16 dicembre

Col Raggruppamento motorizzato nelle due battaglie di Montelungo gli italiani danno il primo contributo alla guerra contro la Germania al fianco degli Alleati. Dopo molte diffidenze verrà concessa all’Italia la qualifica non di alleata ma di cobelligerante.

Montelungo (o Monte Lungo) è in provincia di Caserta, sopra al comune di Mignano (che ha preso il nome di Mignano Monte Lungo), 15 chilometri a sud di Cassino. I tedeschi ne avevano fatto il punto di forza di una linea difensiva che otto giorni fa ha respinto un primo attacco italiano. E’ stata una battaglia violenta, cominciata da parte inglese e americana la notte del 7. Da un lato due divisioni di fanteria inglesi, dall’altro un divisione americana; al centro gli italiani. Pioveva, c’era tanto fango e una nebbia fitta, che all’alba si è diradata. I tedeschi erano protetti da bunker e campi minati. E’ stato un disastro: degli italiani 47 morti, fra cui quattro dei cinque ufficiali, 102 feriti.

Stanotte e stamani no. L’attacco è avvenuto con maggiore accortezza da parte inglese e americana. Gli italiani hanno mostrato coraggio e slancio. Al generale Vincenzo Dapino, che comanda il Raggruppamento, arriverà un messaggio di elogio del generale Clark, comandante della Quinta armata americana. La conquista di Montelungo è stata la prova decisiva per l’ammissione degli italiani al rango di cobelligeranti. E’ il primo atto della guerra alla Germania che da Brindisi il governo Badoglio ha dichiarato 1i 13 ottobre. Anche Radio Londra ha dato l’annunzio di un contingente italiano che combatte al fianco delle truppe alleate.

Il 1° Raggruppamento Motorizzato è nato il 28 settembre a San Pietro Vernotico, una quindicina di chilometri a sud di Brindisi. Con la costituzione di una pur modesta struttura militare e la successiva dichiarazione di guerra alla Germania Badoglio sperava di ottenere la qualifica di alleato e di scongiurare la prevista resa senza condizioni. Il Raggruppamento ha le dimensioni di una brigata ed è composto da un battaglione di bersaglieri, un battaglione di fanteria, un battaglione controcarro, una compagnia mista di genio e servizi; successivamente avrà anche da un ospedale da campo e da un nucleo chirurgico. Sono reparti che si trovavano dopo l’armistizio nel Sud dell’Italia ed erano composti da militari delle regioni settentrionali, che non hanno ritenuto di trovare un modo per tornare a casa1; ci sono anche reparti che sono riusciti a scappare dalla penisola balcanica e dalla Sardegna, attraversando il mare con mezzi di fortuna.

Il Raggruppamento è stato chiamato “motorizzato”, ma ha solo trecento autocarri scassati, di cui metà a gasolio, e un armamento racimolato con poche munizioni. Desolante l’equipaggiamento; ci sono perfino militari con l’uniforme portata in Africa e chiamata sahariana. E’ l’esercito di un’Italia povera, e si vede. Forse è stato questo che, dopo le prime diffidenze e visto l’impegno dimostrato nelle due battaglie di Montelungo, ha convinto le autorità inglesi e americane a considerare con occhi diversi il possibile contributo degli italiani alla guerra. Alleati, no, come sperava Badoglio, ma almeno cobelligeranti.

Dopo avere occupato Montelungo – 80 morti nelle due battaglie190 feriti, 160 dispersi2 – il Raggruppamento rimarrà nella zona fino a dicembre e dopo si trasferirà nella zona di Agata dei Goti, chiamato a far parte del 2° Corpo d’armata polacco operante alla sinistra dell’Ottava Armata britannica. Alla fine di gennaio il comando verrà assunto dal generale Umberto Utili3, che riorganizzerà il Raggruppamento con altri reparti di bersaglieri, di alpini e di incursori. Il 22 marzo si trasformerà in Corpo italiano di liberazione.4


1Per il 70 per cento il Raggruppamento è costituito da piemontesi, lombardi, emiliani, toscani e marchigiani.

2Come “dispersi” sono indicati anche i militari che hanno lasciato i reparti. Un fenomeno comprensibile. Il Raggruppamento è una sezione dell’esercito regio e i militari sono in maggioranza antimonarchici; sono volontari per combattere l’alleato di ieri in nome di ideali di democrazia e di libertà che non tutti sono pronti a condividere e per cui si può morire.

3Il generale Umberto Utili ha la tomba nel sacrario militare che si trova sulla via Casilina a due chilometri dal paese di Mignano Monte Lungo. Le tombe sono 974 e raccolgono le salme di caduti dell’esercito durante la guerra di liberazione. Davanti al sacrario c’è un piccolo museo.

4 Si veda qui sotto nel “Di più”.

16 dicembre – Di più

– Il Corpo italiano di liberazione nacque il 22 marzo 1944 come corpo d’armata su due divisioni. La prima venne creata fondendo due brigate di fanteria (tra cui il 1° Raggruppamento Motorizzato); l’altra fu la 184a divisione paracadutisti “Nembo”, che dalla Sardegna era riuscita a rientrare nel continente. Del Corpo facevano parte: un reggimento di fanteria su due battaglioni, un reggimento di bersaglieri su due battaglioni, un reggimento di artiglieria su tre gruppi, un battaglione paracadutisti su tre compagnie, un battaglione alpini, un battaglione arditi e tre unità, di carabinieri, del genio e dei servizi. Anche per l’afflusso di volontari la formazione diventò forte di 22 mila uomini e arrivò a 30 mila verso la fine dell’anno.
Trasferito sul fronte adriatico alle dipendenze dell’Ottava Armata inglese il Corpo di liberazione cominciò in giugno l’offensiva. Gli alpini e i bersaglieri avanzavano sul versante
orientale degli Appennini, conquistandohttp://it.wikipedia.org/wiki/Canosa_Sannita Canosa Sannita, Guardiagrele, Orsogna e Bucchianico, mentre i paracadutisti raggiungevano Chieti e risalivano la costa adriatica. Successivamente liberò Ancona, combattendo al fianco dell’armata polacca, e poi Santa Maria Nuova, Ostra Vetere, Belvedere Ostrense, Pergola, Castelleone di Suasa, Corinaldo, Cagli, Urbino, Urbania, fin sotto la Linea Gotica, che i tedeschi avevano creato sugli Appennini.
In settembre il Corpo venne sciolto, perché gli Alleati, avendo bisogno di unità che permettessero una maggiore flessibilità di impiego, promossero la nascita di sei divisioni, che furono chiamate Gruppi di combattimento. All’inizio erano formati dai gruppi “Cremona” e “Friuli; successivamente si aggiunsero i gruppi “Folgore”, “Piceno”, “Legnano” e “Mantova”. I gruppi erano strutturati come divisioni di fanteria binarie, cioè su due reggimenti di fanteria e uno di artiglieria. L’equipaggiamento era inglese e così gli elmetti e le uniformi, che tuttavia avevano mostrine, stellette e distintivi di grado dell’esercito italiano; sulla manica sinistra portavano una fascetta tricolore. Gli organici assommavano a 432 ufficiali italiani e sette inglesi e a circa novemila sottufficiali e truppa. Ad essi si aggiunsero, via via durante l’avanzata, specie nei primi mesi del 1945, unità partigiane o partigiani isolati.
Il gruppo “Cremona” entrò in linea nel gennaio 1945 e, inquadrando i partigiani della brigata Garibaldi “Mario Gordini”, comandata da Arrigo Boldrini (detto Bulow), e poi l’intera “Brigata patrioti della Majella”, partecipò alla rottura difensiva tedesca sul fiume Senio, superò il Santerno per occupare Fusignano e Alfonsine, attraversò il Po con mezzi di fortuna, aiutato dalla popolazione civile di Massa Fuscaglia, e proseguì l’avanzata fino a Chioggia, Mestre e Venezia, il 29 e il 30 aprile. Morti 208 e più di 400 feriti.
Il gruppo “Friuli” entrò in linea l’8 febbraio, avanzò nella vallata del Senio, proseguendo a ovest lungo la via Emilia a copertura delle truppe polacche che liberavano Imola e poi, superati l’Idice e il Savena, arrivò il 21 aprile con altre unità alleate a Bologna. Morti 242 e 657 feriti.
Il gruppo “Folgore” entrò in linea solo il 1° marzo e combatté lungo la via Emilia, con notevoli perdite a Grizzano, occupato il 19 aprile. Caduti 164, feriti 244.
Il gruppo “Legnano” entrò in linea il 23 marzo a sud di Bologna; uno scontro violento il 20 aprile a Poggio Scanno e poi Bologna, Brescia, il 29, e Bergamo il 30. Morti 55 e feriti 279.
Il gruppo “Mantova” e il gruppo “Piceno”non intervennero in combattimento ed ebbero funzioni e compiti di sicurezza.
In aggiunta ai gruppi di combattimento furono formate anche otto divisioni ausiliarie per svolgere compiti logistici e di supporto: la 205a assegnata all’aviazione americana, la 209a in supporto al primo distretto inglese, la 210a assegnata alla Quinta armata americana, la 212a operante in un’area che si estendeva da Napoli fino a Pisa e Livorno, la 227a assegnata al terzo distretto inglese, la 228a assegnata all’Ottava armata inglese, la 230a in supporto alle forze inglesi, la 231a in aiuto a inglesi e americani. Secondo Francesco Fattutta, “L’Esercito nella Guerra di Liberazione (1943-1945)”, sulla “Rivista Italiana Difesa”, agosto 2002, i militari italiani erano, all’inizio del 1945, un ottavo della forza combattente e un quarto dell’intera forza del 15° gruppo di armate alleato
Un singolare episodio avvenne alla fine di aprile e ne furono protagonisti i paracadutisti del vecchio reggimento “Nembo”, inquadrati nel gruppo ”Folgore. Fu l’ultimo aviosbarco della seconda guerra mondiale. Nella notte fra il 19 e il 20 aprile, su richiesta del Comando dell’Ottava armata britannica, 226 paracadutisti italiani furono lanciati nella Bassa padana fra Bologna, Modena, Mantova e Ferrara, allo scopo di infiltrarsi fra le truppe tedesche in ritirata e, appoggiati dai partigiani della zona, di compiere opere di sabotaggio e di guerriglia in appoggio degli angloamericani che stavano avanzando.
Tre ponti furono conquistati e protetti perché non fossero fatti saltare in aria, furono distrutti automezzi e depositi di munizioni, tagliate linee telefoniche. I morti furono 30 e 12 i feriti, ma un fatto tragico avvenne nella campagna di Dragoncello, una frazione del paese di Poggio Rusco, in provincia di Mantova. Quattordici paracadutisti catturarono due tedeschi, ma furono scoperti da una ventina di loro compagni. Gli italiani si rifugiarono in una casa colonica, dove erano due contadini. Ci fu uno scontro violento e morirono tutti: i 14 paracadutisti, i soldati tedeschi e i due civili. Alla casa fu dato fuoco; lo ricorda una lapide fatta affiggere dal Comune di Poggio Rusco e dall’Associazione nazionale paracadutisti e il nome che oggi ha il posto: “Ca’ brusada”. Sulla lapide c’è scritto: “morti per il riscatto dell’esercito italiano”.

– Della battaglia di Monte Lungo parla Geno Pampaloni nel suo libro “Fedele alle amicizie”, ristampato da Garzanti nel 1982. Geno Pampaloni (1918-2001), laureato alla Normale di Pisa, è stato collaboratore di “Italia Libera”, il quotidiano del Partito d’azione, e di Adriano Olivetti come segretario generale del movimento «Comunità». Più tardi è stato direttore editoriale delle case editrici Vallecchi e De Agostini. Come giornalista e critico letterario ha collaborato al “Il Corriere della sera” e poi al “ Giornale” e alla “Voce” di Indro Montanelli e alle riviste “La Fiera letteraria”, “Il Mondo”, “L’Espresso”.

“Montelungo è una groppa ari¬da e scabra che si distende sotto Cassino a oriente della via Casilina. Non fu una giornata felice: c’era nebbia, una pioggerella sottile da giorno dei morti. Gli italiani ripie¬garono (ripresero la quota due giorni dopo). Mentre tor¬navano indietro trovarono gli americani stesi a terra ac¬canto ai pezzi, che masticavano impassibili il loro chewing-gum. Nonostante lo sbarco in Sicilia e a Salerno, .quegli americani erano ancora nel mito 1918: gente che arriva e sistema, che vince la guerra con la potenza, scaricando macchine e armi sulle banchine dei porti. Allora forse an¬ch’essi credevano a questo mito: gli italiani li videro come dèi della guerra, col loro chewing-gum, le facce rasate, quegli sguardi impassibili verso la nebbia.
“Dopo l’azione i reparti italiani tornarono nelle retrovie con una lunga marcia a piedi. Erano molto stanchi e sfi¬duciati: nella notte, una intera squadra della 16a disertò. Anche altrove le diserzioni erano cosa di ogni giorno. Sembrava che non ci fosse niente da fare, che la fuga dell’8 settembre fosse l’ultima pagina italiana di storia militare. La mattina dopo arrivò il generale Utili, il nuovo coman¬dante italiano, e parlò ai soldati.
“Questo Utili era un personaggio molto notevole: qual¬cuno lo ha definito un «rappezzatore» e la definizione mi sembra esatta. Nel libro di Monelli Roma 1943, Utili com¬pare una volta sola e mette una pezza: quando Roatta in fuga lasciò il famoso biglietto alle truppe italiane, «rag¬giungere Tivoli e schierarsi fronte est», tra i pochi rimasti al comando era grande la costernazione per l’idiozia del¬l’ordine; arrivò Utili e corresse «fronte ovest». Che cosa salvò la correzione? Nulla, ma se non altro la logica, che è un aspetto, in certi casi, della decenza. Mandato a coman¬dare il 1″ Raggruppamento Motorizzato dopo la giornata di Montelungo, Utili trovò la gente eterogenea che ho det¬to, poco comandabile, esaurita ed eccitata al tempo stesso. Ne capì il verso del pelo, e comandò molto in silenzio.
“Quella sera, in terra di Puglia, di fronte a uomini sfiducia¬ti, avviliti, male armati, che capivano perfettamente l’inu¬tilità del loro sacrificio (questa volta non era solo il nemi¬co meglio attrezzato di loro; era attrezzato meglio di loro anche l’alleato; affrontare la guerra era veramente un di più) seppe dire delle cose molto umane. A chi protestava: «Perché noi sì e gli altri no? Perché in tutta l’Italia noi soli dobbiamo andare a combattere? È giustizia questa?» ri¬spose con asciuttezza: «Quando c’è qualcuno che sta per annegare, non si fa il conto di quelli che sono capaci di nuotare, prima di gettarsi in acqua». Un’altra volta, più tardi, in un rapporto agli ufficiali: «in queste azioni io non chiedo morti». Si può dire che i tempi erano mutati, che la situazione psicologica degli italiani abbisognava di grande prudenza; tuttavia occorre riconoscere che per un genera¬le ci vuole un certo coraggio per dire quelle parole e conti¬nuare a fare il generale; significa infatti prendere atto della fine di quella retorica del sacrificio che aveva invece rap¬presentato il supremo «valore» per tutto il tempo della sua carriera.
“Il piccolo esercito italiano tornò in linea a Monte Mar¬rone con miglior fortuna. A Monte Marrone c’ero an¬ch’io, e nell’azione successiva che portò alla liberazione di Piccinisco. Ricordo di quell’azione quello che si ricorda della guerra: il paese bellissimo, le larghe chiazze di neve sulle dorsali dei monti, un giovane, elegantissimo capita¬no inglese che comandava le salmerie cavalcando un sau¬ro perfetto, che sembrò, tra quelle montagne, una figura¬zione mitica della civiltà; il rombante e colossale maggio¬re che commentava con il suo vocione le fasi del combat¬timento come le vedeva nella sua fantasia; un misterioso tenente medico, che venne a offrirci sul far della notte una gavetta piena di carne di cavallo e noi lo prendemmo, chi sa perché, per una spia; il freddo della notte all’addiaccio e la gioia per l’arrivo del mulo con la minestra e le borracce del vino. E poi quando gli altri italiani, «borghesi», ci dis¬sero, molto più tardi, che avevano sentito alla radio della liberazione di Piccinisco ed erano corsi agli atlanti a cerca¬re questo Piccinisco, senza trovarlo; ma comunque esiste¬va, esistevano degli italiani che «liberavano». In qualche paese degli Abruzzi e delle Marche, vicini alle linee del fronte, se ne parlò a lungo in segreto. Aveva dato la noti¬zia Radio Londra, forse Radio Bari; radio proibite. C’era dunque gente in Italia che rischiava la prigione per il no¬stro piccolo Piccinisco, per la gran rincorsa dei fanti, per i nostri colpi sparati al di là delle strisce fresche sulla neve?”.


– – Sul “Corriere della sera” del 7 aprile 2005, nella rubrica “Lettere al Corriere”, un lettore chiede a Sergio Romano della proposta del generale Pavone, avallata da Benedetto Croce nell’autunno del 1943, di costituire un corpo di volontari da schierare accanto agli Alleati contro i tedeschi in Italia. Ecco la risposta di Sergio Romano.

“Benedetto Croce non si limitò ad avallare i progetti del genera¬le Giuseppe Pavone. L’idea, ap¬parentemente, fu sua. Dall’edizione integrale dei «Taccuini di guerra», apparsa recentemente presso Adelphi a cura di Cinzia Cassani con un saggio di Piero Craveri, risulta che la questione fu discussa durante una conver¬sazione con il generale Donovan a Capri il 22 settembre 1943. Do¬novan era un avvocato repubbli¬cano, ma amico personale di Franklin D. Roosevelt, e dirige¬va dal 1941 una organizzazione (l’Oss, Office of strategic services) da cui nacque, dopo la fine della guerra, la Cia. Quel giorno andò a trovare Croce con un ca¬pitano, Peter Tompkins, che era stato corrispondente del New York Herald Tribune da Roma e che vi tornò segretamente per stabilire contatti con la Resi¬stenza. Donovan chiese a Croce quali fossero le disposizioni d’animo degli italiani e questi gli rispose: «Quello che tutti i migliori italiani desiderano, quello che darebbe a loro fidu¬cia, sarebbe che si lasciassero formare legioni di combattenti con la bandiera italiana da coo¬perare con l’armata angloameri¬cana per liberare la terra italia¬na dai tedeschi». E allorché Do¬novan gli chiese se c’era qualcu¬no che potesse comandarle, Cro¬ce gli diede il nome del generale Pavone, «di vecchia famiglia pa¬triottica e liberale del Mezzo¬giorno, iscritto al Partito d’azione». L’episodio dimostra che il filosofo, in quel periodo, si buttò a capofitto nell’azione poli¬tica e dimostrò di avere più intel¬ligenza, buon senso e coraggio di quanto non ne avessero alcuni degli uomini politici antifascisti che frequentavano la sua casa. Il progetto aveva una evidente con¬notazione gollista. Croce sapeva che l’autorità di cui de Gaulle go¬deva era stata conquistata gra¬zie al modo in cui il generale era riuscito a creare intorno a sé il nucleo di un esercito francese. L’idea di una «Legione italiana» fece strada. Donovan mandò un appunto al suo comando, gli americani approvarono e Croce, insieme a Pavone, Alberto Tarchiani e Alberto Cianca, decise di creare un Fronte nazionale della liberazione. Ma improvvi¬samente l’idea venne accantona¬ta. Il 31 ottobre Croce scrisse nel suo diario: «Purtroppo le cose dei gruppi di combattimento vanno male. Il generale Pavone ha risposto evasivamente alle mie domande e gli americani lo tacciano di non aver finora fatto niente di pratico». Ma è probabi¬le…che a Badoglio il proget¬to gollista di Croce non piacesse. Temeva che la Legione avrebbe avuto una forte componente re¬pubblicana e che gli sarebbe sfuggita di mano. Nei mesi seguenti, come noto, l’esercito ita¬liano partecipò alla guerra, dapprima con un Raggruppamento motorizzato comandato dal ge¬nerale Utili, poi con un Corpo italiano di liberazione e infine con alcuni gruppi di combatti¬mento (Cremona, Folgore, Friu¬li, Legnano) che combatterono nella pianura romagnola”.