una ragazza. Viveva al piano di sotto di uno dei tanti appartamenti dove mi nascondevo. Era un canto dolcissimo. Doveva essere una ragazza, giovane e anche bella. Ma io non l’ho mai vista, non mi sono mai affacciato alla finestra per vederla. Era la figlia di un ufficiale delle SS fasciste e nessuno doveva sapere che al piano di sopra c’era nascosto un giovane: un disertore, un sovversivo, un fuorilegge. E poi, sulla mia testa, come su quella di tanti come me, c’era una taglia: al delatore davano cinquemila lire e cinque chili di sale.

      Poi il ricordo di un altro suono; in realtà era un rumore, ma per me era un suono, quasi una musica; il rumore – tra-tra, tra-tra, tra-tra – della piccola macchina tipografica che stampava il mio giornalino, “l’Opinione”, la testata che era stata quella di Camillo Cavour a Torino a metà dell’Ottocento e che ora era la testata di tutti i giornali clandestini del partito liberale (il partito che aveva allora come presidente il mio maestro, Benedetto Croce). Il giornale si stampava in una piccola tipografia artigiana, in via 27 aprile. La macchina era una macchina piana, che veniva mossa a mano. Per fortuna, a mano, perché spesso mancava la corrente elettrica e la luce, e bisognava scrivere al lume di candela e comporre (anche questo a mano, compositoio e magazzino dei caratteri) al lume di candela (a volte anche di giorno; tutte le finestre, per motivi di sicurezza, venivano chiuse e coperte da tende pesanti).

      Ma il problema non era di scrivere e di stampare il giornalino. Il problema era distribuirlo. Avevamo dei ragazzi e delle ragazze sui 15-16 anni (più grandi, avrebbero rischiato di essere rastrellati dai repubblichini). Portavano una grossa borsa di stoffa a tracolla, come quella di chi faceva la borsa nera. Ci mettevano i giornali, poi entravano nei portoni delle case e infilavano il giornale nelle cassette delle lettere. Un giorno scoprii che uno di questi ragazzi – si chiamava Giancarlo Ciruzzi – li lasciava sulle panchine della vicina piazza Indipendenza. Così – mi disse – lo possono prendere tutti. Ma così non aveva rispettato – diremmo oggi – le regole d’ingaggio; ed io ero responsabile davanti a sua madre; che non venne a saperlo, per fortuna.

      Un altro rumore. Il 3 agosto (il 1° agosto ero tornato a casa dopo undici mesi di latitanza; la Guardia nazionale repubblicana aveva lasciato la città), la sera, alle dieci; altro che rumore; fu un enorme boato, e i muri delle case scossi come per un terremoto e qualche vetro delle finestre che si ruppe, e ancora altri boati nella notte. Abitavo in via Panzani, a tre o quattrocento metri in linea d’aria dall’Arno. Capimmo subito: i tedeschi avevano fatto saltare in aria i ponti; ma come? anche il ponte a Santa Trinita, il ponte più bello del mondo? Qualcuno si mise a piangere.      In quei giorni il giornalino non uscì. I tedeschi avevano proibito di uscire di casa e sparavano su chi lo faceva. Solo dopo due o tre giorni lo permisero, ma solo per qualche ora e solo alle donne e ai bambini: perché potessero prendere l’acqua alle fontanelle delle strade; in casa l’acqua non arrivava più.

      Di notte, sopra di noi, si sentivano i sibili dei proiettili. Alla finestra, io e un amico che stava al piano di sopra passavamo il tempo a scommettere; non di soldi; di soldi ne avevamo pochi in tasca. “In partenza” o “in arrivo”? Se il sibilo era in partenza, erano le artiglierie degli inglesi e degli americani che sparavano dalle colline a sud della città; se erano in arrivo, erano gli 88 dei tedeschi, che sparavano da Fiesole e da monte Morello. Era facile capirlo: i proiettili degli alleati scoppiavano a nord, un po’ lontano; i proiettili dei tedeschi scoppiavano vicino, nel centro della città. A volte si sentivano grida e poi il rumore sgangherato del carretto a due ruote, che serviva da lettiga, portato a mano dai fratelli della Misericordia, vestiti di nero, con una bandiera e un bracciale con la croce rossa.

      E poi, la mattina dell’11 agosto, alle 6.45, il suono della “Martinella”, l’antica campana della torre di Palazzo Vecchio, e poi anche la campana del Bargello, lì vicino. Li sento ancora oggi nelle orecchie; che belli i rintocchi di quelle campane. Era il segnale dell’insurrezione; era il segnale atteso e concordato, e doveva arrivare prima che arrivassero i soldati inglesi e americani; la città dovevamo liberarla noi, dai tedeschi e dai fascisti; eravamo noi, da soli, a dover conquistare la nostra libertà.

      Qualche ora dopo, il sindaco, nominato dal Comitato di liberazione, era al suo posto in Palazzo Vecchio e così in questura il questore e così nel palazzo Medici-Riccardi il presidente della deputazione provinciale e così il comandante dei carabinieri e così via; mentre sulla città continuavano a cadere i proiettili delle artiglierie tedesche e i franchi tiratori fascisti sparavano dall’alto delle case. Ci furono più di duecento morti in quei giorni e quasi duemila feriti.  In tipografia, in via 27 aprile, c’era già il tipografo, e c’era anche un signore che stava al piano di sopra e mi strinse la mano (il tipografo me ne aveva parlato: è un avvocato, un cattolico, sta dalla nostra parte, ma è un po’ preoccupato per quello che facciamo; ha due figli giovani). Era Attilio Piccioni e i figli erano Piero e Leone, Piero Piccioni e Leone Piccioni.

      Il giornalino fu subito scritto e stampato. Lo distribuimmo la mattina dopo, e ora senza più paura. Lo distribuivamo per le strade e con l’”Opinione” c’era anche l’”Avanti” e il “Popolo” e l’”Unità”. Avere idee politiche diverse, e poterle esprimere liberamente; questa, ragazzi, è la democrazia. Il mio (anticipando quello che penso su come deve essere fatta l’informazione, cioè al servizio dei cittadini) aveva anche notizie utili: l’elenco dei posti di pronto soccorso, l’elenco delle pompe a mano per prendere l’acqua.

        Intanto era uscita anche la “Nazione del popolo”, il quotidiano del Comitato toscano di liberazione. Era stampato in via San Gallo con una macchina messa in moto, mancando l’elettricità, dal motore di una vecchia Balilla. Il titolo diceva a tutta pagina: “Firenze in mano ai patrioti”.

       Il Comitato di liberazione era composto da cinque partiti e il giornale aveva cinque direttori; e che direttori: per il partito d’azione Carlo Levi , Vittore Branca per la Democrazia cristiana, il germanista Vittorio Santoli per il partito liberale. Anche la redazione era composta in maniera paritetica: tanti comunisti, tanti liberali, tanti democristiani, tanti socialisti, tanti del partito d’azione. Ecco, dice qualcuno: ecco il primo caso di lottizzazione. No, non era lottizzazione, era il principio dell’unità nazionale che aveva caratterizzato la Resistenza.

      Lavorare in quella redazione fu un grande esempio di tolleranza. Eravamo di estrazione diversa – laici e cattolici, marxisti e crociani – e mai ci fu una parola di troppo o una parola sopra le righe. Il problema era facilitato dal fatto che eravamo tutti di sinistra, anche i democristiani e i liberali. E potevamo non esserlo con tutto quello che era successo e continuava a succedere, e con le macerie intorno a noi, e con la fame, tanta fame?

     Ognuno di noi è la sua storia personale. E’ l’ambiente in cui è vissuto, è i libri che ha letto, è le gioie che ha goduto e i dolori che ha sofferto, è le esperienze di vita cha ha vissuto. Noi siamo quelle esperienze. Perché siamo diventati giornalisti? Quasi tutti avevamo una professione e avevamo fatto altri progetti. Ma con la fine del fascismo e del nazismo, col ritorno difficile della libertà pensammo che il giornalismo, al di là delle sue finalità istituzionali, era un modo per consolidare l’appena rinata democrazia e i risorgenti istituti democratici, un modo per contribuire alla crescita civile della società. Il giornalismo come un servizio da rendere alla comunità.  Era, ed è,  anche un potere? Sì, è un potere, ma soltanto nella misura in cui sia portavoce dell’unico legittimo detentore del potere, che è il cittadino.  

     Chiedo scusa per questa testimonianza un po’ troppo personale. Ma sono questi ricordi che ci fanno vivere, sono questi ricordi che a volte ci fanno tornare giovani e ci fanno indignare se qualcuno tenta di mettere in discussione quei valori che sono il fondamento della nostra esistenza. Sono quei ricordi che ci fanno dire ai più giovani: beh, qualcosa noi vecchi vi abbiamo dato; difendetelo.