1966: l’anno in cui Firenze andò sott’acqua
La terribile notte del 4 novembre 1966. Sommerso il centro storico della città. Lo Stato ha le telescriventi spente. L’Ansa trasmette con un ponte radio militare, ma il governo continua a non sapere niente. Un caso diverso: il terremoto dell’Irpinia nel 1980. L’Arno, il sindaco Bargellini e l’aiuto del buon Dio.

   A Firenze l’Arno cominciò a straripare qualche minuto prima delle cin­que. Per tutta la notte Dante Nocentini, il capo della sede fiorentina del­l’Ansa, era andato su e giù per i lungarni guardando l’acqua che continuava a salire. Poi si fermò in piazza Cavalleggeri: Non poteva prevedere il mo­mento, ma aveva scelto il punto giusto; al termine della piazza il marciapiedi del lungarno Acciaiuoli, che in quel tratto è più alto della strada, finisce con una scala, e il parapetto (la «spalletta», come si dice a Firenze) si abbassa di un metro rispetto al fiume.

 Fu là, proprio davanti al brutto edificio della Bi­blioteca nazionale, che l’Arno prese a tracimare.  Il buio era ancora fitto. Dante Nocentini si mise a correre verso piaz­za Santa Croce, inseguito dall’acqua che avanzava in Corso dei Tintori e, per il momento, si spandeva lenta sul selciato. La sede dell’agenzia era allora in via dei Pucci, a duecento metri da piazza del Duomo. Salì trafelato le scale (non c’era l’ascensore) e dette la notizia a Roma.

  Era il 4 novembre del 1966, un giorno festivo, a quel tempo; era chiamato il «giorno della vittoria», anniversario della vittoria dell’Italia contro l’Au­stria e della fine della prima guerra mondiale, il 4 novembre 1918.

 A Roma l’Ansa funzionava regolarmente, ma tutti gli uffici pubblici erano chiusi; chiusi i ministeri, chiusa la presidenza del consiglio a Palazzo Chigi, chiuso anche il ministero degli interni al Viminale; non c’era neppure un funziona­rio di servizio e le telescriventi dell’Ansa erano ferme; venivano spente la domenica e negli altri giorni di festa. Era il 1966, un anno della seconda metà di questo secolo, ma nessuno, nel Governo e nel Parlamento, aveva pensato che le responsabilità dei cosiddetti pubblici poteri non si esercitano soltanto nei giorni feriali.

   In Toscana pioveva da diciotto ore senza interruzione e tutti i fiumi e i torrenti erano in piena dalla sera prima. Alle sei del mattino le acque dell’Ar­no a Firenze avevano già inondato le zone più basse della città: i quartieri di San Niccolò e di Santa Croce, la periferia di Bellariva. Alcuni avevano fatto a tempo a scappare di casa, molti erano saliti nei piani più alti, chiedendo ospi­talità agli altri inquilini. Via via la corrente elettrica venne a mancare dapper­tutto. Alle nove l’Arno superò le spallette anche tra il ponte alle Grazie e il Ponte Vecchio e tra il Ponte Vecchio e il ponte a Santa Trìnita; in qualche puntò le fece crollare; l’acqua cominciava a invadere il centro della città, da piazza della Signoria a piazza del Duomo. Del Ponte Vecchio non si vedeva­no più le arcate e contro i muri delle botteghe degli orafi si accavallavano ra­mi e tronchi d’albero, trascinati dal fiume.

   L’acqua diventava sempre più veloce e vorticosa e si alzava di livello. Era un’acqua scura, limacciosa e a un certo momento cominciò a mostrare larghe chiazze nere; era il gasolio che usciva dalle cisterne sventrate degli impianti di riscaldamento. Alle 9 e mezzo l’acqua aveva superato, anche nelle strade e nelle piazze del centro, i piani terra delle case e continuava a salire e a diven­tare più impetuosa. Dalle finestre la gente vedeva passare mobili, masserizie, attrezzi, qualche cavallo o gatto morto o cane; poi anche automobili, che an­davano a schiantarsi contro le pareti dei palazzi e i pali dei segnali stradali, divellendoli.

   Alle 9.45 la corrente elettrica mancava in quasi tutta la città e così il te­lefono. Nella sede dell’Ansa le telescriventi non funzionavano più e i re­dattori riuscirono a scappare appena in tempo, prima che l’acqua entrasse dentro i palazzi di via dei Pucci e rendesse impraticabile la strada. Dante Nocentini ebbe un’idea: andare in piazza San Marco e chiedere assistenza al Comando militare della regione. In quella piazza l’acqua non era ancora ar­rivata; vi arrivò più tardi, ma solo fino all’aiuola centrale e al monumento a Manfredo Fanti; lì, infatti, il‑ livello della città comincia a salire. Dal Coman­do l’Ansa riprese a trasmettere a Roma attraverso un ponte radio militare. Erano le dieci.

   Alle 10, a Roma, il presidente della repubblica Giuseppe Saragat si recò a deporre una corona alla tomba del milite ignoto; di Firenze non sapeva nien­te. Alle 10, a Redipuglia, il presidente del consiglio Aldo Moro si accingeva a tributare il rituale omaggio al sacrario dove sono sepolte più di centomila salme di caduti della prima guerra mondiale; non sapeva niente neppure lui.

   Alle 11 il prefetto di Firenze lanciò un appello via radio perché i medici cercassero con ogni mezzo di occupare il loro posto di lavoro negli ospedali non ancora raggiunti dall’inondazione e il sindaco Piero Bargellini invitò chiunque possedesse una barca o un battello di gomma a portarli (ma come?) in Palazzo Vecchio. Anche l’acqua potabile, finché ce ne fosse stata, era bene non usarla.

   Tutte le linee ferroviarie che portano a Firenze erano interrotte: la Roma­-Firenze tra Montevarchi e Figline, la Pisa‑Firenze a Montelupo, la Bologna­-Firenze all’altezza di Grizzana. Tutte le strade erano impraticabili per lunghi tratti; l’Autostrada del sole era chiusa al traffico a nord e a sud, e così la Fi­renze‑Mare. L’unico collegamento con l’Italia e col mondo era quello del­l’Ansa grazie alla collaborazione dell’esercito e del comandante della regio­ne militare, il generale (nomen omen) Centofanti.

   L’agenzia continuava a trasmettere notizie, ma a mezzogiorno il presi­dente della repubblica, come se niente fosse, riceveva al Quirinale il comitato «Premio medaglie d’oro» e il presidente Moro pronunciava a Gorizia un di­scorso per l’inaugurazione del monumento al «fante d’Italia». Solo alle 13.45 il capo dello stato fu informato (dal direttore dell’Ansa, per telefono, visto che non l’aveva saputo altrimenti) di quello che era successo e stava succe­dendo a Firenze; ma forse non si rese ben conto della tragedia: un comunica­to del Quirinale invitò infatti i prefetti a «rendersi interpreti, presso le popo­lazioni, della solidarietà» del presidente. Che cosa poteva fare il prefetto di Firenze, prigioniero ‑ senza telefono e senza corrente elettrica ‑ nel palazzo Medici‑Riccardi, circondato da due metri di acqua vorticosa? E intanto la pioggia continuava a cadere senza soste.

   Anche l’Ansa di Firenze si trovava in difficoltà: non per trasmettere no­tizie (il ponte radio militare funzionava ottimamente), ma per averne, dopo l’interruzione delle linee telefoniche, l’impraticabilità delle strade del centro e anche di tutti i ponti sull’Arno a monte e a valle della città. Di qua d’Arno si poteva immaginare che cosa stava succedendo, ma di là?

   Un primo quadro della situazione si poté averlo soltanto verso le cinque del pomeriggio. Il momento più critico era stato fra le 13 e le 14.30, quando le vie del centro si erano trasformate in torrenti di acque melmose e nerastre, che scardinavano le saracinesche dei negozi e i portoni delle case, trascinan­do via tutto quello che vi trovavano, mobili e suppellettili.

   Le strade parallele al corso dell’Arno erano quelle dove la corrente era più veloce e trasportava non solo tronchi d’albero, bidoni e detriti di ogni genere, ma anche le auto sorprese in sosta, alcune rovesciate e altre che si sfasciavano contro le pareti delle case o si ammucchiavano l’una sull’altra. Nelle strade trasversali il moto dell’acqua era più lento; le auto in sosta non erano state portate via, ma erano sommerse e se ne vedeva soltanto il tetto o poco più.

   Le acque cominciarono a decrescere in serata. Alle 21.42 l’Ansa trasmi­se una lunga notizia di riepilogo: «Firenze è un immenso lago immerso nelle tenebre, un lago di acque limacciose che si estendono per oltre sei chilometri quadrati nei quartieri a nord dell’Arno e in un’area imprecisata nei quartieri a sud del fiume. L’inondazione ‑ la più grossa dal 1270 ‑ interessa due terzi della città. Manca l’acqua, manca il gas, l’energia elettrica è erogata soltanto in alcune zone, il telefono non funziona. La situazione è drammatica nelle case di abitazione e negli ospedali. Anche nelle zone risparmiate dall’inonda­zione scarseggiano i rifornimenti alimentari; nelle altre è impossibile l’ap­provvigionamento».

   Su quasi tutti i quotidiani dell’indomani questo fu 1’«incipit» (ripreso pari pari e, come al solito, senza citare l’agenzia) del servizio dedicato in prima pa­gina all’alluvione dell’Arno a Firenze. Anche i giornali non avevano dato pe­so alle prime notizie dell’Ansa e si resero conto della gravità quando non a­vevano più la possibilità di mandare degli inviati. Molti avevano pensato che l’agenzia avesse drammatizzato l’evento; tutta colpa del direttore, che era fio­rentino: «Va bene voler bene alla propria città» si seppe poi che qualcuno ave­va detto, «ma non esageriamo. Sarà solo piovuto un po’ più del solito».

   La pioggia cessò in serata, finalmente. Alle 21.50 l’Ansa fece un primo bilancio: nell’area inondata case, palazzi, chiese erano state invase dalle acque per un’altezza da uno a quattro metri; quattro metri nel quartiere di Santa Croce (la basilica, il chiostro, la cappella Pazzi, la Biblioteca nazionale), da uno a due metri nel centro storico (il Duomo, il Battistero con le porte scar­dinate di Andrea Pisano e del Ghiberti, il campanile di Giotto, Palazzo Vec­chio, la galleria degli Uffizi, la chiesa di San Lorenzo). I danni? Incalcolabili.

   Nessun intervento pubblico, se non quello, modesto, dei reparti locali dell’esercito e dei vigili del fuoco. Anche le caserme erano state allagate e po­chi erano i mezzi anfibi; salvarono anziani ed ammalati rimasti bloccati nelle case, portarono soccorsi agli ospedali, un gruppo elettrogeno all’ospedale pediatrico (i fiorentini lo chiamano 1’«ospedalino Mayer»), dove i neonati nelle incubatrici rischiavano di morire. Solo in nottata arrivarono dalle re­gioni vicine altri reparti dell’esercito, gruppi di carabinieri, della polizia, del­la Guardia di finanza. Finalmente il governo si era svegliato.

   Trascuratezza? Forse peggio: mancanza di informazione per imprepara­zione e sprovvedutezza. Gli organi centrali e periferici dello Stato erano tutti abbonati ai notiziari dell’Ansa, e in una società moderna un’agenzia di informazione acquista anche, al di là delle sue finalità istituzionali, compiti importanti di servizio di interesse pubblico. È immaginabile che le telescri­venti dello Stato fossero spente nei giorni festivi? Alle 16.30 il presidente del consiglio celebrava a Vittorio Veneto il quarantottesimo anniversario della fine della prima guerra mondiale; nessuno lo aveva ancora avvertito di quello che da più di dieci ore stava accadendo a Firenze. Il ministro degli interni (e­ra Paolo Emilio Taviani) si fece vivo, ma non da Roma, alle 16.45, e solo per­ché la direzione dell’Ansa per ore e ore lo aveva cercato per telefono a de­stra e a sinistra.

   Il caso di Firenze servì di lezione. Presidenza della repubblica, presidenza del consiglio, ministero degli interni, comandi dei carabinieri e della Guardia di finanza si attrezzarono per ogni evenienza; a poco a poco vennero stabili­te reti di collegamento per filo e via radio; nacque la Protezione civile; sareb­bero poi nate anche le «unità di crisi» e perfino le «operation rooms». Le te­lescriventi dell’Ansa non vennero più spente, né di giorno né di notte, nep­pure nei giorni festivi.

   La prima prova importante fu col terremoto che sconvolse la Campania e la Basilicata la sera del 23 novembre del 1980: più di seimila morti e diecimila feriti, trecentomila senzatetto. Fu il terremoto più grave dopo quello di Mes­sina e Reggio Calabria del dicembre 1908 (150 mila morti); molto più grave dei più recenti terremoti, del 1962 in Irpinia e nel Napoletano (21 morti), del 1968 nel Belice in Sicilia (trecento morti), del maggio e del settembre 1976 in Friuli (oltre mille morti).

   La prima scossa fu alle 19 35′ 22″; a Roma fu avvertita poco dopo e l’ANSA ne dette notizia alle 19.40; alle 20.00 localizzò l’epicentro nell’Italia del sud. Le notizie cominciarono a correre una dietro l’altra: dove si era av­vertito il sisma, anche nell’Italia centrale e settentrionale e in Sicilia, e dove si segnalavano crolli di edifici, pochi in Puglia, sempre di più in Campania e in Basilicata, e la gente che scappava di casa e correva verso la campagna; e poi le interruzioni dell’energia elettrica e, parzialmente delle linee telefoniche e poi i primi morti, tutti nelle province di Napoli, Salerno, Avellino, Beneven­to e Potenza.

   Alle 23.28 l’Ansa indicò l’epicentro (40.7 gradi di latitudine e 15.2 di longitudine, cioè a circa dieci chilometri a est di Eboli) e l’intensità delle scosse (del nono‑decimo grado della scala Mercalli la prima scossa, tra il se­sto e il settimo grado le scosse delle 20.05, 20.08, 20.10, 20.38, 21.33). Fino a quel momento l’agenzia aveva trasmesso, in meno di quattro ore, 77 notizie e, complessivamente, più di settemila parole.

   Una diecina di giorni più tardi ci fu un dibattito alla Camera sui ritardi dei soccorsi e l’allora presidente del gruppo democristiano della Camera,Gerardo Bianco, convinto che la causa fosse in una ritardata informazione dal centro, mi telefonò per conoscerne i motivi. Non c’erano stati ritardi o carenze di informazioni da parte dell’Ansa ‑ dissi ‑ e, questa volta, neppu­re ritardi o carenze di intervento degli organi di governo. Come dimostrava­no alcune notizie trasmesse, la Protezione civile si era sùbito messa in allerta; le telescriventi dell’Ansa avevano funzionato. Dovrò allora cambiare il te­sto del mio discorso alla Camera, mi disse Gerardo Bianco; e non capii bene se era contento oppure no.

   Forse no. Gerardo Bianco è nato in provincia di Avellino, e a Avellino si erano manifestati i maggiori ritardi, fra i tanti ritardi che si ebbero negli inter­venti degli organi locali dello Stato in tutte le province colpite. Di lì a poco il prefetto di Avellino fu rimosso dall’incarico: non si era reso conto, sul mo­mento, della gravità del terremoto. Perché? Lo seppi, qualche tempo dopo, dal provveditore generale dello Stato, venuto in visita in agenzia: nella prefet­tura di Avellino si erano guastate le telescriventi dell’Ansa, ne era stata ri­chiesta la sostituzione, ma il Provveditorato non aveva ancora provveduto.

   Un capro espiatorio più importante si era avuto nel gennaio dell’anno prima, quando Giovanni Ventura, imputato per la strage di piazza Fontana a Milano, fuggì da Catanzaro, dove era in soggiorno obbligato, e riparò in Ar­gentina. Il ministro degli interni e il capo della polizia lo seppero dall’Ansa. Il capo della polizia, che era Giuseppe Parlato, fu destituito.

   Ingiustamente. Che, in alcuni casi, un’agenzia di informazioni di certe di­mensioni come l’Ansa o altre, arrivi prima degli organi dello Stato non de­ve essere motivo di presunzione per l’agenzia né di disappunto per gli organi dello Stato. Un’agenzia di informazioni che si rispetti ha, nel proprio paese e all’estero, una rete di fonti come nessun altro può avere e un sistema di tra­smissioni velocissimo; è ovvio che spesso abbia informazioni che altri non hanno o le abbia prima degli altri.

   Così a Firenze in quel maledetto 4 novembre del 1966 e nei giorni che se­guirono. Solo che allora gli incredibili ritardi negli interventi degli organi centrali dello Stato trovarono una spiegazione, sia pure al limite dell’assurdo: le telescriventi spente. Incredibile fu però anche la sprovvedutezza dei fio­rentini. Per tutta la notte fra il 3 e il 4, mentre le acque dell’Arno continuava­no a salire (alle due e mezzo avevano superato di sei metri il livello normale) e la pioggia non accennava a cessare, solo due persone si aggiravano sui lun­garni e ogni tanto si affacciavano alle spallette del fiume: a piedi, Dante Nocentini dell’Ansa e, in bicicletta, una guardia di notte, un certo Romildo Cesaroni. Fu lui che telefonò agli orafi di Ponte Vecchio: «Un Arno così brutto» disse «non l’ho mai visto».

   Gli orafi, perciò, lo sapevano, e infatti si precipitarono nelle loro botte­ghe e portarono via le cose più preziose, mentre il fiume rumoreggiava sotto i loro piedi e il pavimento tremava e a un certo momento mancò anche la lu­ce. Gli orafi sapevano, ma non avvertirono nessuno. E lo sapevano anche al­tri, in prefettura e in questura, lo sapevano i carabinieri, ma nessuno dette l’allarme. Come si faceva a dare l’allarme? Con le sirene, quelle della guerra, che non c’erano più? con la Martinella, la campana del Bargello che aveva annunciato la liberazione della città nell’agosto del 1944? E poi ‑ dicevano tutti ‑ non c’è da preoccuparsi; sarà come tante altre volte, che l’Arno sale e poi decresce. Così l’allarme lo dettero soltanto il Cesaroni agli orafi di Ponte Vecchio e il Nocentini a una Roma con le telescriventi spente.

   I fiorentini si riscattarono il giorno dopo e nei giorni che seguirono. Enri­co Mattei, che dirigeva la Nazione (il nuovo stabilimento tipografico, inaugu­rato qualche mese prima in piazza Beccarla, era sott’acqua, rotative compre­se), fu uno dei pochi a partire da Roma per raggiungere Firenze; con lui c’era anche un ministro, Giovanni Pieraccini, ministro del bilancio (eletto a Firen­ze) e il sottosegretario Ceccherini (pisano; l’Arno era straripato anche a Pisa); arrivarono a tarda sera dopo sette ore passate a zigzagare intorno all’auto­strada (del sole); e anche loro fecero sosta in piazza San Marco, al Comando della regione militare, dove c’era il generale Centofanti e c’era l’Ansa.

   «Non udii pianti né disperazioni» scrisse, un mese dopo, Enrico Mattei. «Né allora, né nella notte ‑ la indimenticabile notte trascorsa in lugubre ve­glia sui bordi dell’altra città, di quella città che l’acqua ci aveva fatta lontana, misteriosa, inaccessibile come il mondo abitato di un altro pianeta, e pure ci sfiorava con l’alito, con il respiro affannoso ‑ mi avvenne di assistere a una sola scena di disperazione». E la mattina dopo: «Vagavo in un’immensa città morta, abitata da uomini vivi che volevano vivere. Il brusio della sera avanti era cessato. Tutti tacevano. Tacevano e lavoravano. I loro arnesi erano le sco­pe e i secchi, i secchi e le scope. Il loro teatro di battaglia era la propria abita­zione e l’abitazione del vicino; la propria bottega e la bottega del vicino».

   Nei giorni seguenti Piero Bargellini, quello che sarebbe passato alle cro­nache come il «sindaco dell’alluvione», amava andare in giro nelle zone più colpite della città, e lo faceva da solo (non era ancora arrivato il tempo delle scorte). Scrittore cattolico, uno dei fondatori del Frontespizio nel 1929, co­nosceva bene i suoi concittadini e non disdegnava l’anima laica della città.

   Una mattina ‑ mi raccontò qualche tempo dopo ‑ capitò in una stradetta del centro, dietro Palazzo Vecchio, il quartiere dove Vasco Pratolini aveva ambientato le sue Cronache di poveri amanti; lì c’era un vecchietto che scari­cava nella fognatura della strada un secchio di acqua melmosa; entrava in casa (la porta se l’era portata via il fiume), lentamente scendeva col secchio vuoto una scaletta che portava in cantina, lentamente risaliva col secchio pie­no; lo versava nella strada, poi riscendeva e poi risaliva.

   «Speriamo che il buon Dio ci aiuti» gli disse Bargellini dopo averlo visto scendere e risalire parecchie volte. E il vecchietto: «E se ‘un ci aiuta, vuol di­re che faremo da soli».