Cronache di mezzo secolo

Queste sintesi – una cartella per anno – degli avvenimenti più importanti, italiani e internazionali, dal 1945 al 1997, furono scritte per una versione multimediale in CD di “Mezzo secolo della nostra vita”, tre volumi pubblicati da “Gutemberg 2000” nel 1992, 1993 e 1994

 

1945 

   

L’8 maggio termina la seconda guerra mondiale: una guerra spaventosa.

  E’ stata una guerra lunga: quattro anni e otto mesi, dal 1° settembre 1939, quando la Germania nazista ha invaso la Polonia, costringendo Gran Bretagna e Francia a entrare in campo.

 E’ stata una guerra che giustamente è detta mondiale, perché ha coinvolto la maggior parte degli stati del pianeta.

 E’ stata una guerra nuova: nuova per le innovazioni tecniche (l’uso massiccio dell’aviazione e dei carri armati, l’introduzione delle navi portaerei, la scoperta e l’adozione  del radar); nuova per la sua carica ideologica (la libertà e la democrazia contro la dittatura), e quindi per il coinvolgimento dell’intera popolazione nelle vicende belliche (i bombardamenti aerei a tappeto, senza distinzione fra combattenti e civili); nuova per la brutalità – quella nazista – contro la gente inerme (il genocidio degli ebrei, la strage degli zingari, degli omosessuali, degli oppositori politici).

 E’ stata una guerra tragica quant’altre mai: cinquanta milioni di morti e interi paesi distrutti: l’Inghilterra, la Germania, l’Austria, il Belgio, la Francia, la Russia, l’Italia.

 Con la caduta del fascismo, il 26 luglio del 1943, l’Italia ha rotto con l’alleata Germania e ha scelto il campo voluto dalla maggioranza dei cittadini. Un corpo di spedizione si è affiancato alle armate inglesi e americane che hanno risalito la penisola e soldati italiani hanno partecipato alla liberazione delle città del Nord. Nel Centro Italia fino all’estate del 1944 e soprattutto nell’Italia settentrionale fino a guerra conclusa la Resistenza partigiana (200 mila combattenti, 70 mila morti: comunisti, socialisti, partito d’azione, cattolici, liberali, anche monarchici) ha meritato il plauso dei comandi alleati.

 Dall’8 settembre del 1943, giorno dell’armistizio, gli italiani – dalla Sicilia alla Toscana e alle Marche – sono scesi nelle strade e nelle piazze per festeggiare le truppe alleate in avanzata faticosa verso nord; ma per tutto il 1944 e nei primi mesi del 1945 le regioni settentrionali sono state lacerate da una guerra civile – italiani contro italiani – intorno a Benito Mussolini, liberato dai tedeschi nel settembre del 1943 e diventato capo di uno stato controllato dalle autorità naziste: la repubblica sociale di Salò.

 Ora – 8 maggio – tutto è finito. Soldati americani provenienti da ovest e soldati russi provenienti da est si sono incontrati sul fiume Elba. Benito Mussolini è stato fucilato sul lago di Como, Adolfo Hitler si è suicidato nel suo “bunker” di Berlino, circondato dall’armata rossa vittoriosa. Finalmente il cannone tace sulla terra devastata, sulle famiglie disperse, sulle case distrutte. Da questa festa di morte potrà nascere l’amore?

 Ma la guerra non è ancora terminata nel Pacifico. Per la capitolazione del Giappone bisogna aspettare il 1° settembre, dopo le esplosioni atomiche di Hiroshima e di Nagasaki: altri 200 mila morti; morti in un attimo.

    Non comincia la pace; con la bomba atomica comincia quello che verrà chiamato l’equilibrio del terrore.

 

1946

Con la sconfitta del Giappone la guerra è finita anche nel Pacifico, ma le attese di pace e di giustizia che, dopo tanti anni di sangue e di morte, animano i popoli del mondo, non sembrano trovare risposta.

Il 5 marzo all’università americana di Fulton quello che è stato uno degli artefici della vittoria alleata, l’ex primo ministro inglese Winston Churchill denunzia il sistema che l’Unione Sovietica ha cominciato a creare nell’Europa orientale a difesa dei propri confini: “Una cortina di ferro” dice Churchill “è calata sull’Europa, da Stettino, nel mar Baltico, a Trieste nell’Adriatico”.

 Giuseppe Stalin, l’altro grande protagonista della guerra e della vittoria, ha contribuito validamente alla sconfitta della Germania nazista, ma con l’occupazione degli stati baltici (Lettonia, Estonia e Lituania), della Polonia orientale, della Bucovìna, della Rutenia e della Bessarabia e con la graduale creazione di governi comunisti in tutti i paesi dell’Est europeo sta edificando e consolidando il suo progetto: un grande impero sovietico. Comincia in quest’anno quella che  poi sarà chiamata la “guerra fredda” fra l’Occidente democratico e l’Oriente comunista; durerà 44 anni, fino al dicembre 1989.

 La divisione del mondo in due blocchi contrapposti taglia trasversalmente, con la presenza dei partiti comunisti, tutti i paesi dell’Europa occidentale; ne è coinvolta anche l’Italia, dove i comunisti sono quasi un terzo dei cittadini.

 Il primo impegno dell’Italia è la scelta fra monarchia e repubblica. Non è solo un problema di carattere istituzionale; per metà degli italiani l’abbandono dell’istituto monarchico appare un pericoloso salto nel buio, che lascerebbe aperto al Partito comunista uno spazio per chi sa quali avventure; per l’altra metà, invece, la repubblica, dopo la ventennale collusione di Casa Savoia col fascismo di Mussolini, rappresenta anche il segno di un rinnovamento morale.

 In Italia, dopo un breve governo guidato da Ferruccio Parri, che è stato uno degli eroi della Resistenza, è ora presidente del consiglio il democristiano Alcide De Gasperi, a capo di un governo composto da tutti i partiti, compreso il Partito comunista, che hanno costituito, durante la Resistenza, il Comitato di liberazione nazionale.

 Monarchia o repubblica? Il paese è diviso e incerto. Il 9 maggio re Vittorio Emanuele III abdica in favore del figlio Umberto, nel tentativo di presentare al verdetto del popolo un’immagine di re meno compromessa col fascismo. Il 2 giugno si vota. Vince la repubblica, ma con uno strettissimo margine: il 54.3 per cento contro il 45.7; e i voti non validi sono il 6.1.

 Insieme al referendum istituzionale si vota per eleggere una assemblea costituente che scriva la nuova costituzione dello stato. Le prime libere elezioni dal 1924, alle quali partecipano per la prima volta anche le donne, vedono l’esistenza di tre partiti di massa: la Democrazia cristiana, al primo posto, ha il 35.2 per cento dei voti;  il Partito socialista ha il 20.7; il partito comunista il 18.9.

 Nasce il secondo governo De Gasperi, composto da democristiani, comunisti, socialisti e repubblicani; ha di fronte  problemi enormi: la ricostruzione del paese, la ripresa delle attività economiche, l’ordine pubblico, un generale disagio; c’è ancora tanta fame in giro.

 

1947

     

Dieci minuti di silenzio in tutto il paese, il 10 febbraio, salutano tristemente il trattato di pace imposto all’Italia dalle potenze vincitrici e firmato a Parigi; ma a leggerlo bene il trattato non contiene clausole tremende. L’Italia perde le colonie (la Libia, l’Eritrea, la Somalia), anticipando così il generale processo di decolonizzazione dell’Africa; perde terre che non erano sue né per storia né per tradizione (le isole del Dodecanneso); perde, ovviamente, l’Etiopia e l’Albania, cioè paesi aggrediti e invasi dal fascismo.

 Motivo di dolore è invece la perdita dell’Istria e soprattutto delle sue città costiere, che ancora oggi conservano l’arte, la cultura e la lingua dell’antica repubblica di Venezia; è dolore  soprattutto il distacco di Trieste, che, per non restituirla all’Italia e non darla alla Jugoslavia di Tito, viene trasformata in Territorio libero (tornerà italiana nel 1954). Per fortuna un accordo diretto fra Alcide De Gasperi e il cancelliere austriaco Karl Gruber ha lasciato all’Italia l’Alto Adige-Sud Tirolo, in cambio di una larga autonomia alla popolazione di lingua tedesca.

 Sono in corso processi ben più preoccupanti. La contrapposizione fra blocco sovietico e blocco occidentale si radicalizza e gli Stati Uniti si pongono alla guida economica e politica dell’Occidente. I governi europei di unità nazionale, che continuavano a raccogliere le forze politiche protagoniste della lotta antinazista, si sfaldano, e il partito comunista viene mandato all’opposizione. In Italia i socialisti, che hanno rinnovato il patto di unità d’azione con i  comunisti, si riuniscono a congresso in gennaio e si scindono: la minoranza socialdemocratica si stacca dal partito e, in un congresso improvvisato a Palazzo Barberini, fonda un altro partito, il Partito socialista dei lavoratori italiani.

 Di ritorno da un viaggio a Washington in gennaio, Alcide De Gasperi si dimette, costituisce in febbraio il suo terzo governo, ridimensionando il peso delle sinistre, e alla fine di maggio forma un altro governo senza comunisti né socialisti. Non avrà vita facile: la situazione economica si aggrava, l’inflazione cresce, i conflitti sociali si acuiscono, le agitazioni promosse dai partiti comunista e socialista scuotono il paese e la polizia interviene duramente per reprimerle.

 Nell’Europa orientale i regimi costituitisi dopo la fine della guerra si trasformano progressivamente in repubbliche popolari, modellate secondo il sistema sovietico. In ottobre l’Urss promuove una nuova Internazionale comunista; si chiama Cominform e riunisce tutti i partiti comunisti al potere nei paesi sovietizzati o in via di esserlo e anche quelli operanti in Francia e in Italia.

 In America il presidente Truman sostiene che gli Stati Uniti debbono intervenire dovunque, anche militarmente, a sostegno dei regimi democratici contro l’azione di minoranze interne (cioè i partiti comunisti) e contro le pressioni provenienti dall’esterno (cioè dall’Unione Sovietica). Per la stabilizzazione economica e politica dei paesi europei il segretario di stato americano George Marshall vara un grande piano di aiuti: grano, carbone, viveri, medicinali. Si chiama Erp, ma la gente lo chiamerà il “piano Marshall”.

 In Italia, alla fine dell’anno, l’assemblea costituente approva la nuova costituzione repubblicana; entrerà in vigore il 1° gennaio 1948.

 

1948

Difficile trovare una anno così pieno di eventi come il 1948; e di eventi che condizioneranno per decenni la storia del mondo.

 In Italia il 18 aprile quasi 13 milioni di italiani su 26 milioni di votanti dànno una vittoria strepitosa alla Democrazia cristiana; e il 48.5 per cento dei voti si traduce nella maggioranza assoluta dei seggi alla Camera: 305 su 574. Comunisti e socialisti, uniti nel Fronte popolare con l’effigie di Garibaldi come simbolo di lista, scendono dal 39 al 31 per cento: una sconfitta sonante e imprevista.

 A favore di questo risultato si sono mossi pesantemente gli Stati Uniti, offrendo appoggio politico e supporto economico; si è mosso pesantemente il Vaticano, mobilitando tutti gli organismi ecclesiastici; si è mosso pesantemente il padronato, offrendo mezzi senza risparmio; ma è stata soprattutto la paura di una vittoria delle sinistre a portare alle urne più del 92 per cento degli elettori e a dare il voto – cattolici e non cattolici, credenti o no – alla forza politica che appariva la più forte e la più dotata per essere quella che per molti anni sarà chiamata la “diga” contro il pericolo rosso.

 Ciò che sta succedendo in Europa spiega bene la paura degli italiani. In febbraio in Cecoslovacchia un colpo di stato ha dato il potere al Partito comunista, che nelle elezioni ha ricevuto soltanto il 38 per cento dei voti. L’Unione Sovietica sta cioè completando, passo dopo passo, l’opera di riduzione dei paesi dell’Europa orientale a suoi satelliti; e l’intenzione del Cremlino di non voler tollerare nessuna voce di dissenso si palesa quando, in giugno, la  Jugoslavia di Tito, colpevole di non essere sempre allineata alla politica di Stalin, viene espulsa dal Cominform e bollata di tradimento degli ideali socialisti. Nelle lotte di potere nei paesi sovietizzati il “titismo” sarà per molti anni il reato col quale verranno fucilati o impiccati tanti esponenti comunisti di rilievo.

 La guerra fredda sta crescendo di tensione. Ancora in giugno Stalin decide di chiudere gli accessi terrestri a Berlino, dove il settore ovest della ex capitale tedesca, isolato nella parte di Germania che sta per diventare uno stato comunista, è occupato dagli americani insieme a inglesi e francesi. Al blocco Stati Uniti e Gran Bretagna rispondono con un grande ponte aereo; centinaia di aerei da trasporto (anche più di mille in un sol giorno) impediscono la resa per fame.

 La tensione trova alimento in Italia, il 14 luglio, con un attentato a Palmiro Togliatti. Un’estremista di destra spara al segretario del Partito comunista, ferendolo gravemente. Scioperi, occupazioni di fabbriche, presidii di edifici pubblici, scontri fra dimostranti e polizia; ci sono morti e feriti; e nelle campagne le armi escono dai nascondigli. E’ la prima – e sarà l’ultima – seria minaccia di un tentativo insurrezionale. Nel suo letto in ospedale Palmiro Togliatti sa però che l’insurrezione non si può fare ed esorta alla calma. Dopo due giorni di paura la gente si rianima e può ascoltare la radio che annuncia il trionfo di Gino Bartali al Giro di Francia; è primo in classifica con otto minuti di vantaggio sul francese Bobet.

 Ma non si può stare tranquilli: in Palestina il Consiglio nazionale ebraico ha proclamato la fondazione dello stato di Israele. Egitto, Siria, Libano e Giordania rispondono con la guerra. Il Medio Oriente è in fiamme e lo sarà per anni e anni.

 

1949

  In un mondo lacerato non si può stare che da una parte o dall’altra; e il 1949 è l’anno dei definitivi schieramenti. Perfino il papa Pio XII, nel suo radiomessaggio natalizio, pur riconoscendo la pace come un valore per il quale devono operare i cristiani, ha però sostenuto la legittimità della guerra come mezzo di difesa contro le aggressioni.

 Trionfatore nelle elezioni del 18 aprile, il presidente del consiglio Alcide De Gasperi ha gestito saggiamente la vittoria e nonostante che il suo partito, la Democrazia cristiana, abbia alla Camera la maggioranza assoluta dei seggi, ha chiamato al governo gli altri partiti democratici: i liberali, i repubblicani e i socialdemocratici di Giuseppe Saragat. Non vogliamo steccati, ha detto.

 L’11 gennaio, anniversario ventennale dei patti lateranensi, Alcide De Gasperi si incontra col papa in Vaticano. Temi del colloquio la situazione internazionale, le persecuzioni contro i cattolici nei paesi dell’Europa orientale, la possibile adesione dell’Italia al progettato sistema di alleanza militare delle nazioni dell’Occidente.

 Il sistema si chiama Nato (North Atlantic Treaty Organization) o, più comunemente, patto atlantico. E’ un accordo difensivo contro l’espansionismo sovietico, una “scelta di civiltà”, come sostengono alcuni, oppure, come dicono i comunisti e i socialisti un patto di guerra? Dubbi, incertezze, perplessità circolano nel mondo degli intellettuali, in alcuni ambienti cattolici, anche nelle file del partito di maggioranza.

 Il dibattito alla Camera comincia il 12 marzo e prosegue fino al 18, mentre in tutto il paese si svolgono grandi manifestazioni popolari, promosse dal Partito comunista e dal Partito socialista. “Abbasso la guerra” è il grido che si sente più spesso nelle piazze e nelle aule del Parlamento, come se un conflitto armato stesse in attesa dietro l’angolo. Le preoccupazioni non sono ingiustificate: gli Stati Uniti hanno la bomba atomica, ma sembra (lo sapremo per certo in settembre) che l’abbia anche l’Unione Sovietica.

 Il 18, dopo cinquantuno ore di seduta ininterrotta, l’adesione dell’Italia al Patto atlantico è approvata dalla Camera con 342 voti a favore, 170 contrari e 19 astensioni. Il Senato l’approva il 27 marzo con 183 voti favorevoli, 112 contrari e otto astensioni. Il 4 aprile il patto viene firmato a Washington; ne fanno parte gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Francia, il Canadà, il Belgio, l’Olanda, il Lussemburgo, la Danimarca, l’Islanda, la Norvegia, il Portogallo; con l’Italia sono dodici nazioni.

 Nel patto non c’è ancora la Germania. Come Repubblica federale, la Germania nasce in maggio, ma è la Germania occidentale, la zona che, dopo la fine della guerra, è rimasta sotto il controllo americano, francese e inglese. L’altra Germania, quella orientale, è sotto controllo sovietico e dà vita, in ottobre, alla Repubblica democratica tedesca; un altro stato comunista, ovviamente. Ci vorranno 42 anni perché i tedeschi si riuniscano sotto una stessa bandiera.

 In settembre la bandiera rossa sventola, vittoriosa, anche sul più grande paese del mondo, la Cina, oltre un miliardo di uomini e di donne. Mao Tse-tung è eletto presidente della Repubblica popolare cinese. Una domanda interessata: Mao andrà d’accordo con Stalin?

 

1950

   E’ un anno incerto e contraddittorio per l’Italia. Da una parte, grazie agli aiuti economici americani, alla ristrutturazione degli apparati industriali, alla politica di austerità instaurata dal ministro del tesoro Pella, si ha un avvio di ripresa del sistema produttivo. Dall’altra, il disagio della classe operaia e contadina è cresciuto pesantemente e le agitazioni sindacali scuotono le fabbriche e le campagne. Alla fine di maggio gli iscritti alle liste di collocamento sono un milione e ottocentomila.

 Il governo De Gasperi vara alcune importanti riforme: prima la legge per la Sila, poi la cosiddetta “legge stralcio” della riforma agraria, per l’assegnazione di terre ai contadini, poi l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno per lo sviluppo economico delle regioni meridionali con investimenti a lungo termine. Ma intanto la polizia interviene duramente per reprimere le manifestazioni sindacali e il 9 gennaio a Modena sei operai vengono uccisi dagli agenti. Ministro degli interni è il democristiano Mario Scelba; le sinistre lo accusano di avere creato un vero e proprio apparato poliziesco di repressione e Mario Scelba accusa le sinistre di volere strumentalizzare con scopi eversivi la protesta operaia e contadina.

 Il sindacato unitario, la Cgil, è lacerata al suo interno. In marzo ne escono i sindacalisti socialdemocratici, che fondano la Uil, e a maggio i sindacalisti cattolici, che costituiscono la Cisl. Anche nel mondo del lavoro non possono non farsi sentire le tensioni internazionali.

 Il 25 giugno la comunista Corea del nord oltrepassa il 38° parallelo, che è l’artificiale confine concordato nel 1945 da Unione Sovietica e Stati Uniti, e invade la Corea del sud fino ad occuparne la capitale Seùl. Il governo americano decide di intervenire; si fa dare un mandato dal Consiglio di sicurezza dell’Onu (nel quale Mosca è temporaneamente assente per protesta contro la presenza, nel Consiglio, della Cina di Taiwan) e in settembre invia un corpo di spedizione comandato dal generale Douglas  MacArthur. Gran Bretagna, Australia, Nuova Zelanda e Olanda assicurano una loro partecipazione militare; altri paesi offrono assistenza; l’Italia sarà presente con un ospedale militare.

 Il 22 settembre le truppe americane liberano Seul; l’8 ottobre superano il 38° parallelo e il 18 conquistano la capitale nordista Pyongyang. Il 27 quarantamila soldati cinesi, che Pechino definisce “volontari”, entrano nella Corea del nord; in poco tempo i cosiddetti volontari diventano duecentomila con armamento pesante e mezzi corazzati. La situazione si capovolge di nuovo. Il 30 novembre il presidente americano Harry Truman non esclude l’impiego della bomba atomica e il 16 dicembre proclama lo stato di emergenza nazionale. All’inizio dell’anno ha dato il via alla produzione di una bomba ancora più terribile dell’atomica: la bomba H, la bomba a idrogeno.

 In Italia si cerca di consolarsi in qualche maniera. C’è l’Anno Santo; fra Milano e Roma entra in funzione l’elettrotreno Etr 300, il Settebello; è inaugurata una linea aerea italiana fra Roma e New York; in Colorado un italiano dell’Appennino toscano, Zeno Colò, è campione del mondo di sci; Totò e Macario furoreggiano nei teatri di varietà.

 

1951

  In Corea la guerra non è più fra Corea del nord e Corea del sud; in realtà è fra Stati Uniti e Cina. Ai primi di gennaio sette divisioni cinesi sferrano una grande offensiva e rioccupano la capitale Seul. Il generale MacArthur contrattacca, libera di nuovo Seul e di nuovo riattraversa il confine del 38° parallelo.

 Il momento cruciale è in aprile. MacArthur è un generale e ragiona da generale. Siamo bombardati – dice – da aerei cinesi (sia pure mascherati da aerei coreani) che partono da aeroporti in territorio cinese; la cosa più ovvia è bombardare le loro basi di partenza. Il ragionamento è ineccepibile, ma il presidente americano Truman sa che questo vorrebbe dire una guerra ufficiale con la Cina comunista e forse – chissà – anche un intervento dell’Unione Sovietica; quindi una terza guerra mondiale.

 Truman prende una decisione coraggiosa, anche se, all’interno del suo paese, impopolare: destituisce il generale Mac Arthur; la guerra – dice – la devono fare i politici, non i generali. Mac Arthur torna in patria e  New York gli trìbuta, lungo tutta Broadway, un’accoglienza trionfale con la tradizionale pioggia di fogli e di coriandoli gettati dalle finestre. I servizi di nettezza urbana informeranno di avere raccolto, sull’asfalto della strada, 3.249 tonnellate di carta.

 Il governo di Mosca capisce e – anche timoroso, forse, di una Cina che sta diventando troppo intraprendente – propone negoziati di pace. La guerra in Corea si ferma e rimarrà in stallo fino al 26 luglio del 1953, data della firma dell’armistizio. Ma alla fine costerà più di un milione di morti; le perdite americane sono state di 25 mila morti, undicimila dispersi e centomila feriti.

 L’atteggiamento tenuto dal governo italiano sulla Corea trova apprezzamento. Il 26 settembre Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia riconoscono l’importanza dell’Italia nell’alleanza atlantica e il suo diritto ad essere ammessa alle Nazioni Unite; si dichiarano perfino disponibili alla revisione del trattato di pace.

 Dall’aprile – insieme a Belgio, Francia, Germania federale, Lussemburgo e Olanda – l’Italia fa parte della Ceca, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, appena istituita: il primo passo verso un mercato comune, il primo organismo di una futura – si spera – unità dell’Europa.

 Il 1° novembre il ministro del commercio con l’estero Ugo La Malfa avvia un processo di liberalizzazione degli scambi commerciali. Gli si oppongono i sindacati e, stranamente, anche la Confindustria; ma la riduzione dei tassi doganali e l’abolizione delle limitazioni alle importazioni dai paesi aderenti all’Unione europea dei pagamenti inseriscono  l’economia italiana nel mercato internazionale; creano le premesse di quello che sarà il “boom” economico della fine degli anni Cinquanta.

 Il processo, però, non può che essere lento e non omogeneo. La crescita economica è concentrata nei centri più industrializzati del Nordovest ed lì che comincia a dirigersi la manodopera dalle campagne povere e dal Mezzogiorno. E’ una migrazione di massa, che cambierà gli equilibri demografici, aumenterà la popolazione delle aree urbane, provocherà una crescita edilizia disordinata e in gran parte incontrollata.

 

1952

     Nei paesi comunisti dell’Europa orientale il 1952 vede l’accentuarsi di un fenomeno che rimarrà a lungo incomprensibile agli osservatori occidentali: esponenti di rilievo del partito comunista di governo, gloriosi di antica militanza, qualcuno sopravvissuto alla prigione e ai campi di concentramento, vengono arrestati e processati con imputazioni incredibili, non solo vecchie come il trotzkismo o nuove come il titismo (cioè l’essere favorevoli, come Tito, a vie nazionali al socialismo), ma addirittura di spionaggio a favore degli Stati Uniti e, per alcuni, perfino di antiche simpatie per il fascismo e il nazismo; ancora più incredibile è il fatto che quasi tutti si dichiarano colpevoli, rei confessi dei più gravi misfatti ideologici.

 Ha cominciato l’Ungheria, nel 1949, processando e condannando a morte Laszlo Rajk, già segretario  generale del Partito comunista; poi, nel 1950, la Bulgaria con l’ex vicepresidente del consiglio Traicho Kostov; nel 1951-1952 è la volta della Cecoslovacchia, dove il segretario del Partito comunista Rudolf Slansky accusa il ministro degli esteri Vlado Clementis di spionaggio e poi è accusato lui, insieme a Clementis, dello stesso reato. Tutti condannati a morte, naturalmente, dopo confessioni – così si dice – ampie e sincere.

 Quasi per contrapposizione, negli Stati Uniti – ma qui, per fortuna, senza confessioni e condanne a morte – comincia una specie di caccia alle streghe che colpisce chiunque sia sospetto di simpatie per la sinistra. Il grande inquisitore è un senatore repubblicano, Joseph McCarthy, presidente del Comitato per le attività antiamericane. Il “maccartismo” che da lui prende nome imperversa per qualche anno, fino a quando è lo stesso Senato degli Stati Uniti a bloccare l’impresa: è contraria – lo sapevamo – alle norme di una società democratica.

 Anche in Italia si pone il problema di contenere il Partito comunista e i suoi alleati socialisti. Ma come? Per escludere la sinistra da ogni posizione di potere, anche se determinata dal voto dei cittadini, qualcuno pensa di dimenticare il passato e di stringere alleanze, al governo e nelle amministrazioni locali, con i fascisti del Movimento sociale e con i monarchici; finora gli uni e gli altri sono stati tenuti fuori da ogni maggioranza importante.

 A Roma, alla vigilia delle elezioni amministrative, è l’ottantunenne  don Luigi Sturzo, fondatore del Partito popolare nel 1919, che – d’accordo, sembra, col papa Pio XII – suggerisce alla Democrazia cristiana di presentare una lista civica aperta alle destre, la fascista e la monarchica, per evitare così che i comunisti arrivino in Campidoglio. Questa che verrà chiamata “operazione Sturzo” non trova però il consenso di Alcide De Gasperi, presidente del consiglio e democratico di antica tradizione. I risultati elettorali del 25-26 maggio gli dànno ragione e soddisfazione: la Democrazia cristiana e i partiti di centro hanno la maggioranza senza bisogno delle destre.

 Il problema esiste, tuttavia. E’ lo stesso De Gasperi a sostenere l’opportunità di uno stato forte e di una democrazia protetta ed è lui a proporre una riforma in senso maggioritario della legge elettorale. In ottobre è presentata la legge: il 65.3 per cento dei seggi al gruppo di partiti apparentati che avrà il 50,01 per cento dei voti. Nella legge non c’è nessun imbroglio, ma le sinistre hanno buon giuoco a chiamarla “legge truffa”; è un’espressione che fa effetto.

 

 1953

  Lo scontro tra maggioranza e opposizione su quella che le sinistre chiamano “legge truffa” apre con asprezza in Italia un anno che sarà ricordato in tutto il mondo per ben altri eventi.

 Contro l’introduzione del sistema maggioritario nell’elezione del Parlamento comunisti e socialisti si scatenano duramente, ricorrendo all’ostruzionismo in Parlamento e alle ormai solite manifestazioni di piazza. La legge è approvata, ma la sorpresa arriverà a giugno: per 57 mila voti, lo 0.2 per cento, i partiti apparentati (Democrazia cristiana, liberali, repubblicani e socialdemocratici) non arrivano al 50.01 per cento e non ottengono quindi il premio di maggioranza. La legge non è scattata.

 Ai primi di luglio Alcide De Gasperi forma il suo ottavo governo, ma la Camera non gli concede la fiducia; i suoi alleati tradizionali – i “parenti” – si sono astenuti. Dopo sette anni e mezzo De Gasperi lascia la guida del governo. Le sue dimissioni segnano l’inizio di una legislatura contrassegnata da una forte instabilità di governi; lo schieramento centrista è entrato in una crisi lenta e irreversibile.

 Qualcosa di molto importante sta per accadere ad est. Il 5 marzo (o forse qualche giorno prima, chissà) muore Giuseppe Stalin. In Italia “l’Unità” esce in edizione straordinaria e proclama “gloria eterna all’uomo che più di tutti ha fatto per la liberazione e per il progresso dell’umanità”. Davvero? Mentre milioni di uomini e di donne piangono nel mondo il dittatore defunto, al Cremlino si accende la lotta per la successione. Laurenti Beria, vicepresidente del consiglio e ministro degli interni, iscritto al partito bolscevico dal 1917, vuol prendere il posto di Stalin, ma in luglio (o forse in giugno, chissà) è destituito e espulso dal partito; poi è definito un “agente dell’imperialismo internazionale”, un “transfuga borghese”, un “fautore del ritorno al capitalismo”, perfino un “assassino”. In dicembre è condannato a morte e fucilato, non senza – si dice ufficialmente – aver prima confessato tutti i suoi crimini. Primo ministro è nominato Gheorghi Malenkov, ma provvisoriamente, sembra di capire. Un uomo nuovo è apparso come segretario del Comitato centrale del Partito comunista: è Nikita Kruscev.

 A Stalin è intitolata anche la grande strada di Berlino est (“Stalin Allee”) dove il 16 giugno migliaia di operai si sono radunati per protestare contro le pesanti condizioni di lavoro. E’ la prima dimostrazione operaia antiregime nell’Europa orientale. Gli operai portano dei grandi cartelli: “Siamo lavoratori, non schiavi”; chiedono il diritto di sciopero e la liberazione dei detenuti politici. Il giorno seguente la manifestazione si ripete; due operai si arrampicano sulla porta di Brandeburgo e strappano la bandiera rossa; la polizia interviene; il comando sovietico proclama lo stato d’assedio; arrivano i carri armati; la rivolta è sedata. Gli operai morti sono almeno sedici, un centinaio i feriti, fra i quali alcuni molto gravi.

 Nel mondo di sinistra, anche negli ambienti intellettuali, si tenta di non dar peso agli eventi di Berlino e si cercano diversivi. Nello stesso mese di giugno negli Stati Uniti muoiono sulla sedia elettrica i coniugi Rosenberg, accusati di spionaggio atomico a favore dell’Unione Sovietica. I giornali comunisti scrivono: hanno assassinato i Rosenberg; la paura della pace ha armato la mano al fascismo americano. Trentotto anni più tardi, nelle sue memorie postume, Nikita Kruscev ammetterà: sì, i Rosenberg ci fornirono i segreti della bomba atomica.

 

 1954

     Alcide De Gasperi muore improvvisamente il 19 agosto nella sua casa di campagna a Sella di Valsugana. Nato suddito austriaco nel 1881 in un piccolo paese del Trentino, laureatosi a Vienna nel 1905, deputato nel Parlamento austriaco nel 1911 e poi in quello italiano nel 1921 e nel 1924, De Gasperi è stato a capo di sette governi: continuativamente dal 1945 al 1953. Si è dimostrato un buon presidente del consiglio e anche un uomo di stato; col francese Schuman e col tedesco Adenauer è stato uno dei primi costruttori dell’unità dell’Europa.

 Ecco perché la morte di De Gasperi lascia un vuoto in Italia, come se un’era finisse. In realtà qualcosa è finito e qualcosa comincia. Alla fine di luglio il quinto congresso della Democrazia cristiana segna la vittoria dello schieramento guidato da Amintore Fanfani, toscano di Pieve Santo Stefano, 46 anni, più volte ministro, noto dal 1949 per un grande piano di costruzione di case per i lavoratori; sono state chiamate, appunto, le “case Fanfani”. E’ conosciuto anche per certe idee che qualcuno dice di sinistra: simpatie per il mondo arabo, diffidenze sulle alleanze militari, ammiccamenti ai socialisti di Pietro Nenni. Del suo partito vuol fare un partito bene organizzato e non condizionato dai finanziamenti della Confindustria e dell’America. Sono idee che lo fanno subito guardare con sospetto dalla destra economica e anche da certi ambienti vaticani.

 Le ostilità vengono aperte sùbito – voci, sussurri e pettegolezzi – con il cosiddetto scandalo Montesi: nell’aprile del 1953 una ragazza, Wilma Montesi, è stata trovata morta sulla spiaggia di Tor Vajanica. Dopo più di un anno di indagini il magistrato inquirente, Raffaele Sepe, fa arrestare sotto l’accusa di omicidio e uso di stupefacenti un giovane musicista, Piero Piccioni, figlio del ministro degli esteri democristiano Attilio Piccioni. Nel 1957 l’imputato sarà assolto con formula piena, per non aver commesso il fatto; ma questo è il primo grosso errore giudiziario del dopoguerra, la giustizia è ancora considerata sacra e tutti credono che almeno qualcosa di vero ci sia. Non per niente si è usata e si continua a usare, per la vicenda, la parola “scandalo”.  Piccioni padre si dimette da ministro, Piccioni figlio va in prigione e c’è chi rimprovera a Fanfani – ministro degli interni nel 1953, segretario della Democrazia cristiana oggi – di non aver fatto niente per aiutarli.

 Per fortuna un avvenimento commuove gli italiani; per lo meno i più anziani, quelli che si ricordano della prima guerra mondiale: il ritorno di Trieste all’Italia. Occupata nel maggio 1945 per quaranta giorni da partigiani sloveni, rivendicata nel 1945, insieme all’Istria, dalla Jugoslavia di Tito, trasformata nel 1946 in Territorio libero controllato da inglesi e americani, un memorandum firmato a Londra da Gran Bretagna, Stati Uniti, Italia e Jugoslavia la restituisce all’amministrazione italiana. Il 26 ottobre truppe italiane oltrepassano il confine e entrano nella città rivestita di tricolore, accolte da un mare di folla festante.

 Ci sono altre buone notizie: una spedizione italiana ha conquistato la vetta del K2, la cima più alta del mondo dopo l’Everest. E’ arrivata in Italia – per il bene e per il male – la televisione.

 Notizie fosche per il futuro vengono invece dall’Oriente: in  Indocina i francesi, sconfitti sul campo, si sono arresi a Dien Bien Phu davanti alle truppe comuniste del generale Giap. Nascono il Laos e la Cambogia. Nasce il Vietnam, diviso in due: nord e sud. Diviso per quanto tempo?

 

1955 

    Il 1955 è un anno pieno di novità. Le più importanti arrivano sùbito da Mosca. L’8 di febbraio, sotto gli occhi attenti di Nikita Kruscev, che da due anni è primo segretario del Partito comunista sovietico, il presidente del consiglio dei ministri Gheorghi Malenkov racconta al Soviet supremo che è un pessimo presidente del consiglio dei ministri e che perciò ha deciso di dimettersi. Lo sostituisce, su proposta di Kruscev, il maresciallo Nikolai Bulganin.

 Passano quattro mesi e il 13 maggio Nikita Kruscev fa sapere – tra la sorpresa generale – che  andrà a Belgrado per incontrarsi col maresciallo Tito, allo scopo – dice proprio così – “di incrementare ulteriormente le relazioni fra i due paesi e rafforzare la pace”. Ma Tito non era il grande nemico, espulso dal Cominform nel 1948 come traditore degli ideali socialisti? Tutto sbagliato, tutte accuse ingiustificate, tutta colpa del defunto (e fucilato)  Laurenti Beria, dichiara Kruscev al microfono, appena sceso dall’aereo all’aeroporto di Belgrado. Il maresciallo Tito non apre bocca; nessuno dei presenti applaude; solo silenzio, un silenzio di gelo. Kruscev non ha fatto parola delle decine e decine di alti esponenti comunisti condannati a morte per “titismo” nei paesi dell’Europa orientale fra il 1948 e il 1950.

 L’inattesa svolta con Belgrado e i cattivi rapporti con la Cina (in ottobre a Pechino Mao glielo dice chiaro e tondo: la Cina non ha nessuna intenzione di essere un satellite dell’Unione Sovietica) aiutano a capire il nuovo della politica di Kruscev:

  – primo, l’accettazione degli Stati Uniti come una superpotenza con la quale si deve competere, evitando però ogni scontro frontale; è in quest’anno che comincia a diffondersi una parola che suona dolce alle orecchie di tutto il mondo: distensione; distensione tra Est e Ovest;

  – secondo, mantenimento  di un rigido controllo sui paesi dell’Europa orientale; in maggio è nato il patto di Varsavia ossia un’alleanza militare in contrapposizione all’alleanza atlantica; più che una organizzazione contro la Nato apparirà una forza di polizia e di pronto intervento negli stessi paesi, comunisti, che ne fanno parte;

  – terzo, appoggio alle forze di ispirazione comunista che operano in America latina, in Africa e in Medio Oriente.

 Un’altra novità di quest’anno è il tentativo – seguìto con molto interesse da Pechino che lo vede in funzione antirussa – di creare un raggruppamento di paesi che non vogliono accettare né l’egemonia degli Stati Uniti né l’egemonia dell’Unione Sovietica. In aprile a Bandung, nell’isola di Giava, 29 paesi asiatici e africani si riuniscono per condannare tutte le forme di oppressione di tipo coloniale, compresa quella sovietica nell’Europa dell’est. Fra mondo occidentale e mondo orientale si dicono rappresentanti di un Terzo Mondo, il mondo dei paesi in via di sviluppo che vogliono far sentire la loro voce nel teatro internazionale. Terzo Mondo: un’altra espressione nuova.

 Novità anche dall’Italia. Il 14 dicembre l’Italia è finalmente ammessa fra le Nazioni Unite. A Messina in giugno la conferenza dei ministri della Ceca, cioè della Comunità del carbone e dell’acciaio, propone l’istituzione di un mercato comune europeo. Sul piano della politica interna una grossa novità viene dal trentunesimo congresso del Partito socialista: Pietro Nenni parla di avviare un dialogo con i cattolici allo scopo di favorire un’apertura a sinistra per una politica di riforme. “Apertura a sinistra”: un’espressione, anch’essa nuova, che accompagnerà il dibattito politico per il resto degli anni Cinquanta.

 

1956

Il 1956 è uno degli anni cruciali del secolo. Il 14 gennaio si riunisce a Mosca il ventesimo congresso del partito comunista dell’Unione Sovietica, il primo dopo la morte di Stalin; vi partecipano 1436 delegati e gli invitati di 55 partiti comunisti di ogni parte del mondo; per il partito comunista italiano c’è Palmiro Togliatti.

 Nikita Kruscev, primo segretario del Comitato centrale, illustra la sua politica; in particolare la sua politica di coesistenza pacifica con l’Occidente. L’ultimo giorno, il 24, a porte chiuse, davanti ai soli delegati sovietici, Kruscev legge un atto di accusa a Stalin. Che cosa ha detto? Qualcosa  si riesce a sapere: Kruscev  ha detto che Stalin ha instaurato un regime di sospetto, di paura e di terrore; che ha dato frequenti prove di intolleranza, di brutalità e di abuso di potere; che ha accettato e promosso un vero e proprio culto della personalità.

 Il rapporto segreto di Kruscev esce integrale in luglio, arrivato negli Stati Uniti per vie  misteriose ma non tanto. Tutto è confermato e spiega il processo di destalinizzazione in corso nell’Unione Sovietica. Una destalinizzazione che non tocca però la politica di Mosca nei paesi satelliti.

 Alla fine di giugno una rivolta operaia scoppia a Poznan in Polonia per le cattive condizioni di vita e di lavoro. Gli studenti si uniscono agli operai; si chiede pane, libertà, democrazia. Le autorità instaurano la legge marziale, intervengono i carri armati, ci sono decine di morti e centinaia di feriti.

 Ancora più grave la rivolta che in Ungheria si accende in luglio e divampa in ottobre a Budapest e nel resto del paese. Nelle strade scendono gli studenti, poi anche gli operai, poi anche giovani ufficiali dell’esercito, poi tutti, uomini e donne; chiedono il ritiro delle truppe sovietiche, libere elezioni, l’uscita dal Patto di Varsavia. Il 30 ottobre i carri armati sovietici entrano in Ungheria, il 4 novembre si attestano nelle vie della capitale; cominciano gli scontri a fuoco e ci sono morti e feriti. Gli operai proclamano uno sciopero generale e il governo risponde con le legge marziale. Alla fine hanno ragione i carri armati. Il 13 dicembre Mosca può dire di avere schiacciato quella che chiama la controrivoluzione ungherese.

 Il 30 ottobre, quando il governo sovietico decide di intervenire in Ungheria, è anche il giorno in cui l’Inghilterra e la Francia decidono di aggredire l’Egitto; la coincidenza, per Mosca, non è casuale. L’attenzione del mondo è infatti rivolta a quella che è definibile – per i criteri che la muovono – l’ultima guerra dell’Ottocento.

 Il 26 luglio il governo egiziano ha nazionalizzato la compagnia – a prevalente capitale francese ed inglese – che gestisce il canale. Falliti tutti i tentativi di ritiro del provvedimento, il 30 ottobre Londra e Parigi dànno il via a un intervento armato, evidentemente concordato da tempo, visto che Israele, alleato segreto, è già arrivato da due giorni ai bordi del canale. Per fortuna gli Stati Uniti, che hanno definito un tragico errore il passo anglofrancese, intervengono con l’Onu per mettere fine alla guerra. Il 6 novembre scatta il “cessate il fuoco”. Ma il canale è rimasto ostruito, il traffico è interrotto e le navi che dall’Europa vanno in India e nell’Estremo Oriente dovranno passare per undici anni, circumnavigando l’Africa, dal Capo di Buona Speranza, come ai tempi di Cristoforo Colombo.

 

1957

  Il rapporto segreto su Stalin, letto da Nikita Kruscev al ventesimo congresso del partito comunista sovietico, non può non avere ripercussioni profonde nei partiti di sinistra in tutto il mondo.

 In Italia il Partito comunista si destreggia, consapevole dello sconcerto che nella base hanno provocato le accuse a quello che veniva considerato (e lo si era visto nel 1949 con le celebrazioni per i suoi 70 anni) il capo e la guida di tutti i lavoratori. Palmiro Togliatti, segretario del partito, cerca di confortare la massa, divisa fra incredulità e scoraggiamento: la critica al culto della personalità non significa dover buttare a mare tutto il passato e, nonostante le violazioni della legalità avvenute nell’Unione Sovietica e la degenerazione dell’organismo sociale, il processo di costruzione di una società socialista continua a andare nella giusta direzione.

 I fatti di Budapest rappresentano però un altro duro colpo alla credibilità dell’ideologia; ma qui Togliatti è durissimo e perfettamente allineato alle posizioni sovietiche; bisogna scegliere, dice: o la rivoluzione socialista o quella che lui chiama controrivoluzione bianca per la vecchia Ungheria fascista e reazionaria. Decine e decine di intellettuali comunisti lasciano il partito in segno di protesta e lo fanno sapere; molti no, ma duecentomila iscritti quest’anno non rinnovano la tessera.

 Qualcuno, anche importante, si iscrive al Partito socialista. Nel Partito socialista ci sono infatti parecchie novità: ha denunziato la repressione dell’insurrezione ungherese, ha trasformato in patto di consultazione il patto di unità d’azione firmato nel 1934 col Partito comunista, ha riaffermato l’inscindibilità dei termini democrazia e socialismo. Pietro Nenni si è incontrato a Pralognan, in Savoia, col socialdemocratico Giuseppe Saragat; hanno parlato di una possibile riunificazione dei due partiti socialisti.

 Il 25 marzo vengono firmati a Roma i trattati istitutivi della Cee, la Comunità economica europea, e dell’Euratom, l’organismo comunitario per la ricerca in campo nucleare. Il Partito comunista vota contro, ma il Partito socialista si astiene sulla Cee e vota a favore dell’Euratom.

 Il cammino per una svolta nella politica italiana non sembra tuttavia facile, né per i socialisti né per i loro possibili interlocutori, i democristiani. Nel trentaduesimo congresso del Partito socialista, che si svolge a Venezia in febbraio, la linea proposta da Nenni è approvata, ma nel Comitato centrale che viene eletto le posizioni autonomiste nenniane vengono a trovarsi in minoranza.

 In marzo l’”Osservatore romano” ci dice come la pensa la Chiesa: ogni tentativo di apertura a sinistra è da respingere perché il socialismo non si distingue dal materialismo marxista. A luglio, al Consiglio nazionale della Democrazia cristiana, riunito a Vallombrosa, Amintore Fanfani, il segretario, propone una linea più sfumata nei confronti del Partito socialista. Ciò nonostante, nella stessa corrente che fa capo a Fanfani cominciano i primi dissensi, chiaro presagio di futuri contrasti e di future lacerazioni.

 In novembre l’Unione Sovietica lancia in orbita un satellite artificiale con a bordo una cagnetta. Tra Mosca e Washington comincia un’altra sfida: la conquista dello spazio.

 

1958 

  Una crisi gravissima sta colpendo la Francia. La Quarta repubblica, nata nel 1944 con la liberazione di Parigi, si è mostrata incapace di gestire la difficile fase della decolonizzazione in Marocco e in Tunisia e più ancora in Indocina e in Algeria. L’Indocina è stata perduta con la sconfitta di Dien Bien Phu nel 1953, il Marocco è diventato indipendente nel 1956 e la Tunisia nel 1957; ma in Algeria è troppo forte la minoranza bianca  e i militari non vogliono rinunziare a una terra che amministrativamente è già parte della patria francese.

  Con la popolazione araba dell’Algeria che dalla rivolta è passata a una sanguinosa lotta di massa e di fronte alla minaccia di un colpo di stato da parte dei militari, il presidente della repubblica Coty chiama a formare un nuovo governo il generale De Gaulle, l’uomo che, fuggito a Londra nel 1940, si fece capo della Resistenza francese contro gli occupanti nazisti e alla fine della guerra riuscì a far sedere la Francia sconfitta al tavolo delle potenze vittoriose.

 In maggio Charles De Gaulle assume i pieni poteri e propone una costituzione che consenta al presidente di governare senza essere condizionato dai partiti. Sottoposta a un referendum popolare, la nuova carta è approvata a settembre con quasi l’80 per cento dei voti. A dicembre De Gaulle è eletto presidente della repubblica, la Quinta repubblica. E l’Algeria? Per ora rimane francese, poi si vedrà.

 L’Algeria e la rivolta algerina si inseriscono in un problema più vasto, che è quello del mondo arabo; e verso il Medio Oriente, arabo e non arabo, guardano da tempo con interesse le sinistre europee e certi settori del cattolicesimo. Succede anche in Italia, dove Enrico Mattei, presidente dell’Eni, cioè dell’Ente nazionale idrocarburi, istituito nel 1953 per ristrutturare il settore delle fonti di energia, ha concluso un accordo con l’Iràn per sfruttare congiuntamente i giacimenti petroliferi iraniani: un accordo che non è piaciuto per niente alle grandi compagnie petrolifere americane, le così chiamate “sette sorelle”. Mattei è un grande amico di Fanfani.

 In Italia Amintore Fanfani vince le elezioni del 25-26 maggio, dove la Democrazia cristiana passa dal 40 al 42,2 per cento dei voti, e diventa presidente del consiglio, assumendo anche il ministero degli esteri e mantenendo – per guardarsi le spalle – la segreteria politica del suo partito. Il nuovo governo – democristiani e socialdemocratici – è presentato come il primo governo di centro sinistra; ma, senza i voti socialisti, ha una maggioranza risicata sia alla Camera sia al Senato.

 Amintore Fanfani esprime subito il suo attivismo, specie in campo internazionale, dove fino ad oggi l’Italia non ha mai espresso nessun ruolo di protagonista. Tra la fine di luglio e i primi di agosto si incontra col presidente americano, col primo ministro inglese e con quello francese, col cancelliere tedesco e col ministro degli esteri israeliano. Il suo progetto è di conciliare l’ancoraggio all’alleanza atlantica con un atteggiamento di comprensione verso quel mondo arabo in cui il fermento sta crescendo e non si sa a che cosa possa portare. Fanfani non ha però successo all’estero e meno ancora all’interno, dove il suo governo non piace né alla destra economica né alla Curia Romana.

  Ma in Vaticano da dicembre c’è del nuovo. E’ morto Pio XII ed è stato eletto papa il cardinale Roncalli. E’ Giovanni XXIII e in lui milioni di uomini e di donne in tutto il mondo, credenti e non credenti, proietteranno le proprie speranze di pace e di giustizia.

 

1959

  Camp David è la residenza di vacanza del presidente degli Stati Uniti. E’ qui che, nel settembre di quest’anno, il presidente Eisenhower riceve il segretario del Partito comunista dell’Unione Sovietica Nikita Kruscev. E’ il primo incontro, dalla fine della seconda guerra mondiale, fra i capi delle due superpotenze mondiali.

  L’iniziativa è stata di Kruscev. Nel mondo ha suscitato sorpresa,  compiacimento, speranze in un futuro più sereno, ma non meraviglia chi ha capito le linee di politica estera del numero uno sovietico: nessuno scontro frontale fra Unione Sovietica e Stati Uniti, quindi distensione, coesistenza pacifica; tuttavia rigido controllo dei paesi comunisti dell’Europa orientale e appoggio ai partiti comunisti e ai movimenti filosovietici di tutti gli altri paesi. E’ infatti solo questione di tempo, dice Kruscev; prima o dopo, per la forza stessa dell’ideologia, tutto il mondo diventerà comunista. Perciò sicuramente Kruscev è sincero quando si trova d’accordo con Eisenhower: non esistono problemi diretti fra Mosca e Washington che non possano essere risolti con metodi pacifici e senza l’impiego della forza.

 Cuba è un esempio: dopo un anno di guerriglia Fidel Castro caccia il dittatore Batista e il 2 gennaio conquista l’Avana e poi il paese. Qualche giorno prima il governo americano ha dichiarato di non aver motivo di intervenire in un conflitto interno di un altro paese. E poi Fidel Castro ha detto di non essere comunista; se lo diventerà – e lo diventerà presto – sarà perché la riforma agraria colpirà gli interessi economici nordamericani e l’America, per punizione, non comprerà più lo zucchero cubano; lo comprerà l’Unione Sovietica.

 Anche per l’Algeria accadrà qualcosa del genere, quando, conquistata l’indipendenza, si governerà, come altri paesi dell’Africa, con un sistema monopartitico di ispirazione socialista. Per il momento, tuttavia, l’Algeria rimane francese; ma De Gaulle, chiamato al potere perché francese rimanga, ha già fatto sapere, invece, che l’autodeterminazione è un diritto che non si può non riconoscerle.

 La paura del socialismo e del salto nel buio che si teme rappresenti un ingresso dei socialisti nel governo, può spiegare l’ostilità di tante forze politiche ed economiche contro ogni progetto di apertura a sinistra. Amintore Fanfani ha così le ore contate. Non alla luce del giorno, ma nel segreto delle urne molti deputati democristiani  votano contro il governo anche su provvedimenti di scarsa importanza; sono i cosiddetti “franchi tiratori”; non si saprà mai chi sono e chi li ha indotti a farlo; si può solo supporlo, secondo logica.

 Il 26 gennaio Fanfani si dimette; si dimette non solo da presidente del consiglio e ministro degli esteri, ma anche da segretario della Democrazia Cristiana. Il 14 marzo, al Consiglio nazionale del partito, che si svolge  in una sede religiosa, la Domus Mariae, buona parte degli stessi compagni di corrente gli votano contro ed eleggono, al suo posto, Aldo Moro, un personaggio considerato, allora, poco ingombrante.

 Il centrosinistra è dunque morto nella culla? Forse no. Al trentatreesimo congresso del Partito socialista, a Napoli in gennaio, hanno vinto gli autonomisti, favorevoli ad un incontro con i cattolici. Di centrosinistra si parlerà ancora, perciò, e proprio con Aldo Moro.

 Il 25 gennaio papa Giovanni XXIII annuncia la convocazione di un concilio ecumenico. Un concilio che cambierà molte cose.

 

1960

  A gennaio il “Financial Times” di Londra assegna, come tutti gli anni, i premi Oscar della finanza. Per il 1959 l’Oscar della migliore moneta dell’anno viene assegnato alla lira italiana. Il 25 marzo lo stesso “Financial Times”, commentando il rapporto dell’Oece sull’economia italiana, usa per la prima volta l’espressione “miracolo economico”.

  In realtà negli anni Cinquanta si è avuto in Italia un forte progresso dell’economia in termini di produzione industriale. Sono cresciuti gli investimenti e il risparmio e sono aumentate le esportazioni dopo la liberalizzazione degli scambi voluta nel novembre 1951 dal ministro del commercio estero Ugo La Malfa.

 L’Italia ha fatto un salto; da paese agricolo è diventato un paese industriale. Nelle industrie del Nord si sono create ampie occasioni di lavoro e il paese ha visto accresciuto il fenomeno della migrazioni di lavoratori, disoccupati o sottoccupati, dalle regioni meridionali al cosiddetto “triangolo economico” di Torino, Milano e Genova.

 L’alimentazione è migliorata e sono comparsi nuovi consumi (il motorscooter, l’auto utilitaria, la tv), ma il tenore di vita delle classi lavoratrici si presenta soddisfacente solo in confronto a quello degli anni della guerra e del dopoguerra. Il miglioramento delle condizioni generali della vita è stato insomma più lento del cosiddetto “miracolo economico”.

 In questo clima si riapre in Italia il discorso del centrosinistra. Il governo Tambroni, un monocolore demoscristiano costituito il 25 marzo, si regge con i voti dei fascisti, e questo non piace neppure a buona parte dei democristiani. I socialisti e i comunisti promuovono dimostrazioni nel paese, scoppiano incidenti, la polizia interviene duramente; fra aprile e i primi di luglio si hanno parecchi morti e centinaia di feriti. Alla fine Tambroni è costretto a dimettersi.   L’incarico di formare un nuovo governo è affidato proprio a Fanfani, lo sconfitto di un anno fa.

  Il 27 luglio Amintore Fanfani presenta il suo governo; è un monocolore democristiano, ma può contare sull’appoggio dei socialdemocratici, dei repubblicani e dei liberali. Il fatto nuovo e più importante è che questa volta i socialisti dànno la loro astensione, concordata. E’ quindi un governo di centrosinistra, sebbene il 18 maggio l’”Osservatore Romano” con una nota – “Punti fermi” – del cardinale Ottaviani abbia ricordato il no delle autorità ecclesiastiche a una collaborazione fra Democrazia Cristiana e Partito socialista. Per addolcire la pillola, visto che anche i monarchici si sono astenuti, il governo si fa chiamare, con audace ossìmoro, il governo delle convergenze parallele. Con buona pace della Curia romana, l’apertura a sinistra ha preso il via.

 Sul fronte internazionale fosche nuvole. In maggio un aereo spia americano viene abbattuto nell’Unione Sovietica e Nikita Kruscev ha buone ragioni per prendersela con Eisenhower. A Parigi, dove è in programma una riunione dei Quattro Grandi, Kruscev chiede che gli americani gli facciano le scuse. Non avendole avute, sbatte la porta e se ne va.

 Enrico Mattei, intanto, firma un accordo con i russi: petrolio contro tubi di acciaio e gomma sintetica, 200 milioni di dollari. Qualcuno in America si chiede: ma che vuole quest’Italia? Come si permette?

 

  1961 

  Fra il 12 e il 13 agosto, nell’arco di una notte, la Repubblica democratica tedesca fa costruire un muro alto tre metri lungo la linea di demarcazione fra il settore est di Berlino, sotto amministrazione sovietica, e il settore ovest, che è ancora in mano anglo-franco-americana. Non è solo uno sbarramento di cemento (e di mitragliatrici) fatto allo scopo di fermare l’esodo dei tedeschi orientali verso la Germania occidentale; e neppure – come sostengono i comunisti – un modo per impedire l’ingresso nella zona sovietica di spie e provocatori. Il muro è il segno di una chiusura culturale alle idee dell’Occidente. Verrà facile, perciò,  di chiamarlo il “muro della vergogna”.

 Nel mondo comunista sta esplodendo una crisi nata nel novembre scorso, quando, nella conferenza a Mosca di tutti i partiti comunisti, Kruscev ha definito il presidente cinese Mao Tsetung, che ha criticato la politica sovietica di coesistenza pacifica con gli Stati Uniti, un megalomane guerrafondaio. In realtà il dissenso è nel rifiuto della Cina di accettare la “leadership” di Mosca, e Mosca la punisce chiudendo i programmi di assistenza: via tutti i tecnici e i consiglieri, basta con i rifornimenti di macchine industriali e di pezzi di ricambio. La ritorsione di Mosca è per la Cina un grave colpo; le occorreranno molti anni per risollevarsi.

 E’ anche a causa di questa rottura con la Cina che Kruscev decide di rafforzare il potenziale bellico e in specie l’arsenale nucleare. In due mesi, dal 1° settembre al 31 ottobre, nell’isola della Nuova Zemlia, nel Mar Glaciale artico, vengono fatte esplodere 25 bombe all’idrogeno e l’ultimo giorno, per concludere gli esperimenti, la ventiseiesima, la superbomba, 50 o 60 megaton. Complessivamente, un centinaio di megaton, settemila volte la potenza della bomba scoppiata a Hiroshima nel 1945. Un disastro ecologico mai visto.

 A occidente le cosa vanno male in Francia. Il 22 aprile i generali si accorgono che il generale De Gaulle non intende seguirli nel loro disegno di conservare l’Algeria ad ogni costo e decidono di ribellarsi, occupando Algeri ed Orano. Mai si era avuta in questo secolo un’insurrezione degli alti gradi militari in un paese dell’Occidente. De Gaulle non molla; deferisce i generali ribelli al tribunale militare, decreta lo stato d’emergenza in Francia, assume i poteri eccezionali e ordina alle truppe rimaste fedeli di arrestare gli insorti. Quella che De Gaulle definisce “una odiosa e stupida avventura” è liquidata il 25. Il 26 tutto è finito.

 Anche in America c’è qualcosa di nuovo. Alla presidenza degli Stati Uniti è eletto un giovane politico di 43 anni, di ricca e potente famiglia cattolica del Massachusetts: John Fitgerald Kennedy. Nel suo discorso di insediamento, il 20 gennaio, parla del suo programma e lo chiama “una nuova frontiera”: difesa dei diritti civili, appoggio a tutti i governi liberi per rompere le catene della miseria, lotta contro i nemici comuni dell’uomo: la tirannia, la povertà, la malattia, la guerra. In poco tempo John Kennedy saprà attirare su di sé le speranze di pace e le attese di giustizia di milioni di uomini e di donne in ogni parte della Terra; e la nuova frontiera diventerà per tanti giovani la forza di operare per un mondo migliore.

 Alle stesse speranze e alle stesse attese risponde la prima enciclica di Giovanni XXXIII, pubblicata il 14 luglio: la questione sociale secondo la dottrina cristiana alla luce dei tempi nuovi. Il papa e Kennedy saranno chiamati i grandi seminatori.

 

1962

  La paura di una terza guerra mondiale – e sarebbe una guerra nucleare – tiene in ansia il mondo per parecchi giorni tra l’11 e il 28 ottobre.

  All’Avana Fidel Castro, diventato comunista per reazione ai monopoli americani, ha proclamato Cuba la prima repubblica comunista dell’America latina. Soffocato economicamente, accetta, per sopravvivere, gli aiuti di Mosca e l’installazione nell’isola di missili nucleari sovietici. L’11 ottobre il presidente Kennedy minaccia un intervento militare e Nikita Kruscev risponde che un attacco americano significherebbe l’inizio di una guerra. Il 22 Kennedy decide il blocco navale di Cuba, mentre venticinque mercantili sovietici navigano verso l’isola. Siamo allo scontro? Soltanto il 28 il mondo può tirare un respiro di sollievo: le navi sovietiche hanno invertito la rotta. Contro il parere dei suoi generali, Kruscev accetta la proposta: a Cuba niente sbarco americano, a Cuba niente missili sovietici. La fermezza di Kennedy ha avuto successo.

 Il 1962 è cominciato invece con segni di pace. In febbraio a Evian, sulla costa francese del lago di Ginevra, francesi e algerini decidono di mettere fine a un conflitto che dal 1954 è costato 160 mila morti, di cui ventimila francesi. Il 9 aprile De Gaulle ottiene, con un altro referendum, il consenso degli elettori; il 3 luglio la Francia riconosce l’indipendenza algerina; il 5 l’Algeria si proclama stato sovrano. L’8 ottobre sarà ammessa all’Onu.

L’11 ottobre Giovanni XXIII apre solennemente il Concilio che viene chiamato Vaticano secondo. Vi partecipano 2494 padri conciliari, provenienti dai cinque continenti. Nel discorso inaugurale il papa  illustra il suo obbiettivo: l’aggiornamento della dottrina della Chiesa, consapevole delle esigenze e delle opportunità dell’età moderna. Giovanni XXIII vuole cioè l’apertura della Chiesa al mondo, un mondo che è cambiato e sta cambiando.

 Alla vigilia del Concilio, papa Giovanni si è recato a Loreto, al santuario della Madonna; è la prima volta, dall’unità d’Italia, che un pontefice fa un viaggio fuori delle mura vaticane. Sul treno speciale lo accompagna Amintore Fanfani.

 Dal 22 febbraio Fanfani è a capo di un governo che si regge sull’astensione dei socialisti. A lungo avversato dalla Chiesa, dagli Stati Uniti e dal potere economico, visto con sospetto dall’Unione Sovietica, il centrosinistra è finalmente una realtà. Il programma non delude le attese: attuazione delle regioni, nazionalizzazione dell’energia elettrica, riforma della scuola insieme all’elevazione dell’obbligo scolastico a 14 anni, riforma urbanistica e programmazione economica concertata fra governo, imprenditori e sindacati.

 Preoccupate dalla forza riformatrice del governo, fin dall’autunno le forze moderate del paese cercano di bloccarne l’attività. Si oppongono con successo all’attuazione dell’ordinamento regionale previsto dalla Costituzione, affossano il primo grande piano urbanistico nazionale. Il centrosinistra rischia di essere un’occasione perduta.

 Il 27 ottobre un altro uomo di rinnovamento, Enrico Mattei, muore in un misterioso incidente aereo: un sabotaggio? Mattei ha molti nemici: le grandi compagnie petrolifere americane, la destra francese per l’attività dell’Eni in Algeria. Nel 1998 si farà anche un’altra ipotesi: la mafia. Ma chi dietro la mafia?

 

1963

  Giovanni XXIII e John Kennedy muoiono a cinque mesi di distanza. Sono due figure – l’uno pontefice di Santa Romana Chiesa, l’altro presidente degli Stati Uniti – che hanno in comune il dono del carisma cioè la capacità di raccogliere nella propria persona le ansie e le speranze, le paure e le aspettative della gente; ed eguali sentimenti – di simpatia, di fiducia, di auspicio – accompagnano la loro vita e la loro morte.

 Papa Giovanni muore il 3 giugno al tramonto del sole. Due mesi prima ha lasciato il suo ultimo messaggio nell’enciclica che non per niente si chiama “Pacem in terris”; si è rivolto a tutti gli uomini di buona volontà, indicando i segni dei tempi nell’ascesa delle classi lavoratrici, nel mutamento della condizione femminile, nel progresso della democrazia e dei diritti dell’uomo, nella collaborazione fra credenti e non credenti, nella distinzione tra false dottrine e movimenti politici e sociali che ad esse si ispirano.

 In Italia, in segno di lutto, le scuole e le aule giudiziarie rimangono chiuse, i sindacati invitano a una sospensione dal lavoro di dieci minuti. In tutto il mondo pregano per lui protestanti ed ebrei. Kruscev ne ricorda la fruttuosa attività a favore della pace. Kennedy dice che la sua saggezza ha dato all’umanità una grande carica di coraggio.

 John Kennedy muore assassinato il 22 novembre a Dallas, nel Texas; non si saprà mai come, da chi e perché. In giugno è stato in Europa. A Berlino si è fermato davanti al “muro della vergogna”: questa è la   dimostrazione della disfatta del comunismo, ha detto davanti a un milione di berlinesi. In Italia, a Roma ricorda il dovere di sacrificarsi per fare del mondo un mondo libero; a Napoli più di un milione di napoletani lo acclama per le strade, gli getta fiori, lo chiama per nome.

 Alla notizia della morte il nuovo papa, Paolo VI, si raccoglie in preghiera; Pietro Nenni scoppia in lacrime, Giuseppe Saragat lo chiama simbolo dei più alti ideali umani, abbattuto dalle forze del male; anche Palmiro Togliatti si dice costernato. Per tre giorni le bandiere rimarranno a mezz’asta in tutta Italia. Un settimanale popolare dedica la copertina a papa Giovanni e a Kennedy; li chiama i due seminatori e aggiunge che ciò che entrambi hanno fatto per la pace nel mondo è destinato a rimanere nella storia e nel cuore degli uomini.

 Anche all’atteggiamento di Giovanni XXIII si deve se in Italia ha preso avvio una collaborazione fra cattolici e socialisti. Il centro sinistra procede però con fatica. Le elezioni del 28-29 aprile vedono la Democrazia cristiana in perdita di quattro punti e il Partito socialista dello 0.4 per cento. I due partiti non trovano l’accordo per la formazione di un governo organico di centro sinistra e in giugno l’incarico viene dato al presidente della Camera, Giovanni Leone, per un governo di attesa, che non per niente verrà chiamato balneare.

 Passata l’estate, il 23 novembre i quattro partiti del centrosinistra – democristiani, socialisti, socialdemocratici e repubblicani -raggiungono finalmente l’accordo e il 5 dicembre Aldo Moro forma un governo nel quale, per la prima volta, è presente il Partito socialista. Pietro Nenni è il vicepresidente del consiglio, Giuseppe Saragat è agli esteri. La sinistra socialista, tuttavia, non dà il voto al governo; si profila l’ennesima scissione del Partito socialista.

 

1964

 Per sua disgrazia il governo di centro sinistra guidato da Aldo Moro si scontra con una crisi congiunturale dell’economia che, cominciata nel 1963, sta suscitando notevoli preoccupazioni. Si apre così un dibattito, introdotto dal governatore della Banca d’Italia Guido Carli e portato avanti dal leader repubblicano Giorgio La Malfa, su quella che viene detta, con espressione un po’ oscura, politica dei redditi: una politica che molti anni più tardi apparirà più che ovvia, ma che in questo 1964 riceve  critiche dalle sinistre e dai sindacati e scarse simpatie dagli imprenditori: le spinte salariali sono davvero uno stimolo del progresso economico e sociale oppure sarebbe giusto che ogni miglioramento delle retribuzioni ai lavoratori fosse ancorato allo sviluppo o comunque all’andamento della produzione?

 I contrasti fra i partiti di governo portano alla caduta del primo governo Moro il 26 luglio e a uno dei momenti più oscuri della storia della repubblica. Si parla dell’esistenza di un piano chiamato Solo, che prevede l’intervento dei carabinieri nel caso in cui una grave crisi politica richieda misure straordinarie per la difesa dell’ordine; si notano strani movimenti e misteriose visite al Quirinale, dove è presidente della repubblica Antonio Segni, notoriamente avverso al centrosinistra; all’estero corrono voci di colpi di stato in Italia.

 Forse è per questo che in una notte, fra il 17 e il 18 luglio, l’accordo viene raggiunto dai quattro partiti, allo scopo – dice qualcuno – di  difendere la democrazia. Il 22 Aldo Moro presenta così  il suo secondo governo, sempre di centrosinistra, ma con un programma più moderato;  tanto che le correnti di sinistra della Democrazia Cristiana e del Partito socialista non hanno voluto farne parte. Il 7 agosto, durante un accalorato colloquio con Moro e Saragat, il presidente della repubblica Segni ha una trombosi cerebrale; sarà invitato a dimettersi il 6 dicembre; morirà nel 1972.

 Il 13 agosto un altro lutto. A Jalta in Crimea, dove si trova in vacanza, è colpito da una emorragia cerebrale Palmiro Togliatti, segretario generale del Partito comunista; muore il 21; aveva 71 anni. Figura complessa ma non ancora controversa né sottoposta alla revisione storiografica e politica di molti anni più tardi, Palmiro Togliatti riceve a Roma funerali eccezionali; intorno al suo feretro più di un milione di persone, venute da tutta Italia, e i capi mondiali del comunismo.

 Palmiro Togliatti lascia un documento, che sarà chiamato il memoriale di Jalta. E’ un documento che farà molto scalpore. Ci sono giudizi severi sul modello sovietico di comunismo, si affronta il problema del superamento del regime di limitazione e di soppressione delle libertà democratiche instaurato da Stalin e si sostiene l’opportunità di elaborare una via italiana al socialismo, perché l’ideologia deve tener conto della peculiare situazione di ogni singolo paese.

 Il memoriale di Togliatti è apprezzato dall’”Osservatore Romano”, è riportato ampiamente dai giornali del mondo occidentale e suscita irritazione a Mosca, dove la “Pravda” lo pubblica soltanto una settimana dopo. Un mese più tardi, il 15 ottobre, una notizia importante: Nikita Kruscev ha chiesto  – così dice il comunicato ufficiale – di essere esonerato da segretario del Comitato centrale del partito e al suo posto è stato nominato Leonid Brezhnev.

 Sempre in ottobre un’altra notizia importante: la Cina ha la bomba H.

 

1965

   Il 1965 è per la crisi del Vietnam l’anno della verità. Dopo la sconfitta francese a Dien Bien Phu nel 1954, l’Indocina è stata divisa in tre stati, il Laos, la Cambogia e il Vietnam; ma, come accadde per la Corea, il Vietnam è stato a sua volta diviso in due zone, con una linea provvisoria di demarcazione al diciassettesimo parallelo, in attesa di un’improbabile riunificazione. A nord nasce una repubblica (comunista) guidata da Ho Chi Minh, capitale Hanoi; a sud, capitale a Saigon, una monarchia filoccidentale, sùbito trasformata in una repubblica presidenziale e poi in una dittatura appoggiata dagli Stati Uniti.

 Nel 1957 i vietcong, cioè i guerriglieri comunisti appoggiati dal Vietnam del nord, cominciano ad attaccare l’esercito regolare del Vietnam del sud. In aiuto del governo di Saigon, convinti che una vittoria comunista significherebbe la perdita di tutta l’Asia sudorientale, gli americani dapprima mandano “consiglieri”, poi aiuti militari, poi reparti di truppe, carri armati, elicotteri e bombardieri: novemila ufficiali e soldati nel 1962, 15 mila nel 1963, 60 mila nel 1965; diventeranno 539 mila nel 1969.

 E’ una guerra vera e propria, ma una guerra che non segue gli schemi tradizionali; è una guerra di tipo nuovo, che si svolge dovunque, nelle città e nei villaggi, nelle strade e nelle boscaglie, nel fango dei campi e nell’acqua degli acquitrini. La potenza militare degli Stati Uniti si scopre inadatta a contrastare una guerriglia senza fronti e spesso senza uniformi, dove il nemico può essere chiunque, uomini, donne e ragazzi, armati delle armi leggere più moderne e sofisticate, fornite dalla Cina, dall’Unione Sovietica e da altri paesi comunisti.

  Ogni giorno che passa la guerra si incanaglisce, da una parte e dall’altra, entrambe accomunate dalla violenza brutale e dall’orrore. Il Pentagono e il Dipartimento di stato sono sicuri che prima o dopo la superiorità tecnologica e militare americana prevarrà e fanno  fallire in dicembre un tentativo di pace che si richiama a un singolare triangolo: Amintore Fanfani, che il 21 settembre è stato eletto presidente dell’Assemblea generale dell’Onu; papa Paolo VI, che il 4 ottobre parla all’Assemblea e grida “Non più guerra”; e il sindaco di Firenze Giorgio La Pira, che due settimane più tardi si reca ad Hanoi e ottiene da Ho Chi Minh un progetto di accordo su quattro punti; gli stessi punti su cui, otto anni dopo, si baserà l’accordo che porrà fine al conflitto.

 La guerra del Vietnam ha altri effetti: aggrava il dissenso fra la Cina e l’Unione Sovietica, non alleate ma in competizione per affacciarsi sui mari caldi del sud; e lacera trasversalmente i paesi dell’Occidente. Ambienti intellettuali e giovanili vedono nella guerriglia vietcong una lotta di liberazione popolare e denunciano la guerra americana come una guerra di aggressione del più forte al più debole. Anche negli Stati Uniti si ripetono le manifestazioni contro la guerra e, specie fra i giovani, l’ostilità sarà così ampia e diffusa da rappresentare un elemento determinante nella decisione della Casa Bianca di accettare, alla fine, la prima sconfitta militare della sua storia.

 Il mondo sta cambiando, ma molti ancora non se ne rendono conto. Eppure anche la Chiesa cattolica sta cambiando, e lo dimostra il Concilio Vaticano II che si conclude in dicembre con una grande apertura di dialogo rivolta ai popoli di tutti i continenti e di tutte le fedi.

 

1966

   I  grandi cambiamenti non avvengono mai da una giorno all’altro; hanno processi di lunga durata e non sempre è facile percepirne il lento cammino.

  Gli ultimi anni Sessanta segnano la crisi di un sistema di valori, di principii, di concetti, di modi di pensare e di essere che è ancora quello dell’Ottocento, e, insieme, il passaggio a un sistema nuovo, in cui tutto  deve essere non imposto dall’alto, ma recuperato dal basso, come personale autonoma conquista dell’individuo, in modo che valori, principii, concetti prendano corpo e significato all’interno delle dinamiche della vita quotidiana. Il 1966 è l’anno in cui comincia ad apparire sensibile questo processo di trasformazione, che poi esploderà fragorosamente  nel 1968.

 Come sempre, sono i giovani, in ogni campo, l’avanguardia del mutamento. Un nuovo modo di far musica, quello dei Beatles, dilaga in tutto il mondo e, insieme, un nuovo stile musicale, il rock and roll. Milioni di donne trovano non sperati spazi di libertà nell’uso della “pillola”. La minigonna, che si diffonde quest’anno, segna due punti rivoluzionari nel campo della moda: primo, la moda non fissa più regole rigide ma solo linee di massima; secondo, la moda non è più effimera e alcune formule – la minigonna, appunto – rimangono stabili nel tempo.

 La sensazione che si stiano rompendo certi schemi si ha un po’ dappertutto. Negli Stati Uniti cresce la protesta giovanile contro la guerra nel Vietnam e una voce incredibilmente dolce e musicale, Joan Baez, diventa uno degli idoli della gioventù di tutto il mondo per le sue canzoni contro la violenza. Ed è proprio l’opposizione a una società violenta e a ogni forma di autoritarismo il comune denominatore della rivolta della generazione nata nel dopoguerra.

 In questo quadro complesso e non sempre facilmente classificabile si inserisce un evento straordinario che si sta consumando nella Cina comunista. Mao Tse-tung, presidente del Partito comunista cinese, e Lin Piao, ministro della difesa, dànno il via nel 1966 ad una lotta che è, insieme, lotta di potere (gli avversari sono il presidente della repubblica Liu Shao-chi e il segretario del partito, Deng Hsiao-ping) e lotta ideologica. Il loro disegno politico porterà la Cina al caos e al disastro economico, ma rappresenta l’ultimo grande tentativo di creare una società comunista evitando gli errori commessi dall’Unione Sovietica.

 Le linee sono due: la “rivoluzione permanente” (espressa da un famoso manifesto di Mao: “Bombardate il quartier generale”, cioè attaccate la stessa dirigenza del partito e del governo per impedire che, eliminate le vecchie classi, ne nasca una nuova, quella politico-burocratica-militare); e la soppressione dello stato centralizzato e centralizzatore attraverso la creazione di migliaia di piccoli stati, cioè le “comuni popolari”, che si richiamano alla tragica appassionante vicenda della Comune di Parigi.

 Milioni di ragazzi e di ragazze, chiamate Guardie rosse, lasciano le loro case e percorrono il paese distruggendo ogni segno del passato. E’ la rovina, il caos, la fame. La grande utopia nella sua ultima versione finisce fra le rovine e il sangue. Ventidue anni prima della caduta del muro di Berlino il comunismo muore definitivamente, come ideologia, nella piazza di Tien An Men a Pechino.

 

1967

 Il 5 giugno del 1967 la guerra si riaccende nel Medio Oriente. E’ la terza guerra fra israeliani e arabi.

  La prima guerra, chiamata anche “guerra di indipendenza”, scoppia nel 1948, subito dopo la creazione dello stato di Israele. Termina nel 1949 con armistizi separati di Israele con Egitto, Libano, Giordania e Siria. Israele si trova con un territorio superiore a quello previsto, da cui fuggono settecentomila palestinesi.

 La seconda guerra coincide con l’aggressione anglofrancese all’Egitto dopo la nazionalizzazione del canale di Suez nel 1956. Onu e Stati Uniti costringono Londra e Parigi a ritirarsi e Israele deve abbandonare il Sinai che ha fulmineamente occupato.

 La terza guerra è di quest’anno ed è chiamata anche la “guerra dei sei giorni”. E’ una guerra lampo. Comincia il 5 e già il 6 tutte le forze aeree arabe sono distrutte negli aeroporti; la parte antica di Gerusalemme, in mano giordana, è occupata e così la striscia di Gaza; cadono le mura di Gerico. L’8 le truppe israeliane annientano le forze egiziane e raggiungono il canale di Suez. Il 9 entrano in Siria, occupano le alture del Golàn e si dirigono verso Damasco, mentre entra in guerra anche l’Iràq. L’Onu ordina il cessate il fuoco il 7 e lo ripete il 9. Tutti i governi arabi lo accettano; anche Israele, che in meno di sei giorni ha conquistato sessantamila chilometri quadrati di territorio egiziano, seimila di territorio giordano e un migliaio di territorio siriano; tanta terra che manterrà, nonostante che molte risoluzioni dell’Onu gliene impongano la restituzione.

 La guerra nel Medio Oriente ha forti ripercussioni in tutto il mondo, tanto più che l’Unione Sovietica si è schierata dalla parte degli arabi e gli Stati Uniti, pur dicendosi neutrali, dall’altra. In Italia le forze politiche di governo esprimono posizioni non del tutto coincidenti con quelle americane e molte polemiche si accendono quando il presidente della repubblica Saragat esprime invece piena solidarietà con Israele.

 La crisi mediorientale non è tuttavia uno dei temi dei movimenti di contestazione che in autunno cominciano a manifestarsi in alcune  università italiane, così come in altre università straniere. In Italia

lo spunto è dato dalla legge di riforma universitaria proposta dal ministro democristiano della pubblica istruzione Luigi Gui; solo in un secondo tempo si passa ai temi più propriamente politici, per primo l’opposizione alla guerra del Vietnam. Non mancano i miti: il mito di Mao e della rivoluzione culturale cinese, di cui si sa poco o niente ma che egualmente infiamma cuori e menti; e il mito di Ernesto “Che” Guevara, il rivoluzionario argentino amico e collaboratore di Fidel Castro, che in ottobre cade col fucile in mano nelle boscaglie della Bolivia, ucciso da reparti antiguerriglia dell’esercito.

 In tutto questo rumore fa rumore, in marzo e dopo, anche una enciclica di papa Paolo VI; è una enciclica che denunzia l’aggravamento degli squilibri fra popoli ricchi e popoli poveri, sostiene che la proprietà privata non costituisce un diritto incondizionato e assoluto e definisce il capitalismo liberistico un “malaugurato sistema”.

 A dicembre un grande evento lascia tutti perplessi: il primo trapianto del cuore; lo ha compiuto un chirurgo sudafricano, Christian Barnard.

 

1968

  Vietnam: la guerra arriva al suo punto più alto di sangue e di morte, e gli americani cominciano a pensare a chiuderla in qualche modo, possibilmente dignitoso. Cecoslovacchia: primo fra tutti i partiti comunisti dell’Europa orientale, quello cecoslovacco pensa a un “socialismo dal volto umano”, ma i carri armati dei paesi alleati intervengono per soffocarlo.  Protesta giovanile: in tutto il mondo le nuove generazioni si ribellano contro le varie forme di potere e contro la violenza delle istituzioni. Questo è il 1968. Da dove cominciare?

 Cominciamo da quella che viene chiamata “contestazione globale”; è il segno (uno degli effetti, non la causa) dei grandi cambiamenti che trasformano la società dalla fine degli anni Sessanta in poi. Il fenomeno si manifesta, sia pure con caratteristiche diverse, sia nei paesi industrializzati (in Italia e in Francia più che altrove), sia nei paesi del Terzo Mondo, sotto sotto anche nei paesi socialisti. Sulle bandiere della protesta, là dove è possibile, le parole sono molte, spesso confuse, spesso approssimative (“Pace in Vietnam”, “No alla bomba atomica”, “Facciamo l’amore, non la guerra”) oppure a favore di qualche tipo di rivoluzione (”No alla scuola dei padroni”, “Distruggere il sistema”) o di guerriglia (“Dieci, cento, mille Vietnam”). In tutti i movimenti c’è però un denominatore comune: l’opposizione all’autoritarismo e a una società che esprime la propria violenza col consumismo, la mercificazione della vita, l’ossessione televisiva, l’ignoranza se non il disprezzo dei diversi, degli indifesi, dei discriminati. Sarà un errore, specie in Italia, non capire quello che c’è dietro la rivolta dei giovani, al di là dei loro errori e delle loro insensatezze; sono loro gli inconsapevoli strumenti del processo che ci porta dal secondo al terzo millennio.

 Anche a Praga sono i giovani e gli intellettuali che al regime comunista cominciano a chiedere libertà di stampa e di espressione. Il nuovo segretario del partito, Alexander Dubcek, annuncia la volontà di abbandonare il centralismo e l’industrializzazione pesante, di espandere le libertà civili e di favorire una articolazione pluralistica del sistema politico. E’ aprile e maggio, e questa sarà chiamata la “primavera di Praga”. Ma in agosto le truppe del patto di Varsavia entrano nel paese e lo occupano. Dal governo esce un appello disperato al mondo: “Per la prima volta nella storia del movimento comunista internazionale un atto di aggressione è stato commesso da truppe dei paesi socialisti contro uno stato governato da un partito comunista”.

 A differenza di quanto accadde per i carri armati sovietici in Ungheria nel 1966, questa volta il Partito comunista italiano condanna l’intervento dei carri armati in Cecoslovacchia.

 Giovani e intellettuali sono anche quelli che negli Stati Uniti sfilano nelle città per chiedere la fine della guerra nel Vietnam, firmano proclami, accendono candele nella notte; e giovani sono anche gli americani che in Vietnam combattono e muoiono. Nella notte fra il 29 e il 30 gennaio – è la ricorrenza del Tet, cioè del capodanno indocinese – migliaia di guerriglieri vietcong attaccano le difese statunitensi nelle zone meridionali del paese, investono le principali città, assaltano il palazzo presidenziale e l’ambasciata americana nel centro della capitale Saigon. E’ la crisi definitiva della strategia militare del Dipartimento di stato e del Pentagono, è l’inizio del lento disimpegno. In maggio a Parigi cominciano i primi contatti fra Stati Uniti e Vietnam del nord.

 

1969

 In Italia la contestazione giovanile del 1968 continua nel 1969, ma senza più mordente. Il clima di generale tensione si ripercuote però nelle vicende politiche e sindacali: scissione nel Partito comunista (se ne va la sinistra del “Manifesto”), scissione nel Partito socialista (gli ex socialdemocratici se ne escono e costituiscono un altro partito, il Partito socialista unitario), dimissioni del governo. Dai gruppi studenteschi di “Potere operaio” e di “Lotta continua” nasce una sinistra a sinistra del Partito comunista. Fra gli operai la tensione cresce in settembre. Esaurita la spinta del “boom” economico, che ha migliorato le condizioni generali di vita ma non ha accresciuto di molto i salari, le maggiori categorie dei lavoratori – metalmeccanici in testa – sfidano imprenditori e polizia a sostegno di dure piattaforme sindacali. Milioni di operai scendono nelle piazze e negli scontri con la polizia appaiono formazioni nuove; non appartengono alla classe operaia né ai partiti tradizionali; vengono chiamati “extraparlamentari”.

 In concomitanza prima con le agitazioni giovanili e poi con le lotte operaie cominciano ad accadere strani eventi. In agosto, in uno stesso giorno, il 9, ci sono otto attentati sui treni, dal nord al sud; ma il fatto più grave accade il 12 dicembre: a Milano, nella sede della Banca nazionale dell’agricoltura, in piazza Fontana, un ordigno esplosivo provoca una strage; e lo stesso giorno un’altra bomba esplode a Roma alla Banca nazionale del lavoro e alla tomba del Milite Ignoto. E’ quella che verrà chiamata la strategia della tensione. Chi c’è dietro? l’estrema destra, l’estrema sinistra? Fra supposizioni settarie, strumentalizzazioni e depistaggi la gente non capisce. Solo dopo molti anni si conosceranno i mandanti e gli esecutori: i Servizi segreti e l’estremismo nero; in un secondo tempo anche la mafia.

 In Francia, dove nel maggio del 1968 l’unione degli studenti e degli operai ha trasformato l’agitazione in un tentativo di eversione antistatale, la mano dura di De Gaulle ha riportato l’ordine. Ora De Gaulle vuole maggiori poteri e propone un referendum che in pratica significa un voto di fiducia. Il 27 aprile i francesi gli dicono di no e il vecchio generale democraticamente se ne torna a casa.

 Anche in Cina, dopo la bufera scatenata dalle Guardie rosse, sta tornando l’ordine; ma è l’esercito a imporlo. Contro quello che viene denunziato come “opportunismo di destra e di sinistra” Mao Tse-tung e il suo “compagno d’arme” Lin Piao chiedono aiuto ai militari. Militari si vedono così dappertutto: nelle fabbriche, nelle campagne, nelle università. Nel nuovo presidium del Partito comunista gli uomini in uniforme verde e la stella rossa sul berretto (che non viene mai tolto) sono il 40 per cento.

 Fra tanti eventi ce n’è anche uno che lascia il mondo stupefatto e, in parte, perfino incredulo: lo sbarco dell’uomo sulla Luna. Tra il 20 e il 21 luglio tre astronauti americani, a bordo di una capsula spaziale, l’Apollo 11, mettono piede sul terreno lunare; e la tv ne dà l’immagine in diretta in tutti i continenti. E’ un evento di straordinario significato nella storia dell’umanità così come di grande valore scientifico e tecnologico. Utilità? scarsa; e col tempo sarà quasi dimenticato. Rimane solo una bandiera a stelle e strisce, arrivata sulla Luna prima della bandiera rossa dell’Unione Sovietica e infissa saldamente sulla superficie del nostro satellite.

 

1970

   I due media che hanno contribuito e contribuiscono a cambiare la società, la televisione e il computer, non hanno ancora effetti di massa agli inizi degli anni Settanta: né la televisione in bianco e nero, che ha cominciato a diffondere programmi nel 1954 (per quella a colori bisognerà aspettare il 1975), né il computer, che, scoperto nel 1945, è entrato in tutte le grandi imprese tecnologiche, compresa la conquista della Luna, ma diventerà “personal” e arriverà sul tavolo di ufficio soltanto nel 1974.  Tuttavia si comincia a sentire che c’è qualcosa di nuovo nel paese. Lo  si sente non nella politica, sempre lenta nel percepire i cambiamenti della società, ma nel sindacato. Dopo il cosiddetto “autunno caldo” i sindacati – Cgil, Uil e Cisl – cambiano classe dirigente, si avviano verso strategie unitarie e si fanno portatori di istanze diverse da quelle tradizionali, traducendo la protesta operaia in pressione per le riforme. Per la prima volta si sente parlare non soltanto di salari e di orari di lavoro, ma anche di casa, di sanità, di servizi.

 In maggio viene approvato anche dalla Camera, dopo il Senato, lo statuto dei lavoratori: un documento su cui molti imprenditori continueranno per anni a recriminare, ma che ha il merito di tutelare i diritti costituzionali dei lavoratori nelle aziende.

 In giugno, a ventidue anni di distanza dall’entrata in vigore della Costituzione, si vota per l’elezione dei primi consigli delle regioni a statuto ordinario. L’ordinamento regionale è stato a lungo avversato dai partiti di centro e di destra non tanto per amore di uno stato centralizzato e centralizzatore, quanto per il timore che tre delle venti regioni possano diventare centri di potere del Partito comunista.

 Il 1° dicembre, dopo un faticoso percorso legislativo, è legge dello stato il divorzio, che pone l’Italia alla pari di altri paesi anche cattolici. L’approvazione della legge, fortemente avversata dalla Chiesa, troverà clamorosa conferma nel referendum abrogativo del 1974, quando il sessanta per cento dei votanti si esprimerà a favore del divorzio con un voto che per la prima volta taglierà trasversalmente i partiti, di cui non saranno rispettate le indicazioni pro o contro.

 Il 1970 offre alimento all’estrema destra per rinnovare il tentativo  messo a segno nel 1968 e nel 1969 al tempo della contestazione giovanile e dell’autunno caldo: quello di presentarsi come referente politico all’opinione pubblica moderata. A metà luglio Reggio Calabria entra in agitazione per la disputa con Catanzaro sulla scelta dell’una o dell’altra città come capoluogo della regione. La protesta di Reggio viene presto egemonizzata dall’estrema destra in senso meridionalistico e soprattutto antipartitico al grido di “Boia chi molla”. Per una decina di mesi ci sono disordini, scontri con la polizia, qualche morto e centinaia di feriti, miliardi di danni.

 Negli episodi di guerriglia urbana si sente parlare di gruppi di estrema destra e di nomi come Avanguardia nazionale e Ordine nuovo: nomi che ritroveremo negli anni del terrorismo, legati alla strategia della tensione e ai Servizi segreti. Nella notte fra il 7 e l’8 dicembre c’è perfino uno strano e un po’ ridicolo tentativo di occupare il ministero degli interni; il gruppo fa capo a Junio Borghese, comandante nel 1943-435  di una malfamata formazione della Repubblica sociale italiana, la Decima Mas.

 

1971

   Il 6 febbraio, nei pressi dello stabilimento Pirelli a Milano, viene trovato un foglio scritto a macchina, in cui si rivendica la paternità di un attentato (tre autocarri dati alle fiamme) avvenuto qualche giorno prima. Il foglio è intestato “Brigate rosse” ed è la prima volta che appare questo nome. C’è scritto, fra l’altro: “Alla violenza si risponde con la violenza”.

La strategia della tensione è cominciata in nero, con gli attentati ai treni nell’agosto del 1969 e in dicembre con la strage di piazza Fontana a Milano. La matrice nera dei primi  atti terroristici complica la valutazione dei fatti e ne rende più difficile l’interpretazione quando, col 1970, il terrorismo si presenta anche come terrorismo rosso.

 E’ da questo momento che si apre uno strano periodo, che durerà parecchi anni: un periodo in cui sembra che la passione prevalga sulla ragione, l’irrazionalità sullo spirito critico, insomma una follia che caratterizza non solo i protagonisti della violenza ma anche molti di coloro che la violenza dovrebbero valutare e giudicare: gli uomini politici, gli intellettuali, i giornalisti, anche i magistrati.

 Prima di tutto l’ignoranza o, per lo meno, la sottovalutazione del fenomeno. A lungo le Brigate rosse continuano ad essere chiamate “sedicenti” oppure “cosiddette” oppure “fantomatiche”. Per la sinistra è un’organizzazione che si definisce “rossa”, ma in realtà è “nera” e si definisce “rossa” per screditare la sinistra. In dicembre il prefetto di Milano Libero Mazza invia al ministero degli interni un rapporto in cui segnala il pericolo rappresentato dalla presenza in città di movimenti di estrema destra ma anche di formazioni estremiste di sinistra. Nei gruppi di destra e nei gruppi di sinistra si possono calcolare – scrive il Prefetto – circa ventimila militanti, dotati di una vera e propria organizzazione militare con equipaggiamento e armamento militare. Il rapporto, che viene sùbito definito una “espressione di rozzezza culturale”, interpreta quella che viene chiamata la teoria “degli opposti estremismi” e che continuerà a lungo ad essere avversata e vilipesa.

 Si preannunziano anni terribili per l’Italia; qualcuno li chiamerà gli “anni di piombo”, qualcun altro parlerà di “sonno della ragione”. Nel 1971 la situazione economica del paese peggiora: diminuisce la produzione industriale, scendono gli investimenti, il reddito nazionale lordo cresce soltanto dell’1.4 per cento, le spese sono largamente maggiori delle entrate. Aumentano  i dissensi fra i partiti di governo; i socialisti accentuano il loro distacco dalla politica di centrosinistra e parlano dell’opportunità di “equilibri più avanzati”, che coinvolgano cioè anche il Partito comunista.

 In maggio un nuovo fronte si apre in Sicilia. Per anni i poteri centrali hanno ignorato la mafia o addirittura ne hanno escluso l’esistenza. Lasciare indisturbata la situazione siciliana conviene ai partiti di governo, che nell’isola, grazie al voto controllato dalla mafia, hanno conquistato una solida egemonia. Ma il 5 maggio a Palermo il procuratore della repubblica Pietro Scaglione è ucciso in un agguato mafioso. E’ la prima volta che viene colpito un alto magistrato; evidentemente qualcuno vuole alzare il tiro. Ma allora la mafia non è un’invenzione dei giornali o il tema di qualche polemica politica; la mafia esiste davvero.

 

1972

Che cosa vogliono, le Brigate rosse lo dicono senza mezzi termini in un libretto (in copertina c’è una stella a cinque punte, stilizzata  dentro un cerchio) fatto arrivare alla stampa il 6 marzo: 1) misurarsi col potere a tutti i livelli, cioè liberare i detenuti politici, eseguire condanne a morte, espropriare i capitalisti; 2) far nascere un potere alternativo nelle fabbriche e nei quartieri popolari.  Più chiaro di così. Per molti, invece, non è chiaro, ma in realtà è difficile distinguere bene fra ignoranza, disinformazione, faziosità e malafede; e la gente comincia a non avere più fiducia in quelli che fino ad allora erano tre punti di riferimento sicuro: la magistratura, i carabinieri, la stampa.

 Tre esempi di quest’anno. Il 15 marzo il cadavere di uno sconosciuto, dilaniato dall’esplosione di un ordigno, è trovato alla base di un traliccio dell’energia elettrica nei pressi di Segrate, a dieci chilometri da Milano; lo si identifica per l’editore Giangiacomo Feltrinelli. Il 17 maggio è assassinato per strada il commissario Calabresi, che è stato coinvolto  nella morte di un anarchico, Giuseppe Pinelli, durante le indagini per la strage di piazza Fontana a Milano. Il 31 maggio a Peteano in provincia di Gorizia cinque carabinieri sono attirati in un’imboscata e in un’auto che salta in aria tre di loro muoiono, due rimangono feriti.

 Giangiacomo Feltrinelli – dicono in coro le sinistre – è stato assassinato dai fascisti su ordine della Cia (si accerterà che invece è morto incidentalmente mentre stava piazzando un ordigno esplosivo sul traliccio). Per il commissario Calabresi vale una scritta in una strada di Milano: “Pinelli è stato vendicato. Oggi Calabresi, domani i padroni. Viva la giustizia proletaria”; parecchi anni più tardi si attribuirà il delitto a Lotta continua. Per il delitto di Peteano la magistratura arresta tre goriziani che non c’entrano per niente; poi, dopo molti tentativi di depistaggio da parte degli stessi carabinieri, verrà fuori un gruppo terroristico di estrema destra, collegato a una struttura parallela dei Servizi segreti.

 Nel paese la confusione – come si dice – regna sovrana; e la situazione politica non aiuta le gente a districarsi. Il 15 gennaio il governo di centrosinistra, l’ultimo, si dimette. Il presidente della repubblica scioglie le Camere; le elezioni vedono una debole maggioranza della coalizione di centro che la Democrazia cristiana ha proposto agli elettori per sfuggire alla richiesta socialista di equilibri più avanzati; dopo le elezioni nasce un governo di centro, guidato da Giulio Andreotti. Intanto si aggravano l’inflazione e il disavanzo pubblico. Fra i prezzi che salgono e i terroristi che imperversano vale una frase che viene attribuita a Andreotti e che Andreotti non ha smentito: piuttosto che tirare le cuoia, conviene tirare a campare.

 Qualcosa di importante sta avvenendo in Cina. Il 21 febbraio il presidente americano Richard Nixon, appena rieletto, va in visita a Pechino, invitato dai cinesi, e qui si incontra con Mao Tse-tung e con Chou En-lai. Prima di partire Nixon dice: “Sono stato qui una settimana; è una settimana che ha cambiato il mondo”. Sicuramente c’è della presunzione in queste parole, ma una cosa è certa: è finito il bipolarismo Stati Uniti-Unione Sovietica; sulla scena internazionale c’è una terza superpotenza. In luglio Nixon ordina di riprendere i contatti segreti con i nordvietnamiti. La pace nel Vietnam è in vista?

 

1973


Il 27 gennaio il presidente americano Nixon dà l’annuncio: la guerra nel Vietnam è finita. Dopo quattro anni di trattative il segretario di stato Henry Kissinger e il ministro degli esteri nordvietnamita Le Duc To firmano l’accordo. Tra il 1965 e il 1972 il numero dei civili  morti e feriti è stato di un milione 350 mila. Gli Stati Uniti hanno avuto 46 mila morti in combattimento, 1.200 dispersi, 303 mila feriti. Le clausole dell’accordo sono le stesse che Ho Chi Minh aveva proposto nel 1964 attraverso il sindaco di Firenze Giorgio La Pira.

 Richard Nixon non parla di sconfitta; dice anzi che l’intesa assicura agli Stati Uniti una conclusione onorevole del conflitto. Il 29 marzo la bandiera a strisce e stelle è così ammainata, ma, il giorno dopo, partiti gli ultimi soldati americani, il governo di Hanoi, rinnegando la riconciliazione fra nord e sud prevista dagli accordi, riprende la guerra e nel 1974 il Vietnam sarà tutto comunista. A Henry Kissinger e Le Duc To viene assegnato quest’anno il Premio Nobèl per la pace, ma Le Duc To lo rifiuta. Giustamente.

 Una bufera mondiale scoppia in ottobre. Il 6, nel giorno del “kippur”, cioè della solenne festa del digiuno e dell’espiazione, Israele è attaccata a sorpresa dall’Egitto e dalla Siria, poi anche dall’Iraq e dalla Giordania. Stranamente le forze israeliane sono colte impreparate; perdono terreno, poi lo riconquistano; le sorti sono incerte. All’Onu Stati Uniti e Urss, per la prima volta insieme, propongono un “cessate il fuoco”, che viene accettato da tutti. L’11 novembre l’accordo è firmato.

 La guerra del kippur induce i paesi arabi produttori di petrolio a razionare il greggio e ad aumentarne il prezzo. Ne risentono tutti i paesi consumatori, specie l’Italia, dove l’impennata dei prezzi del petrolio aggrava la bilancia dei pagamenti e una situazione economica già in pericolo fin dall’inizio dell’anno. La lira è svalutata del 16.5 per cento rispetto alle altre monete europee e del 7.7 rispetto al dollaro. L’inflazione supera l’11 per cento. In novembre il governo decide una serie di misure chiamate di “austerità”: limiti di velocità su strade e autostrade, divieto di circolazione dei veicoli a benzina nei giorni festivi, chiusura alle 23 di cinema, teatri e  trasmissioni televisive, negozi senza luce nelle vetrine e chiusi alle 19.

 L’austerità in Italia avrà breve vita, ma gli italiani hanno altri motivi di preoccupazione. Il terrorismo dilaga, nero e rosso. I fatti più gravi: in aprile viene dato fuoco (rosso) a una palazzina nel quartiere di Primavalle a Roma e due fratelli, 22 e otto anni, muoiono carbonizzati; in maggio un ordigno esplosivo (nero) scoppia davanti alla questura di Milano cinque minuti dopo l’uscita del ministro degli interni Rumor. In dicembre viene rapito un alto funzionario della Fiat. Il fatto più inquietante è che volantini firmati Brigate rosse cominciano a circolare nelle fabbriche del nord.

 L’estremismo, le minacce incombenti di avventure reazionarie e anche un evento lontano, nel Cile, dove un colpo di stato ha rovesciato il governo socialista di Salvatore Allende e instaurato la dittatura del generale Pinochet, inducono il nuovo segretario del Partito comunista Enrico Berlinguer a proporre un grande “compromesso storico” tra le forze che rappresentano la maggioranza del popolo italiano, cioè fra comunisti e cattolici ossia democristiani. In questi anni politicamente grigi dopo la fine del centrosinistra  il “compromesso storico” è una grande novità; se ne parlerà per parecchi anni, fra timori e speranze.

 

1974

Gli atti terroristici aumentano di numero e di gravità. Aumenta anche la confusione e lo sconcerto: sono attentati rossi mascherati da attentati neri o attentati neri mascherati da attentati rossi? Di sicuro, ci sono gli uni e gli altri, anche se in agosto, fra lo stupore generale, il ministro degli interni Paolo Emilio Taviani sostiene che il terrorismo è soltanto di destra.  Per fortuna, la verità prima o dopo esce fuori; spesso sono gli stessi autori a lasciare il loro biglietto da visita. In aprile Mario Sossi, giudice di Genova, pubblico ministero al processo contro il gruppo terroristico XXII marzo, è rapito dalle Brigate rosse (che lo dicono). Il 28 maggio in piazza della Loggia a Brescia un ordigno esplode durante una manifestazione sindacale: otto morti, un centinaio di feriti (nessuna rivendicazione; non si conosceranno mai i responsabili). Ancora in maggio a Pian di Rascino, nelle campagne di Rieti, i carabinieri scoprono un campo paramilitare dell’estrema destra e in ottobre un arsenale delle Brigate rosse a Robbiano di Mediglia, nel Milanese. Quasi ogni giorno si ha notizia di qualche fatto terroristico; e non mancano morti e feriti.

 Il fatto più grave il 4 di agosto; è la strage del treno “Italicus”: un ordigno esplode sull’espresso Roma-Monaco tra Firenze e Bologna e lo fa deragliare; dodici morti, carbonizzati, e 48 feriti. Anche di questo attentato non si conosceranno mai i responsabili, sebbene Ordine nero, un gruppo dell’estrema destra, ne rivendichi sùbito la paternità con volantini che inneggiano al nazismo.

 Il 31 ottobre il generale Vito Miceli, capo, fino al 31 luglio, di un settore dei Servizi segreti, è arrestato – nel corso delle indagini della magistratura sulle cosiddette trame nere – per cospirazione contro lo stato. In gennaio “l’Unità” ha raccolto voci di misure di sicurezza nelle caserme per prevenire attentati terroristici. Oppure per aiutare o per impedire un colpo di stato? Non si sa. Dopo Giovanni Leone, Mariano Rumor, Emilio Colombo, Giulio Andreotti, ancora Rumor (nove governi in sei anni), in novembre il governo ritorna – al termine di una crisi durata cinquanta giorni – nelle mani di Aldo Moro; è il suo quarto governo. La situazione è gravissima. La Fiat mette in cassa integrazione 65 mila dipendenti; il prezzo della benzina sale a 260 lire; in settembre la Borsa perde il l8.5 per cento e l’indice è 48.74 rispetto al 100 del 1963;  Cgil, Uil e Cisl proclamano scioperi generali a sostegno dell’occupazione.

 Scoppia anche lo scandalo della banca privata italiana di proprietà del finanziere Michele Sindona. Colpito da un mandato di cattura,  Michele Sindona, grande amico di molti potenti, fugge negli Stati Uniti, dove sarà arrestato nel settembre 1976 e rilasciato dopo il pagamento di una cauzione di mezzo miliardo di lire. Morirà avvelenato nel carcere di Voghera nel 1986, lasciando dietro di sé uno strascico di misfatti, fra cui i meno gravi sono la bancarotta e i soldi dati ad alcuni partiti.

 Il finanziamento pubblico dei partiti è approvato in aprile dalla Camera e dal Senato dopo un brevissimo dibattito; tutti a favore, salvo i liberali, che votano contro, e la sinistra indipendente, che si astiene. Qualcuno pensa che in questo modo si assicura la trasparenza nel finanziamento dei partiti: non avranno più bisogno di soldi occulti e condizionanti o di interessate tangenti. Non sarà così, invece, e ce ne accorgeremo al tempo di Tangentopoli.

 

1975

Nel 1975 nasce l’eurocomunismo: una linea politica che vuole legare i partiti comunisti europei (per lo meno i più importanti: l’italiano, il francese e lo spagnolo) ad un comune impegno: la costruzione del socialismo nella libertà, rispettando il pluralismo politico e l’alternanza al governo di maggioranze diverse. L’iniziativa è di Enrico Berlinguer, segretario del Partito comunista italiano. Mancano ancora 14 anni alla caduta del muro di Berlino e l’iniziativa ha quindi un suo valore; si lega all’idea di Palmiro Togliatti di una “via nazionale” al socialismo e alla più recente proposta dello stesso Berlinguer per un “compromesso storico” ossia per un’intesa fra cattolici e comunisti.

Qualche novità si è vista fino da gennaio. Il 25 la federazione unitaria Cgil-Uil-Cisl firma un accordo con la Confindustria sull’unificazione del punto di contingenza; per Gianni Agnelli si tratta di un “capitolo nuovo”. In marzo il Partito comunista unisce i suoi voti a quelli degli altri partiti sulla legge per l’abbassamento della maggiore età a 18 anni e poi sul nuovo diritto di famiglia. Nel Partito repubblicano Ugo La Malfa giudica il compromesso storico un progetto con un contenuto concreto, realizzabile nel quadro di una evoluzione dei rapporti internazionali.

 Nelle elezioni regionali del 15-16 giugno il Partito comunista avanza del 5.5 per cento, il Partito socialista dell’1.6; la Democrazia cristiana arretra del 2.5 e i partiti laici, complessivamente, del 3.3. In cinque regioni si formano giunte di sinistra, e così anche in molte città e province. L’opinione pubblica moderata non si sente tranquilla, specie in presenza di una attività terroristica che si fa sempre più inquietante, anche per certe sue farneticanti manifestazioni ideologiche. Un documento delle Brigate rosse, chiamato “prima risoluzione strategica”, parla per la prima volta di “Stato imperialista delle multinazionali” e preannunzia l’imminente vittoria della rivoluzione nel mondo.

 Nel mondo o, meglio, in Europa succedono fatti importanti. In Portogallo il “movimento delle forze armate”, che nel 1974 ha rovesciato la dittatura con quella che è stata chiamata la “rivoluzione dei garofani”, prende il potere; questi militari (colonnelli e ufficiali subalterni) vengono dalla giungla e dalla savana delle colonie africane, dove si sono nutriti di teorie socialiste e terzomondiste; il Partito comunista di Alvaro Cunhal ne approfitta e l’alleanza comunisti-militari rischia di portare il paese da una dittatura di destra a una dittatura di sinistra. Occorreranno più di quattro anni perché in Portogallo arrivi una democrazia parlamentare.

  In Spagna il 20 novembre muore il generalissimo Francisco Franco. Era al potere da 37 anni, da quando, il 30 gennaio 1938, ha assunto la doppia funzione di capo dello stato e del governo ancor prima della fine (marzo 1939) della guerra civile che ha insanguinato  la Spagna dal settembre 1936. Agitazioni operaie, scioperi, manifestazioni studentesche hanno scosso gli ultimi anni del regime franchista, ma solo la morte di Franco apre la strada al ritorno della democrazia. Il passaggio avviene senza scosse. Juan Carlos di Borbone, già indicato dallo stesso Franco come futuro sovrano, cinge la corona e pilota con abilità il ritorno degli istituti democratici. Anche il Partito comunista, clandestino dal 1939, torna alla legalità; segretario è Santiago Carrillo; il 12 luglio si è incontrato a Livorno con Enrico Berlinguer per parlare di eurocomunismo.

 

1976

Due morti importanti in Cina nel 1976; importanti per la Cina e importanti per il mondo. Prima muore, l’8 gennaio, dopo una lunga malattia, Chou En-lai. E’ stato ministro degli esteri dal 1949 al 1958 e poi primo ministro; è l’unico che sia rimasto al suo posto, dal principio alla fine, senza subire le alterne e burrascose vicende del regime. La sua morte mette tutto in movimento; chi prenderà il suo posto: il moderato Deng Xiaoping oppure il radicale Zhang Chungqiao?  A furor di popolo (ben guidato dai protagonisti di questa nuova lotta di potere), Deng viene esonerato (e non è la prima volta) da tutte le sue funzioni. Al suo posto è scelto un uomo di seconda fila, Hua Kuo-Feng. Ma il 9 settembre muore, a 82 anni, Mao Tse-tung, il “grande timoniere”, come è stato chiamato; l’uomo che ha fondato la repubblica popolare e ha fatto della Cina la terza grande superpotenza mondiale; il promotore della rivoluzione culturale proletaria, nel tentativo di creare una vera società comunista senza classi e senza stato, e fautore di una rivoluzione permanente contro la burocratizzazione dell’ideologia. Capo del regime e, al tempo stesso, capo dei ribelli, Mao ha vissuto tristemente i suoi ultimi anni di vita, nella tragica certezza che, nonostante i milioni di morti lasciati lungo la strada, gli ideali che hanno ispirato la sua lotta saranno presto rinnegati dal partito e dalla società.

 Dopo appena due mesi cominciano gli attacchi alla vedova di Mao e ai tre massimi esponenti della sinistra; sono accusati dei crimini più infami, sono la “banda dei quattro”. Ha inizio la normalizzazione; si tratta solo di aspettare l’ennesimo ritorno di Deng Xiaoping; ha 72 anni; sarà l’artefice della nuova Cina socialcapitalistica.

 In Italia il quinto governo Moro cerca di far fronte alla gravissima crisi della lira e alla paurosa crescita dell’inflazione, mentre continua lo stillicidio dei morti, da una parte e dall’altra. L’8 giugno è ammazzato dalle Brigate rosse a Genova il magistrato Francesco Coco; il 10 luglio, a Roma, cade sotto una raffica di mitra Vittorio Occorsio, il magistrato che ha svolto indagini sulle deviazioni dei Servizi segreti e sul movimento eversivo di destra Ordine nuovo. Il terrorista nero che sarà arrestato come autore dell’assassinio e condannato all’ergastolo, resterà noto anche per avere strangolato in carcere due compagni di detenzione. Il dissidio fra i partiti porta alle dimissioni del governo Moro e allo scioglimento anticipato del Parlamento. Le elezioni del 20-21 giugno vedono la vittoria della Democrazia cristiana e il grande successo del Partito comunista, che col suo 34.4 per cento alla Camera è soltanto a quattro punti dal partito di maggioranza relativa. Qualcuno comincia già a parlare di un possibile futuro “sorpasso”.

  Dopo le elezioni, repubblicani, socialdemocratici e socialisti non si mettono d’accordo e i comunisti, per aiutare la formazione del governo, offrono la propria astensione. Nasce il terzo governo Andreotti, uno strano governo, che si regge non sui voti favorevoli ma sulle astensioni, che superano i voti di fiducia; sarà chiamato il governo della “non sfiducia”.

Grande cambiamento in campo socialista. Al Comitato centrale del partito, che si svolge in luglio all’hotel Midas di Roma, la delusione del risultato elettorale provoca la rivolta dei quarantenni. Bettino Craxi ha 42 anni; viene eletto segretario. Comincia l’era craxiana.

 

1977

Il 17 febbraio all’università di Roma il segretario della Cgil, Luciano Lama, tiene un comizio per la federazione sindacale unitaria: è un tentativo di stabilire un dialogo fra le classi lavoratrici e i giovani contestatori. Lama non riesce a parlare. I cosiddetti “collettivi universitari”, i cosiddetti autonomi e i cosiddetti “indiani metropolitani” (si fanno chiamare così per significare la propria diversità) lo contestano fino ad assaltare con bastoni e spranghe di ferro il palco sul quale si trova e a costringerlo alla fuga.

  L’ondata terroristica dilaga. Alla fine dell’anno si conteranno 2.128 attentati, undici morti, trentadue “gambizzati”; fra questi Indro Montanelli, Emilio Rossi direttore del Tg1, Vittorio Bruno vicedirettore del “Secolo XIX”. Non colpito alle gambe ma alla testa con quattro proiettili è, in novembre, Carlo Casalegno, vicedirettore della “Stampa” di Torino. “Abbiamo giustiziato un servo dello stato” lasciano scritto i brigatisti rossi assassini. Casalegno, giornalista di grande professionalità e probità, già partigiano nelle formazioni di “Giustizia e libertà”, era un uomo di sinistra.

 La fiammata, che colpisce magistrati, avvocati, dirigenti industriali, esponenti politici, giornalisti, oltre alle forze dell’ordine, non è più ora nera ora rossa, ma quasi soltanto rossa. Uomini di lettere, di studio, di pensiero, di scienza – nomi autorevoli e oggi impensabili: anche Eco, Colletti, Mieli, Raboni, Argan, Sciascia, perfino Bobbio  – rinunziano a quello spirito critico che dovrebbe essere il loro più felice privilegio e si schierano dalla parte dei terroristi. Alla fine è uno dei più alti dirigenti comunisti, Giorgio Amendola, che insorge contro questi cattivi maestri; li chiama “disfattisti della causa repubblicana” e addita loro la maturità mostrata invece dalla classe operaia e la crescita democratica del Partito comunista.

 Il 2 novembre, alle celebrazioni a Mosca del sessantesimo anniversario della Rivoluzione d’ottobre, il segretario del Partito comunista italiano Enrico Berlinguer sostiene che il suo partito intende realizzare una “società nuova, socialista sì, ma che garantisca tutte le libertà personali e collettive, civili e religiose, il carattere non ideologico dello stato, la possibilità di esistenza di diversi partiti, il pluralismo della vita sociale, culturale e ideale”. Berlinguer ha parlato soltanto sei minuti, sotto gli occhi e lo sguardo insospettito di Leonid Brezhnev, segretario generale del Partito comunista sovietico; gli applausi sono pochissimi, molti i segni di disapprovazione da parte della dirigenza del Cremlino.

L’anno finisce con 200 mila metalmeccanici che in dicembre si riuniscono a Roma per una manifestazione organizzata dalla Cgil, dalla Uil e dalla Cisl. Chiedono una svolta politica, sembrano aprire la via ad una nuova fase della politica di solidarietà nazionale.

 In novembre è morto a Firenze Giorgio La Pira, per due volte sindaco della città, promotore di incontri che hanno visto intorno allo stesso tavolo nel 1958 russi e americani in piena guerra fredda, nel 1958 israeliani e palestinesi, francesi e algerini prima degli accordi di Evian. Nel 1965 è stato ad Hanoi e la guerra del Vietnam sarebbe finita otto anni prima, se Washington non avesse fatto fallire i suoi sforzi. Si dirà di lui: era un uomo che intendeva la politica non come una macchina di potere, ma come creatività, come costruzione di una nuova gerarchia di valori, come lettura dei segni misteriosi dei tempi.

 

1978

Alle 9.10 del 16 marzo a Roma, in via Fani nel quartiere della Camilluccia, le Brigate rosse (con un’azione che uno dei cattivi maestri dell’ultrasinistra definirà poi improntata a “geometrica potenza”) sequestrano Aldo Moro, presidente della Democrazia cristiana, e massacrano i quattro poliziotti della sua scorta.  Nella stessa mattinata Giulio Andreotti presenta il suo quarto governo: un monocolore democristiano, sostenuto dai socialisti, dai socialdemocratici, dai repubblicani e anche dai comunisti. In una atmosfera drammatica, per la prima volta nella storia della repubblica Camera e Senato votano immediatamente la fiducia. Il quotidiano comunista scrive a tutta pagina: ”Gli italiani si stringono a difesa della repubblica. Si è formata in Parlamento la nuova maggioranza”.

 Aldo Moro sarà trovato, cadavere, 55 giorni dopo, nel bagagliaio di una Renault rossa in via Caetani, vicino alla sede della Democrazia cristiana, in piazza del Gesù, e alla sede del Partito comunista, in via delle Botteghe Oscure. Cinquantacinque giorni di angoscia per tutto il paese: fermezza o trattativa? Fermezza, dicono gli uni, perché un patteggiamento di fronte al ricatto delle Brigate rosse significherebbe un loro riconoscimento politico e quindi una resa dello stato di fronte al terrorismo; trattativa, dicono gli altri, perché il primo dovere dello stato è di salvare uno dei suoi maggiori esponenti. Il ritrovamento del cadavere di Moro pone fine al dibattito e agli ultimi tentativi – di Amintore Fanfani, di Bettino Craxi – di stabilire un contatto con i terroristi.

 Il comunicato col quale le Brigate rosse rivendicano la cattura di Aldo Moro, “attuatore” dicono “dei programmi controrivoluzionari della borghesia imperialista”, fa pensare a molti che la scelta di Moro e non di altri capi democristiani come uomo da eliminare è stata dettata dalla volontà dell’ultrasinistra di impedire il cosiddetto “compromesso storico” proposto dal comunista Berlinguer e non respinto dal cattolico Moro o, per lo meno, di indebolire i due partiti protagonisti; da questa tesi ne nasce un’altra: che le Brigate rosse siano state guidate, attraverso oscuri legami con i Servizi segreti, da qualche “grande vecchio, in Italia o all’estero, animato da quel proposito.

 Le successive confessioni e le ammissioni dei brigatisti così come le carte dei processi non convalidano queste ipotesi. Dietro le Brigate rosse non c’era nessuno, ma forse c’era qualcuno dietro chi non ha fatto abbastanza per liberarlo. L’insuccesso dei tentativi di salvare Aldo Moro non è dipeso soltanto dalla inefficienza e dalla impreparazione delle forze di polizia e dalla insipienza dei loro capi. I Servizi segreti sono comandati da uomini di quella loggia P2 di cui si parlerà fra tre anni e che si dichiara contraria ad ogni coinvolgimento del Partito comunista nel governo.

 Il 1978 sarà ricordato anche per altri eventi. In giugno Giovanni Leone si dimette da presidente della repubblica dopo una serie di accuse vere o false e al suo posto è eletto Sandro Pertini col voto di tutti i partiti dell’arco costituzionale. In agosto muore papa Paolo VI Montini e dopo 33 giorni di pontificato muore anche Giovanni Paolo I Luciani. Il 16 ottobre è eletto papa il cardinale polacco Karol Wojtyla, il primo papa non italiano dal 1520. Si chiamerà Giovanni Paolo II e sarà il papa che contribuirà a mettere in crisi il sistema politico dell’Europa orientale.

1979

 

1980

Alle 10.26 del 2 agosto una fortissima carica di esplosivo fa saltare in aria l’ala dell’edificio  della stazione ferroviaria di Bologna in cui si trovano le sale d’aspetto e il ristorante. Una strage: 85 morti e duecento feriti. L’11  dicembre una bel numero di mandati di cattura viene emesso dai magistrati che conducono l’inchiesta: contro parecchi esponenti del terrorismo nero, contro alcuni alti dirigenti dei Servizi segreti e contro un certo Licio Gelli, capo venerabile di una strana loggia massonica di cui da qualche tempo si comincia a parlare, la P2.  L’intrigo comincia ad essere sempre più chiaro: estremisti di destra, Servizi segreti (o certi settori dei Servizi segreti), massoneria (o certo settori della massoneria) e, da qualche tempo, anche la mafia.

 In quest’anno la mafia, che ha assunto un posto di rilievo nel traffico internazionale degli stupefacenti e ha messo insieme enormi patrimoni, ha deciso di alzare il tiro: non più contro gli uomini che ostacolano la sua attività, ma contro gli uomini che sono il simbolo delle istituzioni che si ribellano. Il 6 gennaio è assassinato a Palermo Piersanti Mattarella, democristiano, presidente della Regione Sicilia. Seguiranno altri. La mafia non vuole più essere uno stato accanto allo stato ufficiale, ma uno stato al posto dell’altro stato. Non vuole essere “vicina”, ma “dentro” i partiti, il governo, l’amministrazione pubblica, la magistratura, le banche, l’alta finanza.

 Anche questo è un anno duro per l’Italia. Il terrorismo rosso imperversa; il 12 febbraio è assassinato dentro l’università di Roma Vittorio Bachelet, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura e docente di diritto amministrativo; stava per entrare nell’aula intitolata ad Aldo Moro. Il 28 maggio è ucciso il giornalista Walter Tobagi. Il 12 novembre Renato Briano, direttore del personale della Magneti Marelli. Il 28 novembre Manfredo Mazzanti, direttore tecnico della Falck. Il 1° dicembre Giuseppe Furci, direttore sanitario del carcere di Regina Coeli. Il 31 dicembre il generale dei carabinieri Enrico Galvaligi.

 In marzo scoppia lo scandalo dell’Italcasse per gli ingenti finanziamenti elargiti ad alcuni partiti. In ottobre scoppia lo scandalo dei petroli: una truffa di duemila miliardi ai danni dello stato. Col primo scandalo vanno in carcere notissimi banchieri, col secondo notissimi generali, della finanza e dei carabinieri.

 La politica cambia scenario. In febbraio il congresso della Democrazia cristiana decide di porre fine ad ogni collaborazione con i comunisti. Il 27 novembre il segretario del Partito comunista Enrico Berlinguer ammette il fallimento del progetto di “compromesso storico” e propone una politica che chiama di “alternativa democratica”; dice anche che la “questione morale” è diventata la questione più importante.

  A Torino la Fiat è bloccata da 35 giorni di agitazione per il rinnovo del contratto di lavoro. Il 14 ottobre migliaia di dirigenti intermedi  sfilano nelle vie di Torino per chiedere la riapertura delle fabbriche e la ripresa del lavoro. Quella che passerà alla storia come la “marcia dei quarantamila” o la “marcia della maggioranza silenziosa” induce a chiudere la vertenza ma anche un decennio di lotte operaie.

 Il 27 giugno un aereo dell’Itavia con 77 persone a bordo esplode in volo e precipita nel mare di Ustica. Colpa di un missile? colpa di una bomba? Chi sa se il mistero sarà svelato entro la fine del secolo.

 

1981

Chi è Licio Gelli? Ogni tanto qualcuno ha parlato di lui, ma il suo nome esce fuori chiaramente soltanto il 18 marzo di quest’anno, quando una perquisizione, ordinata dai magistrati Gherardo Colombo e Giuliano Turone nella sua villa di Castiglion Fibocchi, vicino ad Arezzo, fa trovare alcuni documenti riservati e una lista di 962 iscritti alla Loggia P2, una loggia massonica di cui egli è “capo venerabile”. Nella lista si trovano personaggi molto importanti, appartenenti a tutti i settori della vita italiana: fra gli altri, 52 alti ufficiali dei carabinieri, 50 dell’esercito, 37 della Guardia di finanza, 29 della marina, undici questori, cinque prefetti, 70 imprenditori, dieci presidenti di banca, tre ministri in carica, due ex ministri, il segretario di un partito di governo, 38 deputati, 14 magistrati, molti giornalisti.  Ma chi è Licio Gelli? Un “gran burattinaio” egli si definisce in un’intervista; e in un’altra intervista, a Maurizio Costanzo sul “Corriere della sera” il 5 ottobre del 1980, ha illustrato con sincerità quello che chiama il suo “piano di rinascita democratica”: controllo dei giornali, distruzione del monopolio della Rai, controllo di uomini politici dei partiti di maggioranza, passaggio a una repubblica di tipo presidenziale. Era questo che volevano anche i “nomi eccellenti” della lista dei 962?

 L’11 giugno il presidente della repubblica Sandro Pertini, che definisce la Loggia P2 una “associazione per delinquere”, affida l’incarico di formare un nuovo governo, dopo le dimissioni di Arnaldo Forlani, a Giovanni Spadolini; è il primo governo, dal 1945, presieduto da un non democristiano. Professore universitario, Giovanni Spadolini è stato direttore prima del “Resto del Carlino” di Bologna, poi del “Corriere della sera”; nel 1972 è stato eletto senatore come indipendente nelle liste del Partito repubblicano. I suoi primi provvedimenti sono lo scioglimento della Loggia P2 e il rinnovo dei vertici militari e dei Servizi segreti oltre alla promozione di una commissione parlamentare d’inchiesta.

 Ancora novità a sinistra dopo il ritorno del Partito comunista all’opposizione. L’invasione sovietica dell’Afghanistan è stata un errore, dice Giuliano Pajetta; e Enrico Berlinguer ammette che il patto atlantico (quel patto che Palmiro Togliatti e tanti insieme a lui avevano definito nel 1946 un “patto di guerra”) è, tutto considerato, un bell’ombrello. Ma la svolta viene il 29 dicembre, quando lo stesso Berlinguer sostiene che la “spinta propulsiva” della Rivoluzione d’ottobre si è esaurita. La frase fa immediatamente il giro del mondo. “E’ uno strappo” dice Armando Cossutta, e non ha torto.

 Il 15 settembre papa Paolo Giovanni II ha pubblicato un’enciclica – “Laborem exercens” – in cui indica come prospettiva della questione sociale il superamento sia del socialismo sia del capitalismo, perché il lavoro è fondato sulla dignità della persona e non è riducibile a merce, come avviene invece nei due contrapposti sistemi. Il papa è da poco uscito da una lunga convalescenza; il 13 maggio, mentre salutava la folla in piazza San Pietro, è stato infatti ferito dai proiettili di rivoltella di un giovane turco, membro di una strana e misteriosa associazione chiamata dei “lupi grigi”. Anche qui, come per l’assassinio di Kennedy, i misteri sono tanti: l’attentatore ha agito da solo o c’era un altro con lui? È stata una sua personale iniziativa oppure ha eseguito ordini e istruzioni di qualcuno? Non lo sapremo mai.

 

1982

Il 3 settembre il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, prefetto di Palermo dal mese di maggio, è ucciso insieme alla moglie in un agguato di mafia nel centro di Palermo. Un mese prima, in un’intervista, aveva denunciato la mancata attuazione dell’impegno del governo di affidargli il coordinamento della lotta alla mafia. E’ difficile combattere un nemico senza avere i poteri sufficienti. Il 30 aprile è stato assassinato dalla mafia, anche lui in una via di Palermo, Pio La Torre, deputato e segretario regionale del Partito comunista. Pio La Torre aveva denunciato i caratteri nuovi che la mafia aveva preso da tempo: droga e appalti. In settembre, dopo la morte del generale Dalla Chiesa, il Parlamento vota una legge che prende il nome di Pio La Torre: introduce i reati di associazione mafiosa e dà facoltà agli inquirenti di svolgere accertamenti fiscali, tributari e bancari.

Il 28 gennaio il vicecomandante della base a Verona delle forze terresti della Nato nell’Europa meridionale, generale James Lee Dozier, è liberato da un reparto speciale della polizia, le cosiddette “teste di cuoio”. Era stato sequestrato il 17 dicembre da un gruppo di brigatisti rossi. E’ un’operazione brillante, che segna la fine della fase più cruenta del terrorismo.

  Lo stato comincia a muoversi? Il 31 marzo a Rimini il Partito socialista organizza una conferenza programmatica a cui partecipano numerosi esponenti della cultura. Lo slogan è “governare il cambiamento”. La “leadership” di Bettino Craxi comincia a farsi sentire.

 In campo comunista lo “strappo” di Enrico Berlinguer continua con la condanna del colpo di stato militare compiuto in Polonia dal generale Wojciek Jaruzelski per fermare l’avanzata del sindacato cattolico Solidarnosc, fondato nel 1980 da Lech Walesa. Jaruzelski arresta Walesa, scioglie il sindacato e proclama la legge marziale. Solo più tardi ci si accorgerà che l’iniziativa del generale è un espediente per evitare un già programmato intervento delle truppe sovietiche in Polonia e solo più tardi si riconoscerà a Jaruzelski il merito di avere favorito la transizione del paese dalla dittatura comunista a un regime democratico.

 Sul momento c’è il colpo di stato e lo scioglimento di un sindacato indipendente, e il Comitato centrale del Partito comunista italiano lo denunzia con un duro documento insieme alle ingerenze sovietiche in Polonia. Quanto basta perché la “Pravda” di Mosca attacchi duramente il documento come “sacrilego” e “convergente con gli interessi dei nemici del socialismo”.

 A Mosca muore Leonid Brezhnev, segretario generale del Partito comunista sovietico dal 1964, dopo la destituzione di Nikita Kruscev. Con Brezhnev il Cremlino ha seguito una politica di potenza, intesa a rafforzare il sistema imperiale: normalizzazione dei rapporti con gli Stati Uniti, sostegno alle cosiddette “democrazie popolari” in Africa (Angola, Mozambico, Etiopia), salvaguardia della sicurezza nel Sudest asiatico (Vietnam, Afghanistan), conferma del principio della “sovranità limitata” nei paesi dell’Europa orientale. Dal 1977 è anche capo dello stato, non senza una certa tendenza al vecchio culto della personalità. La sua morte segna la fine di un’epoca di rigido conservatorismo; dopo di lui verrà Yuri Andropov e poi Konstantin Cernienko; poi arriverà Mikhail Gorbaciov. Brutti presagi per l’impero.

 

1983

L’ondata terroristica si sta attenuando, anche se per la parola fine occorrerà aspettare ancora cinque anni. Cominciano i processi contro i terroristi arrestati; in gennaio sono 32 gli ergastoli al primo processo per l’assassinio di Aldo Moro  E’ la mafia, invece, che alza e allarga il tiro contro magistrati e forze dell’ordine; e accanto alla mafia si sente parlare  più spesso di camorra.

 Il 25 gennaio a Trapani è trovato morto nella sua auto Giangiacomo Ciaccio Montalto, sostituto procuratore della repubblica presso il tribunale della città. Aveva avviato processi di mafia nel Trapanese, si era occupato di appalti pubblici poco puliti, aveva denunziato più volte le collusioni dei politici della zona con la mafia.

 Il 29 luglio la mafia inaugura a Palermo il sistema dell’autobomba, un sistema che ha tragici precedenti in Medio Oriente nella lotta degli arabi contro gli israeliani. La vittima è Rocco Chinnici, capo dell’ufficio istruzione del tribunale di Palermo.

 C’è anche la camorra, se qualcuno se ne fosse dimenticato. Il 17 giugno a Napoli sono emessi 856 ordini di cattura contro uomini politici, avvocati e imprenditori, accusati di collegamenti con la cosiddetta Nuova camorra di Raffaele Cutolo. Il capo camorrista è in carcere, ma sembra che le sbarre e le quattro pareti di una cella non gli impediscano di proseguire le sue imprese. Sono molti, anzi, che lo cercano e gli chiedono aiuto. Un ruolo di primo piano gli viene attribuito nelle trattative per la liberazione di Ciro Cirillo, consigliere regionale democristiano della Campania, sequestrato a Napoli dalle Brigate rosse. Qualcuno si domanda perché si è trattato col “nemico” per la liberazione di Ciro Cirillo e non per la liberazione di Aldo Moro.

 L’Italia è pervasa da un senso di malessere. Gli ultimi anni sono stati caratterizzati dalla instabilità dei governi, dalle rivelazioni di scandali e di oscure trame, dalla crisi economica. Forse il terrorismo è in via di essere sconfitto, ma ecco che avanzano le soldataglie del crimine organizzato.

 Di questo malessere sono un segnale le elezioni politiche del 26-27 giugno. Cala il numero dei votanti, cresce il numero dei voti non validi. La Democrazia cristiana è il partito più penalizzato: perde il 6.9 per cento al Senato e il 5.4 alla Camera. Il 32.9 per cento dei voti alla Camera è il peggiore risultato della sua storia.

 Cresce invece il Partito repubblicano, forse per effetto dell’immagine positiva fornita dal suo leader, Giovanni Spadolini, che è stato il primo presidente del consiglio non democristiano dopo 39 governi guidati da democristiani.

 Nelle elezioni crescono, sia pure di poco, anche i socialisti; e il 4 agosto, dopo il secondo governo Spadolini e il quinto governo Fanfani, nasce il primo governo a guida socialista, un pentapartito di democristiani, socialisti, socialdemocratici, repubblicani e liberali. Il presidente del consiglio è Bettino Craxi, segretario del Partito socialista. Pur senza esperienze governative, Bettino Craxi suscita molte attese e speranze per la sua opera di governo, che si suppone improntata a quel decisionismo che egli volentieri si lascia attribuire. Con questo governo Bettino Craxi durerà tre anni e con un secondo governo, nel 1986, ancora un anno.

 

1984

Dopo due anni e mezzo la commissione parlamentare sulla Loggia P2 termina i lavori e le sue conclusioni sono più vicine alla definizione che della loggia aveva dato il presidente della repubblica Pertini nel 1981  (una “associazione per delinquere”) che alla sentenza di Ernesto Cudillo, consigliere istruttore della procura di Roma, che nel marzo 1983 ha affermato che la loggia era soltanto uno strumento usato da Licio Gelli per conseguire fini propri.  La relazione di Tina Anselmi, presidente della commissione, dice che Licio Gelli faceva parte dei Servizi segreti fino dal 1950; che la P2 era una organizzazione che aspirava non alla conquista del potere  nelle sedi istituzionali ma al controllo di esse in forma surrettizia; che la loggia è stata coinvolta in maniera determinante in alcuni scandali che hanno interessato il mondo finanziario italiano; che Licio Gelli era a capo di una piramide, ma che un’altra piramide era sopra a quella, rovesciata, e che di questa piramide non si è riusciti a sapere niente.

 La relazione, che verrà approvata dalla Camera nel 1986, non cambia molte cose. Licio Gelli passerà gli anni fra arresti, evasioni, estradizioni, processi e ancora latitanze e estradizioni; ma gli altri?

Molti continueranno a fare i loro affari in silenzio, senza mettersi in mostra; molti si affideranno all’oblio che cade sulle cose e torneranno sulla scena, come se niente fosse: uomini di governo, generali, imprenditori, giornalisti.

 In Italia si svolgono il 17 giugno le elezioni per il Parlamento europeo. Sono elezioni piene di significati: il Partito comunista sorpassa la Democrazia ed è quindi, col 33.3 per cento dei voti, il primo partito italiano. Il successo è spiegabile anche con la “morte sul campo”, pochi giorni prima, dopo un comizio a Padova, di Enrico Berlinguer, un uomo politico che si è fatto notare per il suo lento ma serio distacco dalla politica dell’Unione Sovietica e ha saputo quindi conquistarsi simpatie e stima anche in ambienti politicamente diversi.

Il Partito socialdemocratico perde molti voti; il suo segretario era uno degli iscritti alla P2. Anche il Partito socialista arretra per la prima volta dal 1976; Bettino Craxi sta deludendo le attese che molti hanno riposto in lui. Grande successo per il Partito radicale di Marco Pannella, che ha messo in lista Enzo Tortora, un popolare presentatore della televisione (“Portobello” il suo programma di maggior successo; punte di venti milioni di telespettatori).

 Enzo Tortora è stato arrestato nel giugno 1983, accusato, insieme ad altri 856,  di collegamento con la Nuova camorra di Raffaele Cutolo e perfino di spaccio di droga; inutilmente si dichiara assolutamente estraneo; al processo di primo grado sarà condannato a dieci anni di reclusione; dovrà aspettare il secondo processo, nel 1986, per essere riconosciuto innocente. Ma intanto gli elettori lo hanno eletto al Parlamento europeo con una valanga di voti. Morirà di cancro nel 1988.

 L’anno finisce con una grande tragedia. Alle 19.15 del 23 dicembre un ordigno esplode sul treno rapido 904 Napoli-Milano nel tratto Firenze-Bologna, vicino a San Benedetto Val di Sambro, a poca distanza dal punto in cui, nell’agosto di dieci anni prima, è avvenuto l’attentato al treno Italicus. I morti sono sedici e 161 i feriti. La prima rivendicazione è di Ordine nero. Nel 1989 i giudici riconosceranno colpevoli due boss mafiosi. Senza mandanti?

 

1985

In giugno Sandro Pertini termina il suo settennato al Quirinale. In una repubblica che si avvia inesorabilmente sul viale del tramonto Sandro Pertini ha rappresentato un lungo felice momento per le cadenti istituzioni dello stato. La sua età (aveva quasi 82 anni quando venne eletto nel 1978); la sua figura di vecchio combattente per la libertà e la democrazia; il suo richiamo ai valori non soltanto della guerra partigiana e della Resistenza, ma anche a quelli, più antichi, di patria e di bandiera, ossia la bandiera nazionale; i suoi frequenti appelli alla pace; il suo conclamato amore per la gioventù (lui che non ha avuto figli); la sua così convincente onestà e integrità morale; insomma la sua grande umanità, anche se spesso intrisa di retorica e, a volte, di demagogia, hanno fatto di lui un sicuro ancoraggio di fiducia e di speranza per la democrazia. Sullo scivolo di Sandro Pertini, che fu eletto con i voti di tutti i partiti del cosiddetto arco costituzionale, viene eletto il democristiano Francesco Cossiga, anche lui eletto, al primo scrutinio, dagli stessi partiti. Per tre o quattro anni starà tranquillo; poi diventerà il “picconatore” per le sue critiche a destra e a sinistra.

 Bettino Craxi, arrivato al governo nel 1983, il primo governo guidato da un socialista, si trova quest’anno ad affrontare un grosso e delicato incidente. Il 7 ottobre quattro terroristi palestinesi, saliti a bordo – non si sa bene come – della “Achille Lauro”, sequestrano la nave e tengono a bada 350 uomini dell’equipaggio e 104 passeggeri (per fortuna, altri 676 sono scesi al Cairo).  I quattro terroristi costringono la nave a girovagare per due giorni nel Mediterraneo orientale finché non decidono di arrendersi alla polizia egiziana nel porto di Alessandria, non senza aver prima gettato in mare un anziano cittadino statutinense di religione ebraica.

 La polizia egiziana li consegna a due dirigenti dell’Olp, fra cui il ben noto Abu Abbas, e tutti e sei partono con un aereo egiziano diretto a Tunisi. L’aereo viene intercettato da due aerei da caccia americani partiti dalla portaerei Saratoga e costretto ad atterrare sull’aeroporto Nato di Sigonella in Sicilia. Il governo americano chiede l’estradizione dei terroristi e soprattutto di Abu Abbas, ma il governo Craxi risponde no. L’aereo lascia Sigonella e atterra a Roma; i quattro terroristi vengono arrestati, ma Abu Abbas e il suo compagno se ne partono, liberi, per Belgrado.

 I giornali parlano di “incidente diplomatico” fra Italia e Stati Uniti e di “pasticcio internazionale”. Per protesta i repubblicani escono dal governo, Bettino Craxi si dimette, ma riottiene l’incarico; va subito a Washington, si incontra col presidente Reagan, ne esce dicendo “Amici come prima”. Non dimostrando nessuna gratitudine, alla fine di dicembre altri terroristi palestinesi attaccano con mitra e bombe a mano l’aeroporto di Fiumicino; l’obbiettivo sono le compagnie aeree israeliana El Al e americana Twa, ma muoiono 13 persone e settanta rimangono ferite.

 Nell’Unione Sovietica è da marzo al potere Mikhaìl Gorbaciòv. Come segretario generale del Partito comunista ha preso il posto del defunto Konstantin Cernienko; è un uomo nuovo, un uomo giovane (54 anni contro una media di 70 all’interno del gruppo dirigente sovietico). Nella politica dell’Unione Sovietica porterà molte novità e molti cambiamenti dopo la linea conservatrice dell’era di Brezhnev. Senza che lo voglia, contribuirà anche a distruggere l’impero sovietico.

 

1986

All’1.23 della notte tra il 25 e il 26 aprile esplode uno dei reattori della centrale nucleare di Cernobyl in Ucraina e nuvole radioattive si diffondono in tutta l’Europa. La già nota arretratezza tecnica degli impianti nucleari sovietici e la carenza di adeguate misure di sicurezza sono aggravate dalla precarietà dei primi interventi e dal ritardo, dovuto a motivi politici, con cui le autorità dànno notizia dell’incidente nella regione, nel paese e all’estero. I venti d’alta quota portano la radioattività verso nordovest. La maggiore contaminazione tocca a Finlandia, Svezia e Norvegia; poi i venti cambiano e l’inquinamento arriva in Germania e Austria, quindi anche in Italia e Francia. In Italia il ministero della sanità proibisce per due settimane il consumo di verdure a foglia larga e, per i bambini sotto i 12 anni, anche il latte fresco.

 Soltanto dopo sette giorni l’incidente è messo sotto controllo: il reattore è seppellito sotto cinquemila tonnellate di sabbia, di piombo e di boro. Nel 1989 si saprà che i contaminati nella regione sono stati almeno 150 mila e 500 mila gli esposti alla contaminazione. Un disastro, che ripropone a tutti i paesi il problema dell’opportunità della produzione di energia elettrica dall’atomo.

 L’anno è segnato da un momento di grande tensione internazionale che trova il suo centro nel Mediterraneo a sud dell’Italia. Gli Stati Uniti accusano la Libia di Gheddafi di essere direttamente responsabile dei molti attentati palestinesi in Europa, compreso quello di Fiumicino del 27 dicembre, e di dare sostegno al terrorismo arabo. In marzo missili americani sono lanciati contro basi militari libiche e il 15 aprile aerei degli Stati Uniti bombardano alcuni quartieri di Tripoli, dove si supponeva  si trovasse il colonnello Gheddafi, e di Bengasi. Nello stesso giorno due missili libici vengono lanciati contro l’isola italiana di Lampedusa, senza però raggiungerla. Il presidente del consiglio Bettino Craxi fa sapere agli Stati Uniti che l’Italia non gradisce una guerra alle porte di casa. Il segretario di stato americano George Schultz arriva a Roma, si incontra con Craxi, col ministro degli esteri Andreotti e alla fine un comunicato dice che tutto è stato chiarito.

 In Italia le cose vanno meglio. Grazie alla favorevole congiuntura internazionale l’economia è in ripresa e le società più importanti presentano bilanci positivi.

 Anche il terrorismo è in calo. Solo qualche colpo di coda: nel marzo del 1985 le Brigate rosse hanno ucciso all’università di Roma Ezio Tarantelli, docente di economia del lavoro e collaboratore della Cisl; nel febbraio di quest’anno è assassinato a Firenze, con quindici colpi di rivoltella, Lando Conti, ex sindaco repubblicano di Firenze. Un volantino brigatista rivendica la paternità dell’assassino ma non ne fornisce le motivazioni; l’omicidio resta perciò inspiegabile e gli autori rimarranno sconosciuti per sempre. Non è il primo caso di assassini che vivono ancora in mezzo a noi e non lo sappiamo.

 In aprile a Roma papa Giovanni Paolo II si reca a visitare il rabbino capo Elio Toaff e insieme pregano nella sinagoga. E’ la prima volta che un pontefice si incontra con un alto rappresentante della religione ebraica. Ci saranno ancora molte “prime volte” per questo papa che sta portando un’aria nuova nelle vecchie sedi della Curia romana.

 

1987

La prima grande indagine sulla corruzione dei pubblici poteri si conclude a Torino il 30 aprile. Lo scandalo è nato 13 anni prima e ha comportato danni per duemila miliardi ai danni dello stato. La sentenza del processo (163 udienze in 15 mesi) lascia perplessi; dei 156 imputati solo 68 sono i condannati: l’ex comandante generale della Guardia di finanza Raffaele Giudice e l’ex capo di stato maggiore Donato Lo Prete; poi altri finanzieri, molti petrolieri, qualche faccendiere; assolti tutti i politici e tre monsignori. Nonostante le richieste del pubblico ministero, la Corte sostiene che coperture politiche non vi furono. Le conclusioni non sono una novità rispetto ad altri casi precedenti. Il primo caso è del lontano 1960 per una serie di irregolarità nella costruzione dell’aeroporto “Leonardo da Vinci” a Fiumicino; i tre ex ministri coinvolti vengono assolti dalla Camera. Il secondo caso è del 1965: il cosiddetto scandalo dei tabacchi; imputato è un ex ministro del tesoro ed è prosciolto da Camera e Senato.

 Terzo caso nel 1976. Lo scandalo è grosso e arriva alla Corte costituzionale, trasformata in collegio penale. Imputati due ex ministri della difesa e un ex presidente del consiglio. Reato: l’avere intascato tangenti (per sé? per il partito?) per l’acquisto di un aereo, l’”Hercules C-130”, dell’impresa americana Lockheed. L’ex presidente del consiglio è assolto, per un voto, dalla commissione parlamentare d’inchiesta; dei due ex ministri della difesa la Corte ne condanna uno solo, a due anni e quattro mesi; sarà scarcerato dopo qualche mese. Quarto e quinto caso, lo scandalo dell’Italcasse, tra il 1977 e il 1980, e lo scandalo Eni-Petromin nel 1979; ma anche in questi casi i politici restano fuori, salvo un ministro in carica che è invitato a dimettersi.

 La magistratura comincia a fare sul serio nella seconda metà degli anni Ottanta. Gli scandali emersi non riguardano grosse cifre, ma i nomi degli implicati sono importanti o vicini a uomini importanti. Una sentenza parla chiaro: “E’ emersa una logica politica sconvolgente: l’esistenza di un sistema di imposizione tributaria parallelo a quello dello stato; un coacervo di norme non scritte, disciplinanti i contributi dovuti dagli imprenditori privati in relazione alle commesse pubbliche ottenute”.

 Anche sul fronte della mafia c’è del nuovo. Il 16 dicembre di quest’anno si conclude il processo a Palermo contro Cosa nostra. Dopo ventidue mesi di dibattimento e 35 giorni di camera di consiglio, la Corte di assise  condanna a pesanti pene detentive 342 su 456 imputati; complessivamente 2665 anni di carcere e undici miliardi e mezzo di multe. All’ergastolo sono condannati tutti i componenti della “cupola”: Michele Greco, Filippo Marchese, Salvatore Riina, Bernardo Provenzale, Pino Greco. Il processo si è svolto sulla base delle indagini dei magistrati del nucleo costituitosi per affrontare in maniera organica i procedimenti di mafia.

 Due di questi magistrati sono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino; faranno una tragica fine. A molti boss della mafia penserà la Cassazione, mettendoli in libertà o annullando le sentenze con qualche cavillo procedurale.

 Non ci sarà motivo di stupirsi, all’inizio del 1992, se il sistema Italia salta in aria.

 

1988

E’ il 16 aprile del 1988 e quello di Roberto Ruffilli è l’ultimo omicidio del terrorismo. Cinquantuno anni, professore ordinario di storia contemporanea alla facoltà di scienze politiche dell’università di Bologna, senatore democristiano dal 1983, Roberto Ruffilli è  ucciso con un colpo alla nuca, nella sua abitazione di scapolo a Forlì, da qualcuno che telefona a un giornale: “Abbiamo giustiziato il senatore Ruffilli” e poi continua con un motto che appare vecchio  e non più credibile: “Attacco al cuore dello stato. Brigate rosse per la costruzione del partito comunista combattente”. Il terrorismo  rosso è davvero finito.

 Continuano invece i delitti di mafia. Nel 1987 sono stati 695 gli omicidi volontari compiuti in Sicilia, Calabria e Campania, cioè nelle tre regioni a più alta densità mafiosa. Il 12 gennaio è assassinato a Palermo l’ex sindaco Giuseppe Insalaco; alla commissione parlamentare d’indagine aveva denunziato le pressioni esercitate da “poteri occulti” sulle amministrazioni siciliane.

 Il 25 settembre, in un agguato nei pressi di Canicattì, è ucciso il giudice Antonino Saetta insieme al figlio Stefano, disabile e invalido al cento per cento. Il giudice Saetta è stato il presidente della corte di assise che ha emesso la sentenza nel cosiddetto “maxiprocesso della mafia”.

 Nella relazione sullo stato della sicurezza in Italia, presentata al Parlamento dal capo della polizia, è scritto che in Sicilia, Calabria e Campania più di mille sono i pubblici amministratori imputati di peculato e corruzione. Moltissimi parlamentari nazionali, di tutti i partiti, sono stati eletti da elettori controllati dalla criminalità organizzata. Sindaci di grandi città, parlamentari regionali, cavalieri del lavoro e cavalieri del Santo Sepolcro, alti magistrati e alti finanzieri non sono legati alla mafia, ma sono mafia essi stessi. L’antistato mafioso è diventato lo stato effettivamente operante in Sicilia e potente a Roma, Milano e nei grandi centri finanziari europei.

 Per anni e anni si è creduto che la mafia fosse un fenomeno siciliano e isolano, salvo la sua grossa appendice newyorkese. Poi si è saputo di accordi con la N’drangheta calabrese e con la camorra napoletana. Poi si è sentito parlare di mafia a Milano. Poi la parola è venuta fuori in Svizzera, dietro le grandi banche e le grosse industrie farmaceutiche.

 Sulla cronaca sono apparsi i nomi di Michele Sindona e delle sue banche, di Roberto Calvi e del suo Banco Ambrosiano, e di una sigla finora poco nota come lo Ior del Vaticano, l’Istituto per le opere di religione. In tutti questi sospettabili regni finanziari si è notato – all’inizio con stupore – che la mafia non mancava mai. La Loggia P2 di Licio Gelli, con la sua presenza ai vertici dei Servizi segreti e della Guardia di finanza, faceva da collegamento. Così si è cominciato a parlare anche di petroli e di traffico d’armi. Imprese finanziarie e imprese criminali erano diventate, insieme, delle potenze che potevano mettere in pericolo anche la sicurezza degli stati.

 Forse per le sue frequentazioni con i Servizi segreti, che con il terrorismo nero hanno avuto efficienti rapporti di lavoro o di consultazione, la mafia decide ora che qualche grossa strage può essere un mezzo per destabilizzare quello stato a cui ha dichiarato guerra per sostituirsi ad esso in alcuni dei settori più produttivi.

 

1989

La “guerra fredda” fra Stati Uniti e Unione Sovietica, fra Occidente ed Oriente, il conflitto che, sebbene incruento e non dichiarato, ha visto molti momenti di grave pericolo per la pace, termina ufficialmente, dopo 44 anni, il 3 dicembre del 1989. L’annuncio viene dato dal presidente americano George Bush e dal presidente sovietico Mikhaìl Gorbaciòv, riuniti, nel porto della Valletta nell’isola di Malta, sulla “Maksim Gorki”, la più grande delle navi da crociera battenti bandiera con falce e martello. Ma che cosa è successo, in questo anno incredibile, per arrivare a un esito che nessuno ha previsto?  Gorbaciov. Eletto nel 1985 segretario generale del Partito comunista sovietico, Mikhaìl Gorbaciòv ha denunziato lo sfacelo dell’economia del paese e ha proposto una strategia politica basata all’estero su un processo di distensione con gli Stati Uniti e all’interno su una ristrutturazione in senso riformista della società sovietica (la “perestroika”) e sulla trasparenza delle decisioni (“glasnost”).

 Giovanni Paolo II. Nato a Wadowice, vicino a Cracovia, eletto al pontificato nel 1978, Karol Wojtyla si reca in Polonia nel giugno  1979, vi torna nel giugno 1983 e ancora nel giugno 1987. Mentre il papa celebra la messa il popolo grida “Qui è la Polonia”, “Liberate i prigionieri politici”.

 Il passaggio dell’Unione Sovietica dalla dittatura a una democrazia pluralistica non è nei programmi del comunista Mikhail Gorbaciov e l’attenzione del papa Giovanni Paolo II verso i paesi dell’est europeo e verso la sua adorata Polonia è soltanto una missione pastorale. Ma sia Gorbaciòv sia il papa sono gli artefici inconsapevoli di un processo storico che affonda lontano le sue radici.

 La fine del comunismo è scritta. Il marxismo non muore come filosofia ma come strategia economica. Con la rivoluzione elettronica la società si è andata sempre più terziarizzando. Le marxistiche classi lavoratrici sono in progressiva riduzione e accanto ai bisogni materiali – di oggetti, di beni, di merce concreta – si sviluppano i cosiddetti bisogni postmateriali, cioè spettacolo, turismo, cultura, ossia le espressioni pratiche della libertà. Che quelle libertà esistono al di là della cortina di ferro lo dicono all’est le emittenti radiofoniche occidentali e, dove è possibile riceverle, quelle televisive. Impossibile bloccare le informazioni in cielo e in terra.

 All’inizio dell’anno, nella Germania orientale, in Cecoslovacchia, in Ungheria la gente si rifugia nelle ambasciate della Germania occidentale chiedendo di espatriare e, dove le maglie dei confini cominciano ad allentarsi, fugge verso l’ovest. In febbraio in tutti i paesi dell’impero migliaia di manifestanti osano scendere nelle vie e nelle piazze. Il processo è inarrestabile e i governi sono costretti a seguirlo. Si comincia a parlare di libere elezioni. Si riconosce il diritto di sciopero. La stella rossa è tolta dalle bandiere nazionali. I partiti comunisti cambiano nome. Si riabilitano le vittime di Stalin. Si riscrive la storia. Arrivano le Bibbie e i computer.

 Il 9 novembre la Rdt apre le frontiere con la Rfg e nella notte, a Berlino, il muro crolla sotto i picconi di migliaia di uomini e di donne. Si piange, ci si abbraccia. “Il muro è caduto, il muro è caduto”. E’ una festa, una grande festa. Una festa per tutto il mondo.

 

1990

Tra canti e fuochi di artificio, un milione di berlinesi dell’Est e dell’Ovest festeggiano insieme, davanti alla porta di Brandeburgo,  l’inizio del 1990: un anno che si preannunzia di pace e di ritrovata concordia fra i popoli. Una “casa comune” è anche l’auspicio che papa Woitila rivolge ai rappresentanti diplomatici di tutto il mondo riuniti in Vaticano.

 Giorno dopo giorno le speranze sembrano trovare conferma. Il 9 febbraio il presidente dell’Urss Mikhaìl Gorbaciòv accetta la proposta americana di una riduzione delle forze armate in Europa e il primo giugno concorda col presidente americano Bush la limitazione degli arsenali nucleari. Il 12 settembre a Mosca i “Quattro Grandi” – Usa, Gran Bretagna, Francia eUrss – firmano, con la Germania occidentale e la Germania orientale, il trattato per la riunificazione, dopo 45 anni, dei due stati tedeschi e il giorno dopo Urss e Repubblica federale di Germania siglano un accordo ventennale di amicizia e di cooperazione. Il 19 novembre ventidue capi di stato e di governo europei, oltre agli Stati Uniti e al Canadà, decidono la riduzione bilanciata delle forze armate convenzionali. E’ la cessazione della guerra fredda anche sul piano militare. Mikhaìl Gorbaciòv riceve il premio Nobèl per la pace.

 Passo dopo passo il comunismo nell’Unione Sovietica si dissolve: è cancellato l’articolo della Costituzione che sancisce il ruolo guida del partito comunista, è riammessa la proprietà privata, è abolito il collettivismo in agricoltura e si decide di concedere la terra ai contadini; il Parlamento approva la libertà di religione: è finito l’ateismo di stato. Un decreto riabilita tutte le vittime della repressione stalinista.

 L’impero sovietico comincia a frantumarsi. Gli stati baltici – Lettonia, Lituania e Estonia – si dichiarano repubbliche sovrane; la Russia si stacca dall’Unione e poi anche Ucraina e Bielorussia e poi molte repubbliche asiatiche. L’Armata Rossa è costretta a intervenire nel Caucaso in rivolta. L’Ungheria annunzia il suo ritiro dal Patto di Varsavia, ma l’alleanza militare sottoscritta nel 1955 da tutti i paesi dell’Europa comunista ormai non esiste più.

 E’ finita la contrapposizione fra Occidente e Oriente. In agosto l’Iraq invade il Kuwait e all’Onu Usa e Urss votano insieme l’uso della forza contro l’aggressore Saddam Hussein. E’ la prima volta, dalla fine della seconda guerra mondiale, che le due superpotenze si trovano fianco a fianco, con eguali obbiettivi di giustizia, in un conflitto estraneo alle tensioni est-ovest.

  In tutti i paesi dell’Est europeo il crollo del comunismo sta portando però confusione, disagi e fame. A Mosca il ministro degli esteri Scevarnadze dice che venti anni di guerra fredda sono costati all’Urss l’equivalente di 1170 miliardi di dollari e hanno causato la rovina del popolo sovietico. La Comunità europea offre aiuti alimentari e crea la Bers, banca europea per i paesi dell’Est; il vertice della Nato porge la mano agli ex avversari sul piano politico e militare.

 Il grande cambiamento rischia di creare non ordine ma disordine, riaccendendo fuochi sopiti da tempo o repressi. Nell’impero sconfitto e nei paesi già controllati da Mosca le spinte nazionalistiche riesplodono fra le diverse etnie e su di esse la vecchia nomenclatura si appoggia per mantenere o riconquistare il potere.

 

1991

La guerra del Golfo si conclude in 43 giorni: l’operazione “Tempesta nel deserto” – sostanzialmente americana, anche se ad essa partecipano altri paesi, fra cui l’Italia – comincia il 17 gennaio e si conclude il 28 febbraio con la liberazione del Kuwait e la capitolazione dell’Iraq. Non sarebbe stato così facile senza intesa fra Washington e Mosca.

 Mosca ha però grossi problemi all’interno dell’Unione. Prosegue il processo di secessione delle repubbliche (dopo gli stati baltici, la Georgia, l’Armenia, la Moldavia) e in agosto la destra conservatrice decide di fermare il processo di riforme inaugurato da Mikhaìl Gorbaciòv con la sua “perestroika”. E’ un tentativo di colpo di stato: Gorbaciòv è destituito da presidente dell’Urss e arrestato in Crimea; ma Borìs Ieltsin, presidente della repubblica russa, si appella al popolo e a Mosca non esita a fare sparare i carri armati contro i golpisti asserragliati nel palazzo del governo. Mikhaìl Gorbaciòv torna, libero, a Mosca; ma ormai il futuro è segnato: in dicembre l’Unione Sovietica scompare come soggetto politico; nasce la Csi, la comunità di stati indipendenti, cioè la repubblica russa e altre dieci repubbliche. Mikhaìl Gorbaciòv lascia la presidenza di uno stato che non c’é più. Sul Cremlino la bandiera rossa è ammainata e prende il suo posto l’antico tricolore della Russia: bianco, rosso e blu. Il bottone mucleare, che comanda 35 mila ordigni nucleari, passa nelle mani di Borìs Ieltsin.

 La fine della potenza sovietica apre vuoti spaventosi nell’Europa orientale e in Africa. Nella penisola balcanica si riaccendono i vecchi  odii fra serbi, croati, sloveni, macedoni e albanesi. La federazione jugoslava va in pezzi; Slovenia e Croazia si dichiarano repubbliche sovrane, ma la minoranza serba della Croazia chiede l’annessione a quella che chiama la “madre patria” serba, mentre la minoranza croata e i musulmani della Bosnia-Erzegovina si proclamano indipendenti dalla Serbia. Il governo di Belgrado cerca, con la violenza, di mantenere quello che rimane della repubblica jugoslava: la Serbia, la Bosnia, il Montenegro e il Kòssovo, dove comincia ad agitarsi la maggioranza di origine albanese.

 Anche in Albania crolla il regime comunista. In febbraio una folla di centomila persone abbatte a Tirana la statua del dittatore Enver Hoxha, ma la democrazia non porta né efficienza, né ordine, né viveri. Con l’estate cominciano i tentativi di esodo e centinaia di disperati cercano di attraversare l’Adriatico per approdare in quella terra promessa che sembra essere l’Italia.

 In Italia la fine del comunismo sovietico ha avuto forti contraccolpi. In gennaio il ventesimo congresso del Partito comunista cambia la denominazione del partito; nasce il Pds, Partito democratico della sinistra. Ma una minoranza nostalgica non ci sta e fonda un altro partito: Rifondazione comunista. Nasce anche un altro partito: la Lega nord; in novembre vince le elezioni amministrative di Brescia.

 Anche sul piano economico in Italia le cose non vanno bene. L’agenzia finanziaria Moody’s declassa il paese una prima volta in aprile e un’altra volta in luglio: sul piano degli investimenti l’Italia non offre sicure prospettive e garanzie. Intanto un grande evento bussa alla porta: in dicembre, a Maastricht, in Olanda, i dodici paesi della Cee, la comunità europea, decidono la creazione di una moneta unica. Se tutti avessero i conti in regola, domani potrebbe nascere – chissà – l’Unione dell’Europa.

 

1992

L’Europa unita nasce, sulla carta, il 7 febbraio 1992. A Maastricht i dodici paesi della Comunità economica europea decidono di dar vita all’Unione dell’Europa; sono tre le basi dell’accordo: una unione economica e monetaria, da attuarsi mediante la creazione di una moneta unica e di una banca centrale; una comune politica estera e di difesa; una politica di cooperazione in materia di giustizia.  Il progetto è ben accolto in Italia, il paese più europeista del continente; ma in Italia sta scoppiando il finimondo: il 17 febbraio è arrestato a Milano un esponente socialista con l’accusa di concussione; si chiama Mario Chiesa ed ha in tasca una busta con sette milioni, la prima rata di una tangente. Ha inizio così, con la scoperta di questa modesta “mazzetta”, la fine della prima repubblica e del sistema politico che l’ha caratterizzata: scompariranno i due maggiori partiti di governo (la Democrazia cristiana e il Psi) e la maggior parte degli uomini che per anni ne sono stati i rappresentanti; scenderanno in campo altre forze politiche (Forza Italia e la Lega nord); entreranno nell’arco costituzionale gli eredi del fascismo (Alleanza Nazionale); il sistema elettorale passerà dal proporzionale al maggioritario.

 Sulla bocca di tutti corrono sùbito: una parola nuova, Tangentopoli; un’espressione pregnante, Mani pulite; un nome, Antonio Di Pietro, il pubblico ministero che guida l’inchiesta milanese. Per anni si parlerà di Tangentopoli, di Mani pulite, di Di Pietro.

 Cominciano a piovere gli avvisi di garanzia: su ministri ed ex ministri (Bernini, De Michelis), su ex sindaci (di Milano: Tognoli e Pillitteri), su segretari amministrativi di partito (Citaristi della DC, Balzamo del Psi). A luglio le persone coinvolte sono 73, di cui 61 in carcere o agli arresti domiciliari: 43 politici (17 del Psi, 15 della Dc, otto del Pds, uno del Pri, uno del Psdi), di cui dieci parlamentari; tre funzionari; 27 imprenditori o dirigenti di azienda. A dicembre arriva un avviso di garanzia anche a Bettino Craxi, segretario del Partito socialista; i reati: corruzione, ricettazione e violazione della legge sul finanziamento dei partiti.

 In febbraio il presidente della repubblica Francesco Cossiga ha sciolto le Camere, “per forza degli eventi” dice “e per corale sentire della gente comune”, allo scopo, aggiunge, di rinnovare, anche moralmente, il sistema politico” e di “rifondare la repubblica con un nuovo patto nazionale, aperto a tutte le forze culturali e sociali del paese”. Le elezioni del 6 aprile vedono indietreggiare il Partito socialista e soprattutto la Democrazia cristiana; anche il Pci diventato Pds perde voti, non rimpiazzati dalla nuova arrivata Rifondazione comunista. A luglio, dopo il sesto governo Andreotti, è chiamato alla presidenza del consiglio un uomo nuovo, anche se socialista, Giuliano Amato, sorretto da una maggioranza Dc-Psi-Psdi-Pli. E’ l’ultimo governo presieduto da un esponente dei vecchi partiti sulla base di una formula che risale a 45 anni fa.

 In Sicilia la situazione precipita. In maggio a Palermo è assassinato il giudice antimafia Giovanni Falcone insieme alla moglie. A luglio, sempre a Palermo, è assassinato il giudice Mario Borsellino. La Cassazione, intanto, annulla molti processi di mafia e manda liberi condannati eccellenti. La mafia non lotta  più contro lo stato; si sta facendo stato al posto dello stato costituzionale.

 

1993

Nel 1993 in Italia succede di tutto: il crollo del vecchio sistema di partiti, l’avvento di nuove forze politiche, il cambiamento della cultura di governo, il presagio di un paese rinnovato; e insieme – si capisce perché – l’assalto violento della mafia all’ordine costituito.

  Tangentopoli esplode e dopo Milano la magistratura si sveglia in tutto il paese. Piovono gli avvisi di garanzia: al ministro della giustizia Claudio Martelli, che si dimette; al ministro delle finanze Carlo Reviglio, che si dimette; all’ex segretario della Dc Arnaldo Forlani; all’ex ministro Claudio Vitalone; all’ex ministro Aristide Gunnella; e, per le tangenti Enimont, ancora a Bettino Craxi, Arnaldo Forlani, Claudio Martelli, Severino Citaristi, Giorgio La Malfa, insieme a Paolo Cirino Pomicino, Carlo Vizzini, Renato Altissimo. Giulio Andreotti riceve un avviso di garanzia per associazione per delinquere e associazione di tipo mafioso. Sono arrestati Franco Nobili, presidente dell’Iri, Maurizio Broccoletti, ex direttore del Sisde, l’ex ministro della sanità Francesco De Lorenzo. In luglio si suicida in carcere Gabriele Cagliari, ex presidente dell’Eni; e tre giorni dopo si suicida, in casa, il suo grande antagonista nella vicenda Enimont, Raul Gardini.

 La scena politica è in ebollizione. L’11 febbraio Bettino Craxi si dimette da segretario del Psi, il 25 Giorgio La Malfa da segretario del Pri, il 16 marzo Renato Altissimo da segretario del Pli, il 29 Carlo Vizzini da segretario del Psdi. Nelle elezioni amministrative del 6 giugno crollano Dc, Psi, Psdi, Pri e Pli; la Lega lombarda ottiene il 15,4 per cento e conquista il comune di Milano col 37 per cento dei voti. Il 10 luglio la Dc veneta propone la morte del vecchio partito e la nascita di uno nuovo, il Partito popolare. Il 23 novembre il presidente della Fininvest, Silvio Berlusconi, annunzia la sua intenzione di guidare una nuova forza politica moderata.

 Il 22 aprile il governo Amato si dimette e, sei giorni dopo, prende il suo posto Carlo Azeglio Ciampi, governatore della Banca d’Italia; entrano nel governo i comunisti e i Verdi. Il 3 luglio Ciampi compie quello che viene definito un miracolo: un accordo sul lavoro tra governo e parti sociali per una politica dei redditi, per la riduzione dell’inflazione, del debito e del deficit pubblico. A dicembre l’inflazione calerà al 4 per cento, la più bassa degli ultimi 24 anni.

  La paura di un cambiamento mette in moto la mafia. E’ l’assalto allo stato fuori della Sicilia. In maggio una autobomba esplode nel quartiere Parioli a Roma, undici feriti; e, due settimane dopo, una autobomba in via dei Georgofili a Firenze: cinque morti, 29 feriti e danni alla Galleria degli Uffizi. Il 27 luglio tre autobombe: una a Milano (cinque morti) e due a Roma, davanti alla chiesa romanica di San Giovanni al Velabro, che viene distrutta, e davanti alla basilica di San Giovanni in Laterano. Lo stato risponde con la cattura di tre grossi capi della mafia: Totò Reina, Benedetto “Nitto” Santapaola e Salvatore Cancemi.

 Qualche buona notizia dall’estero: in Sudafrica finisce il regime di “apartheid” e i due protagonisti dell’intesa, Nelson Mandela e Frederik De Clerk, ottengono il premio Nobèl per la pace; e il 13 settembre a Washington il primo ministro israeliano Rabìn e il presidente dell’Olp Arafat si accordano per dar vita a uno stato palestinese. La stretta di mano avviene davanti alla Casa Bianca sotto gli occhi del nuovo presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton. Sarà un buon presidente?

 

1994

Il sistema politico nato nel 1945 col ritorno in Italia della democrazia è arrivato alla fine. Il 16 gennaio il presidente della repubblica Oscar Luigi Scalfaro scioglie le Camere. La Democrazia Cristiana cambia nome e diventa Partito popolare, ma la sua destra si stacca e fonda il Centro cristiano democratico (Ccd), mentre altri gruppi costituiscono il Cdu (Cristiani democratici uniti). Al congresso di Fiuggi il Movimento sociale si trasforma in Alleanza nazionale e Gianfranco Fini ne è eletto coordinatore nazionale. Il 26 Silvio Berlusconi annuncia la sua scesa in campo; il suo raggruppamento si chiamerà “Forza Italia”. Il 10 febbraio Forza Italia, Alleanza nazionale, Ccd e Cdu si accordano per presentare candidature comuni alle imminenti elezioni; al Nord saranno il “Polo delle libertà”, al sud il “Polo del buon governo”. La Lega nord e Forza Italia stabiliscono un accordo elettorale. Il Partito liberale scompare come partito e il Partito repubblicano si dissolve al centro e a sinistra. Mario Segni, uscito dalla Democrazia cristiana, si presenterà come “Patto per l’Italia”.

  Il 27 marzo gli italiani votano col nuovo sistema elettorale: è un sistema maggioritario, ma col 25 per cento proporzionale. La vittoria è del centro-destra di Berlusconi e di Fini, con una maggioranza sicura alla Camera, non al Senato. Il comparto proporzionale mostra la consistenza dei vari gruppi: Forza Italia (nata due mesi prima e senza una organizzazione di partito) è prima col 21 per cento dei voti, secondo è il Partito democratico della sinistra col 20.4, terzo è Alleanza nazionale col 13.5, quarto il Partito popolare con l’11.1; poi vengono la Lega nord, Rifondazione comunista, il Patto per l’Italia di Mario Segni, la lista Pannella, la federazione dei Verdi. La leghista Irene Pivetti è eletta presidente della Camera, il forzista Carlo Scognamiglio è presidente del Senato per un solo voto sul candidato votato dal centrosinistra Giovanni Spadolini.

 Il 10 maggio Silvio Berlusconi costituisce il nuovo governo; dei 25 ministri sette sono di Forza Italia, sei della Lega (col ministero degli interni), cinque di Alleanza nazionale. Dalla fine della guerra è la prima volta che eredi del vecchio fascismo entrano nel governo. Sembra che gli italiani apprezzino il cambiamento: a giugno, nelle elezioni per il Parlamento europeo (i votanti scendono però al 74.8 per cento) Forza Italia supera il 30 per cento ed è il primo partito in 72 province. Con Alleanza nazionale (che ottiene il 12.5 per cento) e con la Lega il centro-destra arriva al 49.7. Un sondaggio della Doxa dice che il 66 per cento degli italiani ha fiducia in Silvio Berlusconi come capo del governo.

 Il tempo cambia presto, però, e in peggio. L’11 agosto la Banca d’Italia aumenta il tasso di sconto al 7.5; il 12 novembre un milione e mezzo di persone manifestano a Roma contro la politica economica del governo; il 22 il presidente del consiglio Berlusconi riceve dalla procura di Milano un avviso di garanzia per concorso in corruzione e il giorno dopo è iscritto dalla procura di Roma nel registro degli indagati con l’ipotesi di reato di abuso di ufficio. Nelle elezioni  amministrative di novembre-dicembre prevalgono i candidati di centro sinistra.  Il 19 vengono presentate alla Camera tre mozioni di sfiducia: una del Pds (dove Massimo D’Alema ha preso il posto di Achille Occhetto alla segreteria), di Rifondazione comunista e del Partito popolare insieme alla Lega. Il giorno dopo quattro dei cinque ministri della Lega si dimettono; la maggioranza è andata in fumo. Il 22 il presidente del consiglio Berlusconi va al Quirinale e si dimette.

 

1995

Il governo nato dalle elezioni con sistema maggioritario del marzo 1994 è caduto per la rottura della maggioranza uscita da quelle urne. Che fare? Sciogliere le Camere e andare a nuove elezioni?

  La situazione del paese è grave. L’anno è cominciato col marco a quota 1.048 lire; i prezzi sono saliti del 4.1 per cento e l’inflazione si avvia verso il 6 per cento; il 12 gennaio il marco vale 1.067 lire. Una campagna elettorale potrebbe peggiorare la situazione. Il presidente della repubblica Oscar Luigi Scalfaro decide perciò di scegliere una soluzione nuova: un governo tecnico, con un programma ridotto, che risolva i problemi più pesanti e lasci tempo a un chiarimento delle forze politiche. Come guida di questo governo pensa a Lamberto Dini: è stato ministro del tesoro nel governo Berlusconi, è stato direttore generale della Banca d’Italia, ha lavorato per molti anni al Fondo monetario internazionale; può essere un buon “traghettatore”. Senza le tradizionali consultazioni con i partiti, Lamberto Dini mette insieme un governo di tecnici, quasi tutti docenti universitari, con un programma limitato a pochi punti: manovra correttiva, riforma del sistema previdenziale, “par condicio” nell’informazione tv e riforma della legge elettorale per le Regioni. Il Polo non è d’accordo e ritira  dal governo due ministri della sua area. Alla Camera Lamberto Dini ottiene la fiducia con 302 sì, 270 astensioni e 39 no; la maggioranza è fatta di Partito democratico della sinistra, Lega, Partito popolare, Verdi, Rete e Cristiano sociali.

 Tutti pensano alle elezioni politiche. Alleanza Nazionale di Giancarlo Fini conferma la sua intesa con Forza Italia di Silvio Berlusconi, mentre gli irriducibili del Movimento Sociale annunciano la scissione, così come gli irriducibili del Partito comunista (diventato Partito democratico della sinistra, con simbolo una quercia) dànno vita a Rifondazione comunista. Fra centrodestra e centrosinistra il Partito popolare si scinde: Rocco Buttiglione sceglie l’alleanza con Forza Italia e col Centro cristiano democratico e crea un partito nuovo, i Cristiani democratici uniti.

 Il 13 febbraio Renato Prodi, già presidente dell’Iri, annuncia la costituzione di un “Comitato per l’Italia che vogliamo”; non è tanto una formazione politica nuova, quanto un progetto politico, un modo di aggregazione della società civile cattolica e laica, per la creazione di un grande polo di centrosinistra che renda possibile il bipolarismo deciso dagli italiani con la scelta del sistema elettorale maggioritario. Il simbolo: un albero di ulivo. Con l’ulivo Renato Prodi sale a Brindisi su un autobus e comincia a percorrere l’Italia. Gli inizi sono favorevoli: il centrosinistra prevale nelle elezioni amministrative del 23 aprile e del 7 maggio.

 Sugli equilibri politici intervengono due fatti: le vicende giudiziarie di Silvio Berlusconi (rinviato a giudizio per tangenti alla Guardia di finanza e indagato per 10 miliardi della Fininvest a Bettino Craxi) e la presenza di Antonio Di Pietro, che ha definitivamente lasciato la magistratura ed è sceso in campo: non a sinistra, ma contro la destra.

 Nei Balcani, dove si trova anche un reparto militare italiano, la guerra civile fra serbi e croati (200 mila fra morti e feriti, milioni di profughi e un terribile neologismo: “pulizia etnica”) si chiude dopo quattro anni con un precario accordo di pace. L’accordo è firmato a Dayton, negli Stati Uniti. L’Europa non si è data molto da fare.

 

1996

Il 16 febbraio il presidente della repubblica Oscar Luigi Scalfaro scioglie le Camere. Lamberto Dini si è dimesso l’11 gennaio, dopo un discorso durato soltanto quattro minuti; è così finito il “governo dei tecnici”. Alla ricerca di un governo “di larghe intese”, richiesto da molti, il 1° febbraio il capo dello stato è stato incaricato Antonio Maccanico, che rinunzia dopo 13 giorni, mentre la lira sta scivolando.

 In vista delle elezioni, fissate per il 21 aprile, lo schieramento si definisce: da una parte Forza Italia, Alleanza Nazionale e i cattolici  del Ccd e del Cdu, dall’altra l’Ulivo, che raccoglie il Partito democratico della sinistra, il Partito popolare, i Verdi e, con accordi che nel gergo politico vengono chiamati di desistenza, Rifondazione comunista. Sempre dalla parte dell’Ulivo, sono Lamberto Dini, col suo neonato Rinnovamento italiano, e Antonio Maccanico con la sua Unione democratica, collegata al Partito popolare. Renato Prodi, che del partito popolare capeggerà la lista nel proporzionale, è designato a guidare il governo in caso di vittoria dell’Ulivo. Né di qua né di là, ma da sola, sta la Lega di Umberto Bossi.

 Il 21 aprile l’Ulivo vince le elezioni; ottiene la maggioranza assoluta dei seggi al Senato e, con i seggi di Rifondazione comunista, anche alla Camera. Il 18 maggio Renato Prodi presenta il nuovo governo. E’ un governo dove con nove ministeri è presente per la prima volta la sinistra postcomunista e Walter Veltroni è anche vicepresidente del consiglio. Due nomi importanti: Carlo Azeglio Ciampi al tesoro e bilancio (sarà il “superministro dell’economia”) e Antonio Di Pietro ai lavori pubblici.

 Il nuovo governo è seguito, agli inizi, con interesse e con curiosità. Eccettuata la Sicilia, dove vince il Polo ma crolla Forza Italia e avanzano i cattolici delle varie formazioni, le elezioni amministrative vedono la vittoria del centrosinistra, anche sulla Lega; l’Ulivo conquista perfino Mantova, notoriamente “capitale” della Padania.

 Il 17 giugno Renato Prodi illustra un “patto sociale” per entrare in Europa. Il 19 il governo vara una manovra da 16 mila miliardi; gli imprenditori la criticano, ma la lira vola a 1.006 sul marco, mentre l’inflazione scende al 3.8 per cento. Il 3 luglio il ministro Ciampi fa prevedere un’altra manovra all’inizio del 1997 per raggiungere da subito uno dei parametri di Maastricht. L’agenzia Moody’s alza la valutazione dell’Italia alla categoria AA3.

 Le cose vanno male da luglio in poi. Le Borse scendono, la lira risale a quota 1.023 sul marco, anche la produzione industriale sta calando. Le opposizioni, gli industriali, i commercianti protestano contro il fisco. I metalmeccanici sono in agitazione. La disoccupazione cresce.

 Il 27 settembre il governo vara un’altra manovra: 62.500 miliardi, in parte di intervento straordinario sempre per raggiungere il parametro di Maastricht del deficit al 3 per cento del prodotto interno lordo. La Banca d’Italia riduce il costo del denaro prima dal 9 all’8.25 e poi al 7.5 per cento. I conti con l’estero segnano un attivo record. L’inflazione scende al 3 per cento. Il 18 novembre il governo illustra alle parti sociali l’eurotassa, un tassa speciale – e si spera rimborsabile a suo tempo almeno in parte – per entrare in Europa. L’inflazione scende al 2.6. Il 24 novembre la lira rientra nel Sistema monetario europeo, lo sme, da cui era uscita nel settembre 1992. La parità centrale è fissata a quota 990 sul marco.

 

1997

Per l’Italia il 1997 è tutta una corsa, faticosa e sudata, per raggiungere il fatidico traguardo del 3 per cento nel rapporto fra deficit e prodotto interno lordo; è la condizione indispensabile per l’ingresso nell’Unione monetaria europea; l’obbiettivo non è facile, visto che nel 1996 il rapporto è stato pari al 6.7 per cento. Il 21 gennaio il governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, riduce il tasso di sconto dal 7.5 al 6.75 per cento; l’inflazione è in calo e cammina sull’1.7 per cento; in giugno il costo del denaro viene ridotto ancora, siamo al 6.25 per cento; lo stato risparmierà diecimila miliardi. Ma la Commissione europea è sempre diffidente; in aprile sostiene che l’Italia non ce la farà e rimarrà sopra il 3 per cento del rapporto deficit-prodotto interno lordo. Renato Prodi si ribella: “Sono calcoli sbagliati” dice. Interviene anche il presidente della repubblica Scalfaro: “Ci ribelliamo a valutazioni da ragionieri”. In marzo il governo approva una manovra sui conti pubblici di 16 mila miliardi e ne vara un’altra a settembre: 25 mila miliardi, di cui cinquemila di risparmi su pensioni e welfare.

 A parte le preoccupazioni di carattere economico e finanziario, l’Ulivo andrebbe bene e il vento di centrosinistra sta soffiando in Europa: in Gran Bretagna, in maggio, il laburista Tony Blair trionfa nel voto politico e i conservatori vanno all’opposizione dopo dodici anni di governo; in Francia, in giugno, il socialista Lionel Jospin diventa primo ministro a capo di una coalizione di socialisti, comunisti e Verdi. In Italia, in maggio, il centrosinistra è in testa per le amministrative in molte grandi città; e in novembre gli elettori premiano i sindaci uscenti dell’Ulivo: Rutelli a Roma, Bassolino a Napoli, Cacciari a Venezia.

 In seguito agli insuccessi elettorali il Polo comincia a litigare; Giancarlo Fini dice che bisogna cambiare e gli ex democristiani (Ccd e Cdu) divorziano. Anche l’Ulivo, però, ha le sue pene. La più grossa è quella di Rifondazione comunista e di Fausto Bertinotti, che in aprile vota contro l’invio in Albania di una missione militare italiana (a favore vota il Polo) e in ottobre si ritira dalla maggioranza perché non accetta i tagli della finanziaria allo stato sociale. E’ la crisi, e già si parla di scioglimento delle Camere e di elezioni anticipate. All’ultimo momento Bertinotti ci ripensa, propone un patto di consultazione di un anno e chiede, e ottiene, la riduzione dell’orario di lavoro a 35 ore a partire dal 2001. La crisi è rimandata.

 A tenere agitate le acque c’è anche Antonio Di Pietro, l’ex pubblico ministero di “Mani pulite”. Si è dimesso da ministro dei lavori pubblici per potere seguire meglio – spiega – le sue personali vicende giudiziarie (che lo vedono e, fino a prova contraria, lo vedranno sempre vincitore) e pensa a costituire un proprio raggruppamento politico che si chiamerà “Italia dei valori”. Intanto accetta l’invito di D’Alema e si presenta candidato dell’Ulivo nelle elezioni suppletive del collegio senatoriale del Mugello. Il Polo gli contrappone Giuliano Ferrara e Rifondazione comunista Sandro Curzi. Antonio Di Pietro trionfa col 67.7 per cento dei voti.

IL 1997 vede anche la creazione della Commissione bicamerale per la riforma della seconda parte della Costituzione: presidenza della repubblica, legge elettorale, federalismo, giustizia. Massimo D’Alema ne è eletto presidente, ma i compromessi faticosamente raggiunti e i ripensamenti di qualcuno manderanno in cenere mesi e mesi di lavori.